Il diritto di piangere

di Ellery
(/viewuser.php?uid=159522)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Il diritto di piangere
 

Kaeya si strinse nel cappotto umido. Una lieve pioggerellina cadeva da non più di mezz'ora. Lo aveva accompagnato nel tragitto sino alla Dawn Winery, permettendogli di mescolare le lacrime alle gocce. 

Superò un’ultima svolta prima di scorgere la familiare sagoma del maniero stagliarsi contro il cielo scuro. Quella notte era buia ed eccessivamente lunga. Non sapeva neppure se avrebbe rivisto l'alba. 

La sua divisa era ancora macchiata di tracce ematiche, là dove il sangue di Crepus Ragnvindr l'aveva bagnata. Era arrivato tardi, troppo per poter salvare il padre. Aveva assistito impotente alla sua morte, con Diluc che cercava disperatamente di porre fine alle sofferenze del genitore. Non sarebbe dovuta andare così quella giornata: avrebbe dovuto essere allegra, ricca di gioia e spensieratezza. Invece, suo fratello aveva ricevuto il peggior dono di compleanno: il destino gli aveva rubato per sempre il sorriso, lasciandolo a stringere il corpo inerte del padre. 

Si era occupato della scena del crimine, come sempre, mentre alcuni cavalieri scortavano Diluc da un guaritore. Aveva raccolto indizi, controllato ogni traccia, aiutato ad avvolgere la vittima nel sudario. Le parole di conforto dei colleghi gli erano scivolate addosso, come ora la pioggia ruzzolava dalle spalle curve. Non aveva pianto, lottando costantemente contro il nodo che gli stringeva la gola. Non aveva il diritto di piangere. 

Amava Crepus come fosse un vero padre. In fondo, lo era stato per lui: lo aveva accolto, sfamato e vestito. Lo aveva salvato in una notte tempestosa, simile a quella. Gli aveva dato una casa e un affetto sincero. Aveva allevato una piccola serpe senza neppure rendersene conto; la stessa che, quando aveva scorto il cadavere, aveva provato una punta di sollievo.

Posso tornare alla mia missione, si era detto, vergognandosi immediatamente. Poi… il dolore aveva annegato quelle parole, gettandole negli abissi più oscuri della coscienza. Eppure, le sentiva ancora lí, pesanti nella mente come macigni. 

Slacciò il colletto della camicia, sentendosi soffocare. Il passo insicuro lo condusse lungo il sentiero che correva dritto nel cuore della tenuta. Le ginocchia molli minacciavano di abbandonarlo, mentre il cuore gli martellava furiosamente nel petto. 

Non è una buona idea, si sussurrò, ma non poté fare a meno di continuare a camminare. Doveva togliersi quel peso al più presto. Non poteva mentire ancora… Diluc aveva il diritto di conoscere la verità. 

Sono stato uno sciocco, proseguì, avrei dovuto vuotare il sacco molto tempo fa

Era rimasto in silenzio per anni, incerto su dove risiedesse la propria lealtà. Il suo cuore batteva per Mondstadt da parecchio, ma non riusciva a liberarsi dai vincoli che lo legavano a Khaenri'ah. Quel giuramento - strappato ad un ingenuo bambino - gli schiacciava la mente, alimentando le sue paure. Cosa sarebbe accaduto, se lo avesse infranto? Le legioni di Khaenri'ah sarebbero insorte per vendicarsi del suo tradimento? Avrebbero bruciato Mondstadt, trucidato i suoi abitanti e distrutto le statue di Barbatos… O forse si sarebbe trasformato in un mostro? Sarebbe diventato la brutta copia di un Mitachurl, mezzo uomo e mezzo toro. E cosa avrebbero detto i Ragnvindr? Lo avrebbero rinnegato e scacciato per sempre dalle loro vite… 

Non voleva perderli. Non voleva dire addio a quella routine quotidiana, che lo faceva sentire come un ragazzo qualunque: una persona normale, felice delle piccole cose che la vita poteva regalare.

Per questo, aveva sempre rimandato il momento della verità. Solo ora capiva la stupidità di quella indecisione: Crepus avrebbe riso delle sue preoccupazioni. Se fosse stato onesto fin da subito, i Ragnvindr lo avrebbero aiutato ancora una volta. Diluc avrebbe combattuto da solo contro tutta Khaenri'ah, se questo fosse servito a salvarlo….e Crepus avrebbe fatto lo stesso. 

Per i Sette, che ingrato era! Non meritava la fiducia che avevano riposto in lui e...adesso era tardi. Era troppo tardi per correre da Crepus e raccontare la realtà dei fatti; per vedere il suo viso addolcirsi e ricevere un caldo e confortante abbraccio. 

Gli restava soltanto una persona con cui confidarsi. L'ultima che gli era rimasta e che per nulla al mondo avrebbe voluto perdere.

 

***

 

Adeline gli aprì la porta, tendendo un asciugamano.

"Mastro Kaeya… siete fradicio. Prendete questo." Benché si sforzasse di mantenerla ferma, la voce della donna tradiva una nota tormentata.

Accettò il telo con un cenno, frizionando velocemente i capelli e passandolo sul viso. Fissò la cameriera per qualche istante: le ciocche arruffate sfuggivano alla cuffietta e il vestito nero era stato frettolosamente indossato. Il grembiule era allacciato storto, ma la giovane non sembrava essersene accorta. Gli occhi erano arrossati e gonfi.

"Grazie" disse solo, gettandosi la salvietta attorno al collo.

"Abbiamo saputo della notizia. Mi dispiace così tanto."

Colse le lacrime bagnarle di nuovo le guance pallide. Kaeya mosse un passo verso di lei, attirandola in un abbraccio. La sentì abbandonarsi contro le proprie spalle e sciogliersi in singhiozzi.

"Andrà tutto bene, Adeline."

"Come è successo? Come è potuto…?"

"Un assalto alla carrozza dove viaggiava."

"Perché? Perché proprio lui?"

"Non lo so…"

Non aveva ancora avuto il tempo di esaminare gli indizi e la sua mente non era abbastanza lucida per un compito simile. Avrebbe fatto il possibile per scovare i responsabili, ma vi era un tempo per tutto: ora era il momento del dolore, della disperazione e del pianto.

"Cosa accadrà, adesso?"

"Non hai nulla da temere. Diluc si prenderà cura di noi."

Colse un lieve cenno d'assenso, poco convinto. 

Mosse un passo indietro, fissando l’ingresso con l’unico occhio. La stanza era immersa in un profondo silenzio, ma in lontananza si potevano sentire i gemiti affranti degli altri servitori. Preoccupazione e malinconia solcavano i corridoi della Dawn Winery. Era assurdo pensare come, fino a dodici ore prima, quel posto sprizzasse allegria. Si chiese se mai l’avrebbe rivista così: con Adeline che adornava i davanzali di fiori freschi, con la vistosa torta di frutta al centro del tavolo e con i regali ancora incartati in fondo alle scale, pronti ad accogliere il risveglio del giovane padrone. 

Tese l’orecchio, quasi aspettandosi di sentire i pesanti passi di Crepus salire dalle profondità della cantina; di vederlo spuntare dal retro con un sorriso raggiante e una bottiglia di buon vino stretta tra le mani. 

Non accadde nulla e dal seminterrato non giunse nessuno.

Sospirò, obbligandosi ad affrontare la realtà.

“Dov’è Diluc?”

“è uscito poco fa, diretto al lago.”

“D’accordo… lo raggiungo.” disse, voltandosi per scivolare di nuovo alla porta. La ragazza lo afferrò per un braccio, stringendolo con forza.

“Ha detto che desiderava rimanere solo.”

“Ho bisogno di lui, Adeline” sussurrò. 

Sentì la presa allentarsi gradualmente.

“Non vi cambiate prima? La vostra divisa è bagnata e macchiata.”

Scosse il capo, osservando rapidamente l’uniforme dei Cavalieri di Favonius. La giacca blu era sgualcita e inzuppata sulle maniche e sulle spalle. Il gilet e la camicia recavano ancora tracce rossastre e i pantaloni erano coperti di terra dalle ginocchia in giù. Nel fodero della spada si erano impigliati i semi dei denti di leone.

“No, non occorre” si sforzò di mimare un sorriso leggero “Mi sporcherò comunque, andando laggiù.”

Con un inchino, Adeline lo accompagnò all’uscio:

“Come desiderate, Mastro Kaeya. Prendete almeno questi!” gli piantò in mano un mantello color vinaccia e una lanterna “Abbiate cura di voi.” lo salutò, richiudendo l’ingresso oltre le sua schiena.

 

***

 

Il lago non distava molto dal maniero. Da piccolo, aveva amato quel luogo: uno specchio d’acqua solitario, ai confini del regno. La vista su Dragonspine era impareggiabile: l’austera montagna dominava lo scenario, tanto vicina da lasciar viaggiare i propri fiocchi di neve sino alla tenuta anche nei mesi primaverili. Ne era indiscutibilmente attratto: così imponente, fredda e oscura; profumava di pericolo e avventura. Avrebbe voluto visitarla almeno una volta nella vita.

Kaeya scese un ultimo tratto ripido, appoggiandosi ai rami protesi di una betulla, prima di raggiungere la riva. Si guardò attorno, sollevando la luce per rischiarare il luogo. Avanzò di qualche passo, incerto se chiamare o meno il fratello a gran voce. 

Infine, lo vide. Una figura inconfondibile stava accucciata su una roccia sporgente. Le punte dorate delle scarpe lambivano appena la superficie dell’acqua, mentre la voluminosa Claymore era piantata nel terreno, giusto accanto al proprietario. I capelli rossi cadevano disordinati, trattenuti a stento da un nastro quasi sciolto. Il volto stanco era chino su un oggetto che le mani stringevano con troppa foga. Gli occhi fissavano il vuoto e non si degnarono di guardarlo neppure quando si avvicinò.

Kaeya si slacciò il mantello e lo lasciò scivolare sulle spalle dell’altro. 

“Non stare qui fuori, sotto la pioggia. Ti prenderai un raffreddore.” disse, spiando per un istante il cielo, da cui le gocce cadevano più fitte. Riportò l’attenzione al fratello e all’oggetto che si rigirava tra le dita. Riconobbe immediatamente il vecchio orologio da taschino di Crepus “Che stai facendo?” domandò dolcemente.

Diluc gli rivolse finalmente un’occhiata incerta:

“Volevo provare a sistemarlo. Papà ci teneva. Rammenti come ci rimase male, quando scoprì che le lancette battevano l’ora in ritardo?” annuì, come a confermare quelle parole e Diluc si affrettò a proseguire “La vita sembra migliore quando riesci ad aggiustare qualcosa, sai?”

“Luc…”

“Non riesco a capacitarmene. Tutto questo… mi sembra solo un orrendo incubo. Voglio svegliarmi” la voce del fratello si incrinò pericolosamente, sfociando poi in una rabbia sommessa “Svegliami! Svegliami... è un sogno, no? Domani mattina sarà fantastica. Adeline ci preparerà la colazione e cavalcheremo fino a Mondstadt insieme. Anzi, no! Prima mi darai il tuo regalo. Poi andremo ad Angel’s Share; Charles mi avrà preparato una festa a sorpresa, ma fingerò di non saperlo. E poi…” un singhiozzo interruppe quell’elenco. Una mano fredda scivolò tra le proprie, cercando calore e rassicurazione “Ho soltanto te, ora. Sei ciò che rimane della mia famiglia.”  

Kaeya deglutì a vuoto e ritirò frettolosamente le mani, quasi colpevole. Il rimpianto corse ad agitare il suo stomaco. Percepì la bile risalire nell’esofago e una morsa serrargli la gola. Ricacciò indietro le lacrime, battendo furiosamente le palpebre. Non avrebbe pianto. Non ne aveva il diritto. 

 

Diglielo! urlò una voce nella sua testa.

Non posso…

Diglielo! Non puoi continuare a nasconderti.

Lo ferirò.

Codardo.

Non lo sono!

Lo sei. Il peggiore di tutti. Ti sei sempre nascosto dietro un muro di bugie e ora che devi affrontare la verità, hai paura. Non puoi rimandare l’inevitabile. Si sta affidando a te e tu gli stai mentendo ancora. Diluc non ha abbastanza coraggio per entrambi, questa volta. Adesso, spetta a te. Puoi continuare con le tue fandonie, ma… per quanto? Credi di riuscire a svegliarti domattina e guardarti allo specchio come se niente fosse, dopo quanto hai fatto? Dopo quello che hai pensato! Eri sollevato, quando l’hai visto. Non negarlo! Eri felice che l’ultimo ostacolo alla tua missione si fosse levato di mezzo. Che vergogna! Crepus si sarebbe buttato nel fuoco per te… e così anche Diluc. E tu come li ripaghi? Rannicchiandoti nuovamente nella menzogna. Preferisci servire una nazione che ti ha abbandonato, che le persone che ti hanno amato come un figlio ed un fratello.

Lo perderò!

Lo perderai comunque se taci. 

 

Annuì silenziosamente, prendendo in profondo respiro. Cercò di sciogliere la tensione nello stomaco, ma senza successo. Il nodo rimase a chiudergli la gola, strozzando la voce.

"Luc… c'è una cosa di cui vorrei parlarti."

Lo sguardo confuso dell'altro salì al proprio. Ricevette un frettoloso assenso.

 

Sei ancora in tempo a tornare indietro. Inventa una scusa!

Diglielo!

 

Il fratello lo stava fissando con un misto di speranza e preoccupazione. 

 

Menti! Dì che stai indagando, che sei già sulle tracce di un possibile colpevole

Diglielo!

 

Non devi farlo per forza ora. Domani, dopodomani...un giorno varrà l'altro, ma non adesso.

Diglielo!

 

"Io sono…" si interruppe, umettando nervosamente le labbra "...una spia di Khaenri'ah."

Era fatta! Lo aveva ammesso. Il peso in fondo al suo stomaco sparì immediatamente. Il cuore rallentò e il respiro tornò a normalizzarsi. Sentì il sollievo invaderlo. Le labbra si piegarono in un sorriso orgoglioso: aveva fatto la cosa giusta. Aveva spezzato il giuramento e scelto dove fare risiedere la propria lealtà. Finalmente era libero. 

Scrutò il volto di Diluc, leggendovi confusione e sconcerto:

"Come..?"

"Io… sono stato lasciato a Mondstadt con uno scopo preciso: raccogliere informazioni e riferirle a Khaenri'ah. Mio padre… mi ha abbandonato presso la tenuta per questo. Sperava che potessi trovare una collocazione all'interno della vostra magione… e così potessi raggiungere la città."

"Ci hai usati…"

"No! Cioè sì, ma… no. Non ho mai fatto nulla del genere. All'inizio, forse; ho provato a cercare indizi, così che sarei stato pronto se mio padre fosse tornato. Ma poi… mi sono affezionato a voi, ai ragazzi della cantina, a Jean, a Mondstadt. Ho trovato il mio posto e non ho più pensato a Khaenri'ah."

"Ti sei intrufolato tra noi soltanto per derubarci!"

"Non hai ascoltato quello che ti ho detto? Non ho mai passato nulla a Khaenri'ah. Io… non saprei nemmeno come contattarli! Sono sempre stato fedele a Mondstadt, solo… non me ne ero mai reso conto."

Gli occhi di Diluc erano coperti da una patina umida. Aveva lasciato cadere l'orologio e si stava torcendo le dita.

"E… tutte quelle storie, quelle promesse?"

"Erano reali! Non sono mai state finte."

"Volevi entrare nei Cavalieri soltanto per ottenere materiali per la tua ricerca."

Scosse il capo:

"Ti sbagli! L'ho fatto perché ci credevo realmente e… perché volevo stare con te e rendere orgoglioso nostro padre."

“Non chiamarlo così! Non sono passate che poche ore, e tu già infanghi la sua memoria!”

“Niente affatto! Volevo solo…”

Un manrovescio lo mandò a ruzzolare per terra. Si rialzò sulle ginocchia, massaggiandosi la guancia colpita. L’umiliazione bruciava più dello schiaffo. Ritrasse le dita, affatto sorpreso nel vederle macchiate di sangue: dall’angolo delle labbra colava un sottile rivolo; poteva sentirlo scivolare lungo il mento e cadere in gocce sul colletto della camicia. Sollevò lo sguardo, incrociando quello furente dell’amico. 

“Luc…” sussurrò.

“Non eri suo figlio e non sei mio fratello.” Diluc aveva impugnato la Claymore, estraendola dal terreno morbido con un gesto fluido “Prendi la tua spada, traditore.”

Scosse il capo, rimanendo rannicchiato al suolo:

“Non voglio combattere contro di te.”

Percepì la lama appoggiarsi al suo collo. Deglutì a vuoto, nascondendo frettolosamente il tremolio delle mani. L’altro lo stava fissando come fosse un fastidioso insetto da schiacciare. Che sciocco era stato! Si era illuso di poter ricevere il perdono e non un castigo ancora più duro della propria colpa. Non voleva morire, ma poteva accettarlo se era per mano di Diluc. Se lo meritava: dopo una vita costruita sulle menzogne, avrebbe finalmente saldato il debito. Quello era il prezzo per la verità; la ricompensa per essere stato onesto. 

“Alzati. Non te lo ripeterò una seconda volta.”

Il filo gli punse delicatamente la pelle. Era l’ultimo e leggero avvertimento; il prossimo avrebbe potuto essere fatale. 

Si sollevò sulle ginocchia malferme, obbligandosi a sguainare la spada e sollevarla il posizione di difesa. 

“Ti prego…” supplicò.

L’urlo disumano di Diluc squarciò la notte e le lame si scontrarono con un sinistro tintinnio. Kaeya indietreggiò immediatamente, cercando stabilità sul terreno fangoso. Era un bravo spadaccino, ma nessuno era all’altezza del giovane capitano Ragnvindr. Diluc si muoveva con una grazia ultraterrena. Maneggiava la Claymore come fosse la piuma di uno scrittore; le permetteva di volteggiare nell’aria come una ballerina. La calava inesorabile sull’obiettivo, senza lasciare via di fuga. Il fuoco rispondeva al suo richiamo, danzandogli attorno simile ad un amante impaziente. Vederlo combattere era impagabile e indubbiamente letale. Sorrise amaro: sarebbe morto con quello spettacolo negli occhi.

Scartò di lato, evitando d’un soffio un montante che gli avrebbe tranquillamente trapassato lo stomaco. Sentì la delusione esplodergli nel petto: Diluc stava davvero cercando di ammazzarlo. Combatteva come mero sfogo dei propri sentimenti; una furia cieca lo dominava, spegnendo completamente il raziocinio. Si muoveva in modo irruento, poco calcolato, ma comunque pericoloso. Brandiva lo spadone come fosse un’ascia, cercando semplicemente qualcosa in cui affondare la lama; come se volesse tagliare a pezzi la disperazione di quel giorno… come se desiderasse semplicemente di uccidere il dolore, incarnato nello sfortunato fratello. 

No, non lo sono più, pensò, concentrandosi sullo scontro. 

Mancò di un soffio l’ennesimo affondo, ma non fu abbastanza veloce col successivo: la pesante lama gli tagliò il fianco sinistro. Tamponò frettolosamente l’emorragia con il palmo, stringendo i denti per continuare a lottare. Ogni passo era una fitta bruciante che dall’anca si diramava in tutto il corpo. 

“Luc, basta…” ringhiò, ma l’altro sembrava sordo ad ogni supplica. 

Sollevò la spada per bloccare il colpo successivo, e l’elsa vibrò nel suo pugno.

Muoviti! Continua a muoverti. Non hai speranze di batterlo. Puoi solo cercare di sfinirlo. Quando sarà stanco, desisterà. Si disse, consapevole di quell’ennesima bugia. 

Diluc non si sarebbe mai arreso. In preda alla rabbia, lo avrebbe inseguito fino in capo al mondo pur di strappargli l’ultimo respiro. Doveva cercare di farlo ragionare, di restituirgli un po’ di lucidità. Allora, forse… sarebbe riuscito a sopravvivere. 

“Smettila, Luc! Non sei in te!” pregò, abbassando cautamente la lama e avvicinandosi di qualche passo. L’altro lo spinse semplicemente via. Gli stivali slittarono sul terreno fangoso. Inciampò e Diluc ne approfittò: con un fendente gli graffiò il petto, affondando poi nella coscia destra. La gamba cedette immediatamente, incapace di sostenere il suo peso. Cadde nel fango e la spada gli scivolò dalle mani. Non cercò neppure di recuperarla. Si premette i palmi sul torace: la ferita era superficiale e non aveva intaccato alcun organo, ma pulsava come fosse stata incisa col fuoco.

Sollevò lo sguardo: il filo della Claymore riluceva di un sinistro bagliore, quasi fosse incandescente. Le gocce di pioggia svanivano non appena toccavano l’arma, disperdendosi con piccoli sbuffi di vapore. 

“Capisco…” disse, amareggiato “Ora chi è il traditore?” sputò “Non sei neppure capace di combattere lealmente.”

“Sei tu. Sarai sempre tu! Io ti sto ripagando con la tua stessa moneta.”

Diluc chiamò nuovamente il potere e la Visione lampeggiò alla sua cintura. La lama si tinse interamente di un arancione brillante, mentre piccole fiamme danzavano dall’elsa alla punta. Un sorriso acre si dipinse sulle morbide labbra:

“Addio, fratello.”

Vi erano scherno e disprezzo in quell’ultima parola; bruciò più di qualsiasi ustione. 

Kaeya alzò lo sguardo, fissando la Claymore pronta a calargli sul capo.

“Addio” rispose, chiudendo l’unico occhio.

Sollevò istintivamente un braccio, quando sentì l’aria fischiare. Attese che il colpo gli spaccasse il cranio, gli rompesse le ossa e incendiasse le carni. 

Non accadde nulla. Percepì soltanto un vento gelido spirare attorno a sé, correre lungo gli arti e raggiungere la punta delle dita. Ascoltò un tintinnio leggero e, poco dopo, un tonfo. Si azzardò a spiare da sotto la palpebra. 

La Claymore giaceva a terra, completamente spenta. Poco lontano, il suo proprietario stava lottando per rialzarsi, attorniato da punte di ghiaccio che si stagliavano contro il cielo. Tra i capelli rossi, facevano capolino cristalli gelati, gli stessi che - come dei sottili pugnali - avevano strappato la divisa del capitano e gli avevano graffiato viso e mani. 

Sconcerto e incredulità modellavano i tratti di Diluc: gli occhi sgranati fissi su di lui, le labbra tremanti e l’espressione completamente sconvolta.

Kaeya abbassò lo sguardo, incrociando l’oggetto di tanto interesse: una Visione Cryo giaceva nel suo grembo, condensando le gocce di pioggia in minuscoli fiocchi di neve.

“No…” sussurrò, afferrando il gioiello. Era pesante, ma si adattava perfettamente al suo palmo. Percepiva il freddo attraverso i guanti, ma non lo trovava sgradevole. Deglutì a vuoto, mentre la morsa familiare tornava a stringergli lo stomaco. Aveva appena ricevuto una Visione, ma… perché? Perchè, tra tutti, gli Dei avevano scelto proprio lui? Un peccatore sputato da una nazione in declino; un esiliato senza una casa a cui poter tornare…

La risposta gli rimbalzò improvvisamente nella mente. 

 

Perchè hai fatto la cosa giusta. 

 

La verità lo aveva infine premiato, ma… a che prezzo? Se per ricevere una Visione doveva passare attraverso a quell’inferno, non era sicuro di volerla. Pensò di gettarla nel lago, ma le sue dita si chiusero istintivamente sull’oggetto, rifiutandosi di lasciarlo andare.

Fissò l’avversario, che faticava a rimettersi in piedi.

“Luc… mi dispiace! Non volevo… non l’ho fatto apposta.”

Come avrebbe potuto? Quel dono era del tutto inaspettato. 

Diluc, però, non lo stava guardando. Fissava il cielo con un sogghigno disgustato e disilluso. Aveva raccolto la Claymore, puntandola alle nubi ancora gonfie di pioggia. Rideva sommessamente e sembrava pazzo.

“è costui che volete?” tuonò, accordandogli un’occhiata veloce “Che ritenete degno di un onore simile? Questo serpente… credete sia all’altezza di una tale responsabilità?” abbassò l’arma, lasciando cadere la punta sul terreno “Bene. Mi rimetto a voi. Chi sono io, per contrastare la volontà degli Dei?” chiese. 

Lo vide voltarsi in sua direzione.

“Barbatos ti ha appena salvato la vita. Fossi in te, gli offrirei una coppia di colombi domani.”

Kaeya cercò di rialzarsi, ma la sua gamba cedette nuovamente. Rimase inginocchiato nel fango, stringendo a sé la Visione.

“Diluc, lasciami spiegare.” 

L’altro lo interruppe nuovamente.

“Ti concedo un’ora per raccogliere le tue cose e sparire dalla mia vita per sempre. Non ti avvicinerai mai più alla tenuta. Se lo farai, finirò il lavoro di questa notte.”

“Aspetta, per favore!”

La sua supplica cadde nel nulla.

L’ultima cosa che vide fu la figura china di Diluc allontanarsi lungo il sentiero che riportava alla magione; poi, la stanchezza lo sopraffece, lasciandolo scivolare nell’incoscienza.

 

***

 

Kaeya si risvegliò lentamente, con un profumo di pane caldo che gli solleticava le narici. Riaprì l’unico occhio, trovandosi a fissare il familiare soffitto della Dawn Winery. Era stato solo un brutto sogno?

Sospirò sollevato, stiracchiando le braccia oltre le spalle. Una fitta gli attraversò il fianco e corse attraverso il petto. Gemette e si rannicchiò nuovamente, cercando di contenere il dolore. No, purtroppo quella era la realtà. 

Si mise cautamente a sedere, mentre Adeline irrompeva immediatamente nella stanza, attratta dalle sue grida.

“Sto bene!” esclamò immediatamente, sollevando le mani in un cenno arrendevole. 

“Mastro Kaeya! Eravamo tutti così preoccupati!”

La guardò confuso. Cosa ci faceva alla tenuta? L’ultima cosa che ricordava era la figura del fratello, che si allontanava nella notte. Diluc lo aveva bandito, per cui… 

“Come mai sono qui?” chiese, incerto. 

Si aggrappò alla speranza che Diluc potesse aver cambiato idea; che fosse rinsavito e si fosse finalmente deciso a perdonarlo. Frugò con lo sguardo ogni angolo della stanza, ma del proprietario non vi era traccia. Peccato… aveva sperato di vederlo appollaiato nella poltrona o appoggiato al muro, seminascosto tra la porta e la libreria. 

“Mastro Diluc ci ha detto dove eravate. Siamo corsi ad aiutarvi.”

“Dove è ora?”

Vide la ragazza abbassare mestamente il capo:

“Se n’è andato”

“Dove?” non riuscì a nascondere l’urgenza nella voce. 

“Non lo sappiamo…”

Il vuoto si impadronì nuovamente del suo cuore e la disperazione gli agitò l’animo. Era come se la propria coscienza fosse stata strappata in tanti piccoli brandelli, dispersi poi dal vento. Non gli restava davvero più nulla. Crepus era morto e Diluc era scomparso. Non aveva nessuno a cui aggrapparsi; nessuno a proteggerlo e a consolarlo. Avrebbe dovuto cavarsela da solo, d’ora in avanti. I Cavalieri erano tutto ciò che gli rimaneva.

Spiò nuovamente la cameriera, il cui volto era arrossito per l’imbarazzo, ora. Immaginava già cosa volesse dirgli.

“Devo andarmene, non è vero?” la anticipò, ricevendo in cambio un timido assenso.

“Sì. Mastro Diluc vi ha accordato un giorno perché possiate riprendervi dalle ferite. Abbiamo fatto chiamare un guaritore. Arriverà tra poco.” Adeline si accomodò sul bordo del materasso; gli prese una mano, delicatamente “Non so cosa sia successo tra voi e Mastro Diluc, ma sarete sempre il benvenuto qui.”

“Non vi metterò nei guai. Se dovesse tornare e trovarmi, beh...”

“Non rientrerà, almeno… non a breve. Ha lasciato la guida della cantina a Elzer e Ernest.”

Kaeya sospirò malinconico, scuotendo il capo:

“Vi ringrazio, ma rispetterò le sue volontà. Non desidero che alcuno di voi abbia problemi per causa mia.”

La ragazza si alzò, regalandogli una leggera pacca sul dorso della mancina:

“L’offerta è sempre valida, Mastro Kaeya.Vi porterò la colazione tra una mezz’oretta. Riposate, ora. Ne avete bisogno.”

 

***

 

Il sole splendeva alto nel cielo e le ombre si accorciavano sempre di più. Doveva essere quasi mezzogiorno. Tuttavia, non aveva fame. Lo stomaco si era definitivamente chiuso, una volta lasciata la Dawn Winery. Aveva camminato lungo il sentiero che costeggiava il Wolvendom e piegava poi verso Springvale. Non si era girato neppure una volta. Si era imposto di proseguire, con il passo malfermo. Elzer gli aveva prestato un bastone. 

Che spettacolo patetico doveva essere! Un cavaliere zoppo costretto a vagare sui sentieri accidentati per ritrovare almeno un briciolo della propria esistenza. Mondstadt era la sua ultima speranza. L’unico posto dove potesse ricostruirsi una vita. 

Sospirò, lasciando cadere la bisaccia ai piedi di un masso. Si sedette, allungando cautamente la gamba ferita per concederle un po’ di sollievo. Frugò nella sacca, ignorando i panini che Adeline gli aveva preparato e recuperando la borraccia. Bevve qualche sorso, sperando di lenire la gola secca e il nodo che ancora la serrava. Sapeva che per scioglierlo sarebbe bastato lasciarsi andare. Abbandonarsi alla disperazione; crollare, urlare e versare ogni lacrima. Rannicchiarsi e battersi il petto per espiare le proprie colpe.

Sarebbe stato semplice e liberatorio.

Invece, tornò a caricarsi la borsa in spalla e riprese a trascinarsi lungo il sentiero.

Non avrebbe pianto. 

Non aveva il diritto di piangere.

 
Angolino: torno con una nuova ff sul mio personaggio preferito e suo fratello. Il prompt di questa settimana gridava "Kaeluc" e non ho potuto ignorarlo. 
Non sono da molto nel fandom, ma la separazione tra i fratelli Ragnvindr era un qualcosa che volevo scrivere da un po'. Da quando ho iniziato il gioco, in pratica... e ho indagato sul loro background. 
Non sono molto soddsfatta del grassetto nel testo, ma non sapevo come altrimenti evidenziare lo scambio di pensieri nella coscienza di Kaeya. Per ora lo lascio così, se avete idee su come  poterlo modificare, sono più che ben accetti.
Grazie per aver letto fin qui!

E'ry

La fanfiction partecipa a:
* Cowt11, indetto da Lande di Fandom
* Week 5, Missione 2
* Prompt: Tradimento
* Parole totali: 4278
Avviso che la ff è presente anche su altra piattaforma, il cui link è il solo ad essere segnalato per il conteggio relativo al cowt.




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3966990