Il
silenzio regnava nella stanza, rotto solo dai mugolii di Luana.
L’anziana
donna, legata, imbavagliata si agitava e e saettava lo sguardo ora a
destra, ora a sinistra, in cerca di una via di fuga. Ricordava di
essere stata aggredita da un ladro.
Ne
ricordava il viso, coperto da una sciarpa di lana nera, malgrado la
giornata estiva, e il coltello stretto nella mano.
Aveva
cercato di allontanarlo dandogli il suo denaro, ma lui l’aveva
colpita con un violento pugno.
Il
dolore, come un’onda, aveva sommerso il suo corpo e lei era
svenuta.
La
porta, con uno scatto, si aprì e un giovane uomo di alta
statura e di corporatura robusta, avvolto in un ampio cappotto nero e
con indosso un sombrero del medesimo colore, entrò nella
stanza.
I
suoi occhi castani, dal taglio allungato, fissavano il corpo della
donna, legato sul letto, e la sua fronte si corrugò. Quella
donna, apparentemente così fragile, nascondeva un animo
fanatico e crudele.
Tanti
anni fa, lei si era servita di lui come di un oggetto e non aveva
esitato a sfogare su di lui le sue perversioni sadiche.
Sfruttava
la sua forza di donna adulta, ben superiore a quella di un bambino
esile.
Ma
la situazione si era ribaltata.
Il
bambino era diventato un adulto e lei si stava avviando verso la
vecchiaia.
– Oh,
hai paura? Ne sono lieto. – domandò lui, sarcastico. Il
suo naso avvertiva il disgustoso odore del terrore di lei.
Forse,
non era nemmeno riuscita a controllare i suoi sporchi sfinteri.
Ma
non gli importava.
Lei,
Luana Sanchez, doveva essere torturata.
Voleva
inebriarsi della sua sofferenza e gustare il suo dolore, prima di
ucciderla e liberare il mondo da un soggetto come lei, indegno di
vivere.
Si
ammantava d’una santità ben lontana dalla verità
e, nel segreto della sua casa, maltrattava e picchiava i suoi figli.
Si
abbassò il bavero del cappotto e scoprì e un volto dai
lineamenti duri, circondato da una folta chioma castana, devastato
sul lato destro da una grave ustione.
Luana
si agitò e sbarrò gli occhi. No, non poteva essere lui…
Un
mezzo sorriso sollevò le labbra sottili del giovane.
– Sì,
mamma. Sono io, Francisco. Il figlio che tu hai picchiato e
ustionato, perché aveva osato rompere, senza volerlo, un
prezioso vaso cinese. Sono il figlio che tu hai bastonato, perché
difendeva suo fratello Ruben e sua sorella Irina, prendendosi colpe
non sue. Sono proprio io. Sono il figlio colpevole di assomigliare
troppo a suo padre. Sono sopravvissuto e sono diventato forte, molto
più forte di te. – rispose lui, gelido. Tutti i ricordi
dei maltrattamenti subiti emergevano nella sua mente.
L’odio
verso quella donna si accendeva sempre di più.
Aprì
il cappotto e prese una frusta.
Poi,
la tese tra le mani e un lugubre schiocco risuonò nell’aria.
Luana
sbarrò sempre più gli occhi, inorridita.
– La
giustizia è stata troppo clemente con te. Ha cercato scuse
patetiche per liberarti e non darti la pena meritata. A te la
libertà, a me e a Irina la prigione di un ospedale
psichiatrico. Sì, perché Ruben è morto, mamma.
Si è impiccato, incapace di accettare quei maltrattamenti. Non
lo sapevi? – domandò, lo sguardo fisso su di lei.
Si
prese una pausa e batté la frusta sul pavimento.
– Il
Fato, con papà, è stato equo. ‘E morto solo,
consumato dalla Sclerosi Laterale Amiotrofica. La giusta punizione
per averci abbandonato nelle mani di una belva come te. Se non ci
avesse pensato la Natura, avrei fatto io. – dichiarò,
inebriato. Il terrore puro dipinto sul patetico viso di lei inebriava
il suo animo.
Era
lui il più forte.
I
ruoli si erano ribaltati e poteva sottometterla e umiliarla.
Si
era compiaciuta della sua forza e doveva conoscere il dolore
dell’impotenza.
Il
bambino si prendeva la rivalsa sull’adulto tronfio e stupido.
– Solo
tu resti qui e contamini questo mondo. Ma rimedieremo presto. –
disse, compiaciuto. Il momento della vendetta era giunto.
Sollevò
il braccio armato e la frusta, implacabile, si abbatté sul
corpo della donna.
Questa
si contorse, dilaniata dal dolore. Non riusciva a pensare a nulla, in
quel momento.
Le
scudisciate, precise, crudeli, implacabili, occupavano ogni recesso
della sua mente.
– Oh,
senti il peso dell’impotenza? Non puoi reagire, puoi solo
subire e piangere. Io, Ruben e Irina abbiamo provato tante volte
questa sofferenza. E questa era per mano di nostra madre. Lei, che
avrebbe dovuto difenderci, ci colpiva. Perché? –
domandò.
La
sua voce, prima ironicamente gelida, si colorò d’una
nota amara. A scuola, spesso, aveva veduto scene affettuose tra i
suoi compagni e le loro figure d’accudimento.
Certo,
non mancavano contrasti, ma molti suoi compagni e compagne potevano
contare sul loro amore incondizionato.
Perché
a lui, a suo fratello e a sua sorella era stata negata tale
possibilità?
Perché
erano stati costretti a nascere e a condurre un’esistenza priva
di amore?
Ringhiò.
Certe persone, così disturbate e prive di empatia, non
dovevano condannare innocenti a vivere una vita lacerata.
E
la giustizia doveva isolarle e impedire loro di procreare.
Qualche
minuto dopo, smise di usare la frusta. Si era servito di una forza
eccessiva e il braccio gli doleva.
Ma
era soddisfatto e sereno.
Lacrime
amare rigarono le sue guance. Gli pareva, in quel momento, di vedere
il viso di Ruben sciogliersi in un sorriso.
Ma
non era ancora finita.
Mise
una mano in tasca, prese un accendino e lo accese. Il fuoco avrebbe
svolto una funzione purificatrice.
E
avrebbe aumentato il dolore di quel corpo immondo.
Lo
gettò sul letto e, ben presto, alte fiamme circondarono Luana.
– Buon
viaggio, mamma. – mormorò lui, ironico.
Poi,
a passo rapido, si avviò verso la porta e uscì.
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