Giardini di Pietra

di _Unmei_
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Giardini di Pietra
 
Capitolo 12

 
_________________
 

In quei pochi giorni di lontananza cercai di liberare il mio cuore dai fantasmi che lo infestavano, di tenere la mente lontana dai cattivi pensieri; ero partito dando fiducia a Florent, e dovevo mantenerla. Di giorno era facile: il mio amico era un ottimo anfitrione, sua moglie, che ancora non avevo conosciuto, una splendida padrona di casa, di grande cultura, con la quale era un piacere discorrere. Le ore trascorrevano piene, non avevo veramente il  tempo di ascoltare i miei demoni; la sera, però, era diverso. Quando ero solo i dubbi tornavano.
Così scrivevo a Florent: lettere in cui gli chiedevo perdono, e promettevo che sarei stato migliore, in cui confidavo la mia paura dell’abbandono, di perderlo per qualcuno che lo conosceva meglio di me. Da più tempo di me. Ammettevo che la mia gelosia era segno di debolezza, di insicurezza, e lo pregavo di comprendere, di non fare più niente che potesse scatenarla.
E appena finito di scriverle le bruciavo.
In fondo, mi dicevo, non erano per i suoi occhi, ma per cercare di buttare fuori un po’ del mio veleno; al mio ritorno, coi fatti e non con le parole gli avrei dimostrato la mia devozione.
E tuttavia non bastava. Mi rigiravo tra le coperte, odiando essere da solo in quel letto, e il demone di sussurrava chissà se anche lui è solo, oppure…
Oppure.
Lui, tra le braccia di un altro.
Lui, che decide di tornare alla sua città natale.
Lui, che non ha più bisogno di me e mi abbandona.
Le notti erano un inferno di brutti pensieri.
 
Mantenni ciò che mi ero proposto e ripartii alla volta di Genova qualche giorno in anticipo rispetto al previsto, benedicendo di trovarmi a così esigua distanza da casa. Ancora poco, mi dicevo in carrozza, ancora poco e avrei di nuovo avuto Florent tra le braccia, e di nuovo saremmo stati solo io e lui. Sorridevo, immaginando che ogni problema si sarebbe dissolto.
Giunsi a destinazione nel primo pomeriggio, scaricai io stesso il mio magro bagaglio e congedai la carrozza; scrutai le finestre di casa, ma nessuno si era affacciato, nessuno era uscito ad accogliermi.
Mi parve strano che nessuno avesse udito la carrozza; entrai e chiamai Florent; non mi giunse risposta; provai a chiamare anche Matilde, ma nemmeno lei sembrava essere in casa. Ragionai che lei dovesse essere uscita per delle commissioni, e lui l'avesse accompagnata, ma tanta era la mia voglia di rivedere Florent che irrazionalmente non mi rassegnai alla sua assenza, e lo chiamai ancora, cercandolo, e ricacciando indietro i brutti pensieri che tanto mi avevano tormentato: tornare e non trovarlo più. Scoprire che se ne era andato, e che ero di nuovo solo.
Non lo trovai né in salotto né nel mio studio, tanto meno nel giardino sul retro; mi precipitai allora al piano superiore, in camera sua: forse era allo scrittoio, o stava leggendo, e nella concentrazione non mi aveva sentito. Forse stava riposando. Bussai alla porta ed entrai, ma la stanza era vuota.
Mi saltò subito agli occhi il letto sfatto, e percepii distintamente un profumo aleggiare nella stanza… un profumo legnoso e fresco, un po’ speziato, molto diverso da quello che portava Florent, che sapeva di lavanda, di iris e ambra.
Quel profumo estraneo avevo imparato a conoscerlo negli ultimi tempi: era inconfondibile, era quello che avevo sentito ogni volta che mi ero trovato accanto a Gabriele.
Il cuore mi precipitò nel più profondo, ghiacciato, pozzo dell’inferno.
Mi avvicinai al letto, ma fui troppo vigliacco per cercare su di esso le prove del tradimento; distolsi gli occhi dalle lenzuola in disordine, dai cuscini stropicciati e il mio sguardo si posò sul comodino dove scintillava un oggetto: l’orologio da tasca dell’odiato veneziano. Impossibile non riconoscerlo: d’oro smaltato, elegante e di gusto squisito, un piccolo capolavoro. Dimenticato lì, con la sua catena d’oro e i ciondoli con le sue iniziali: GB, Gabriele Vidal.
Oltre il dolore e la rabbia sentii montare in me un consumante senso di umiliazione. Li immaginavo mentre amoreggiavano, mentre si possedevano, mentre ridevano alle mie spalle, e avrei voluto rovesciare ogni mobile in quella stanza, prendere a calci le pareti, urlare. Forse se l’avessi fatto, sputando subito tutto il fiele che mi scorreva dentro, poi le cose sarebbero andate diversamente, sarebbero andate meglio. Sarei stato più lucido, meno impulsivo, e tutta questa patetica confessione non sarebbe mai esistita.
Passarono quasi due ore prima che Florent rincasasse, e io passai quel tempo in salotto, mandando giù più brandy di quanto fosse saggio fare. L’alcol aveva anestetizzato il dolore, ma anche fomentato la rabbia, e annebbiato ancor di più la mia mente; mi tremavano le mani e la tensione mi irrigidiva le spalle e la schiena.
Non riuscivo a pensare ad altro che al tradimento, non trovavo altra spiegazione. Andavo su e giù per la stanza come una bestia feroce in gabbia.
Quando lui rincasò… quando mi trovai davanti Florent l’incendio del mio rancore divampò ancor più violento, senza controllo. Forse fu colpa della sua espressione tranquilla, innocente, che mi sembrò una presa in giro. Arrivò quasi di corsa, cercandomi, perché aveva visto il mio bagaglio abbandonato in entrata; venne verso di me tendendomi le braccia, radioso, sorridente. E poi esitò, si fermò. Aveva visto la mia faccia scura, aveva visto che non ricambiavo il suo sorriso, che non gli andavo incontro; mi fissò con espressione curiosa, e preoccupata. Forse presagì il pericolo.
Mosse le mani per parlarmi… e io persi di vista me stesso.
 
Mi è straziante raccontare, mi sento soffocare di agonia e disonore, ma giunto a questo punto non posso tacere, e se fino a ora ho avuto forse la vostra compassione, è giunto il momento che mi venga tributato il disprezzo che merito.
Aggredii il mio Florent con parole terribili, e non riesco a metterle su carta, nemmeno a ripeterle sottovoce, perché provo una vergogna tale, una disperazione, che mi incenerisce il cuore e la lingua. Gli gridai insulti e accuse, tremante di collera… mi mossi di scatto verso di lui, e mi sembrava di agire al di fuori della realtà, quasi come se un altro avesse preso il mio posto.
Oh, se solo lui avesse potuto parlare! Se a sua volta avesse potuto urlare, darmi del maledetto imbecille, mandarmi al diavolo… forse le sue parole avrebbero penetrato i fitti veli in cui mi dibattevo. Mi avrebbero risvegliato, e mi sarei calmato. Forse sarebbe bastato. Ma a respingere le mie accuse c’era solo il suo ovvio silenzio stordito e incredulo. Florent indietreggiò d’istinto… provando timore di me! Orribile, orribile!
Alzò le mani, facendo gesto di fermarmi, e io lo afferrai, al polso sinistro, e a metà dell’avambraccio destro, lo spinsi indietro, bruscamente, rovesciando una pesante sedia nel cammino, fino a costringerlo contro il muro.
 
"Che cosa hai fatto? Come hai osato tradirmi? Cosa hai fatto? Con lui… Cosa hai fatto?" 
 
E dopo aver posto la domanda che tanto mi ossessionava, io stesso diedi la risposta; tremenda, volgare, inascoltabile.
Gli rinfacciai crudelmente di averlo raccolto dalla miseria, di averlo preso in casa mia, ripulito, rivestito, di averlo riempito di doni e di aver esaudito ogni suo desiderio, di averlo fatto vivere negli agi, amato e adorato. E lui mi ringraziava con l’infedeltà!
Quante volte ripetei quella frase, cos’hai fatto, con lui. E quanti epiteti orribili gli gettai in faccia, con il respiro corto, strattonandolo, stringendolo sempre di più. Opponeva resistenza, cercava di liberarsi, ma io ero più forte, e furioso al punto da avere le energie moltiplicate; tenerlo prigioniero era semplice, e mi dava un perverso senso di piacere, di potere. Ero soddisfatto dalla sua espressione di panico, la consideravo un’ammissione di colpevolezza, la prova che avevo ragione nell'accusarlo.
Ma non durò molto il suo smarrimento: la sua espressione si indurì, le sue sopracciglia si aggrottarono. Aveva capito di non poter liberare le braccia, e così mi sferrò un gran calcio. Il dolore fu un lampo acuminato, vidi scintille infuocate davanti agli occhi, urlai di dolore e provai una nuova ondata di rabbia; allentai la presa e lui mi sfuggì, ma fu solo un attimo. Lo riafferrai prima che riuscisse a sfuggirmi, ancora, per il braccio, e lo strinsi ancor più forte, lo storsi, mi gettai su di lui con il mio peso, e travolgemmo un tavolino. Il suo bracciò si piegò malamente, gli sentii emettere una specie di lamento roco… rovinammo a terra.
Inebetito, restai lì, su di lui, continuando a stringerlo, e Florent immobile, boccheggiante, il volto stravolto era cereo, persino le sue labbra erano sbiancate; non lottava più, e i suoi occhi erano pieni di lacrime.   
Solo allora mi resi conto di ciò che avevo fatto, della bestia che ero stato. Mi venne la nausea. E mi finalmente accorsi di stare ancora stringendolo, e dell’espressione di dolore sul suo volto; lo lasciai all’istante, come se scottasse, mi feci indietro, e lui si raggomitolò, tenendosi il braccio, ma sembrò non trovare alcun sollievo. Piangeva anzi, silenziosamente, e tremava. Quale dolore terribile stava provando?
Come… come ho potuto fargli una cosa simile?
Rinsavii all’istante, drenato di ogni furore, ma anche di ogni forza; mi riavvicinai a lui con il cuore pesante, con la nausea che mi stringeva lo stomaco, e sussurrai non so quale stupidaggine per cercare di rassicurare lui, o forse me stesso. Volevo aiutarlo, lo desideravo davvero, ma come feci il gesto di toccarlo lui si scansò.
 
“Voglio solo vedere come stai…”
 
Dissi, e quella voce fragile non sembrava nemmeno la mia. Lui non mi diede retta; si rialzò, un po’ malfermo, e ancora barcollò quando fu in piedi. Ma non perse tempo, e si allontanò in fretta, e prendendo la porta quasi finì addosso a Matilde, che messa in allarme dal trambusto era accorsa. Mi rivolse un’occhiata terribile, in cui c’erano in eguali misura terrore e accusa; protettiva, cinse con un braccio la schiena di Florent e se lo portò via, dicendo che si sarebbe presa cura di lui.
Restai lì, da solo, pietrificato, inerme, e spaventato come appena sveglio da un incubo.
Solo che l’incubo stava ancora continuando.
 
Mi ci volle un buon quarto d’ora per ritrovare l’uso delle gambe, e avere il coraggio di andare da Florent. E tempo dopo, quando ebbi accompagnato il medico alla porta, mi mancò il coraggio di tornare da lui. Il suo braccio destro era rotto, ed ero stato io. La colpa era mia.
Una frattura del radio, non grave, aveva rassicurato il medico; ma  non mi sentivo tranquillo, il pensiero che Florent potesse aver subito un danno permanente mi angosciava. Se la sua capacità di suonare ne fosse stata danneggiata, anche solo in minima parte, il rimorso mi avrebbe ingoiato tutto intero, mi avrebbe distrutto e tormentato per il resto della vita.
Il dottore dunque andò via, ma solo per prendere ciò che gli serviva: bende gessate, che gli applicò con l’assistenza di Matilde, perché io ancora non avevo trovato il coraggio di mostrarmi a Florent. E quando ebbe finito e se ne andò di nuovo, scappai a rifugiarmi nel mio studio, ma non fu una buona idea: c’era la statua di Florent, lì, e non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso, e più la guardavo, più mi sentivo male. Provai a coprirla, ma non servì.
Così fuggii ancora; tornai in salotto, dove il tavolino rovesciato mi ributtò in faccia una volta di più ciò che avevo fatto. Non ebbi nemmeno la forza di tirarlo su, sedetti pesantemente sul sofà con la testa fra le mani. Avrei voluto bere ancora, ubriacarmi fino a svenire, per cancellare quella sobrietà tanto dolorosa; ebbi almeno il buonsenso di non farlo, e fu forse l’unica buona decisione di quel giorno.
In preda allo sconforto, sarei stato probabilmente capace di rimanere lì nascosto per giorni, non fosse stato per la mia governante. Arrivò dopo un paio d’ore, entrò senza bussare, cosa che non aveva mai fatto prima d’allora; mi guardò severamente, sconsolata, piena di delusione, e io sentii di non avere né la forza né il diritto di riprenderla.
 
“Si è addormentato poco fa. Il medico gli ha dato un sedativo, riposerà a lungo.”
 
Mi informò, con voce che vibrava d’accusa. Assentii, ma non risposi, e lei parlò ancora.
 
“Ho sentito quello che gli diceva, prima. Come non avrei potuto? Stava urlando!”
 
Sapevo che Matilde si era molto affezionata a Florent, sapevo che mi voleva bene, e che felice che avessimo trovato amore l’uno nell’altro. Ma sapevo anche che lei c’era stata, durante la mia assenza, e se Gabriele in quei giorni si era fermato a casa mia… se lui e Florent erano stati più vicini del solito, lei doveva esserne a conoscenza. Doveva aver visto… doveva aver almeno capito qualcosa! Dai sorrisi, dagli sguardi, dal loro essere così vicini. Doveva sapere che Gabriele si era fermato la notte! A me il tradimento sembrava tanto evidente, perché a lei no?
 
“E non avrei dovuto? Dopo quello che mi ha fatto! È stata la sua infedeltà a provocarmi.”
“Come potete pensare… quel ragazzo vi ama così tanto!”
“Così tanto? – alzai la voce – Tanto da essermi infedele? Ho visto il letto sfatto, e l’orologio prezioso che quel farabutto ha dimenticato sul tavolino. Ho sentito il suo profumo che ancora aleggiava nell’aria, a tal punto era fresco il tradimento!”
 
Sapevo di essere in torto, ma parlai con impeto, bisognoso di sfogarmi, di giustificarmi ai suoi occhi. Come potesse esistere una giustificazione alla violenza che avevo usato! Matilde mi lasciò fare, e poi, quieta e paziente, prese a spiegare. Non avrebbe potuto usare un tono migliore, per umiliarmi.
 
“Florent è stato male. Il giorno successivo alla sua partenza si è risvegliato febbricitante, e la temperatura gli è poi salita rapidamente. Il signor Vidal era venuto qui, come le altre volte, e si è subito preoccupato; dovevano uscire di buon ora e prendere il battello per Portofino, per trascorrere lì la giornata. Il signor Vidal si è preoccupato e ha annullato tutto, nonostante le insistenze di Florent. Quel benedetto ragazzo… dove pensava di andare? Ormai scottava!”
 
Mi sentii sprofondare; davvero, mi parve che il pavimento sotto di me cedesse, o forse erano solo le mie gambe a farlo.
 
“Florent è stato male?”
 
Chiesi, con un fil di voce, e Matilde annuì.
 
“Febbre, spossatezza. Un po’ di nausea e mal di gola. Il signor Vidal andò a chiamare un medico; dopo aver visitato Florent quello disse che non c’era da preoccuparsi, che sarebbe bastato il riposo, e una blanda medicina che gli avrebbe prescritto. Nulla di grave, insomma; soprattutto, doveva riposare. Il signor Vidal è rimasto al suo fianco, trasferendosi qui… gli ha tenuto compagnia di giorno, leggendo e suonando per lui, e lo ha vegliato di notte, limitandosi a sonnecchiare qualche ora sul divanetto. Era così in apprensione che Florent l’ha persino scherzosamente rimproverato.”
“E quindi…”
“E quindi non so che le sia saltato in testa! Come lei possa aver visto una tresca dove c’è una sincera amicizia, un affetto fraterno… non lo so davvero. Come può aver pensato una cosa tanto brutta di Florent?”
 
Balbettai qualche scusa, patetico, ma non avevo una risposta, solo la mia follia. Matilde scosse la testa, stanca, e continuò nella sua spiegazione.
 
“Oggi il signor Vidal doveva partire, non poteva rimandare ulteriormente; Florent si sentiva ormai molto meglio, e ha voluto a tutti i costi accompagnarlo alla stazione. Non c’è stato verso di farlo desistere, e alla fine l’ha avuta vinta. Ma perché non tornasse indietro da solo, sono andata anche io con loro. A ripensarci ora, avrei fatto meglio a restare a casa: almeno avrei potuto accogliervi e impedirvi di ingannarvi con una fantasia tanto malata.”
 
Capite il terribile equivoco, la mia idiozia, il male che avevo causato? L’offesa, il danno!
Mi sentii assalire dalla nausea e dalle vertigini. Le parole crudeli che avevo gettato in faccia a Florent mi pesavano come macigni, mi soffocavano; l’aggressione era come una fredda lapide sulla nostra felicità. Chinai la testa, me la strinsi fra le mani sperando di soffocare il dolore e il ronzio che la riempivano. Desideravo stare solo, ma Matilde non ebbe pietà, e aggiunse altri dettagli alla sua spiegazione, per rinfacciarmi ancor di più il male che avevo compiuto, e perché il senso di colpa potesse rodermi ancora di più. Tra le altre cose, l’orologio d’oro, il gioiello che io credevo dimenticato da Gabriele nel rivestirsi, dopo l’amore… era un regalo che aveva lasciato in ricordo a Florent, in amicizia e innocenza.
 
Guardati, mio signore, dalla gelosia: è il mostro dagli occhi verdi che schernisce la carne di cui si nutre.
 
Quanto mi è adatta questa citazione, e quanto vorrei aver rammentato prima la lezione che l’Otello impartisce. E sono stato peggio di lui, nella gelosia, perché non avevo uno Iago a raccontarmi menzogne, a tessere inganni: feci tutto da me.
Avrei dovuto pensare agli occhi sorridenti di Florent, quando mi guardava; alle sue mani fresche e fini, con i polpastrelli induriti dall’uso del violino. Se fossi stato lucido, mi sarei reso conto che non c’era alcuna falsità, in lui.
Se fossi stato saggio, avrei riconosciuto i miei dubbi e le mie fissazioni come sciocchezze.
E se fossi stato un uomo davvero degno di tal nome, non ne sarei stato nemmeno sfiorato.
Per quanto avvertissi come enorme il peso della colpa, ancora non mi rendevo conto del tutto della gravità della situazione: dentro di me credevo che chinandomi umilmente davanti a Florent, battendomi il petto e implorando il suo perdono, avrei ottenuto l’assoluzione.
M’illudevo che l’amore fosse una medicina universale… e invece a volte nemmeno l’amore è abbastanza; nemmeno lui può far dimenticare ogni torto.
 
Andai in camera di Florent; dormiva, tranquillo e pallido. Sedetti al suo fianco, pronto a restare lì anche per ore: volevo esserci quando si fosse svegliato, volevo offrirgli subito il mio pentimento.
Per tutto il tempo non feci che pensare alle parole che gli avrei detto, cercandole, soppesandole, scartandole; mi aggrappai a quella ricerca come un naufrago a un rottame di legno, cercando di non affogare… le parole giuste per esprimere la mia preghiera di perdono, per fargli capire quanto mi sentissi ignobile e miserabile.
Credevo di averle trovate, a un certo punto, eppure, quando infine lui aprì gli occhi e il suo sguardo incontrò il mio, per poi distogliersi, andarono tutte in fumo. Il fardello che impietoso mi schiacciava raddoppiò, l’angoscia mi travolse, e non riuscii a controllarmi. Tra le lacrime iniziai a parlare. Piansi, implorai perdono, e con frasi sconnesse cercai di spiegare ciò che avevo equivocato, e perché. Come se lui non lo sapesse già benissimo, come se non lo avessi reso chiaro con le parole che gli avevo urlato in faccia. Avevo dubitato di lui, lo avevo aggredito, che doveva farsene delle mie scuse? Le ascoltò, indifferente e lontano, guardando davanti a sé senza più rivolgermi un’occhiata.
Senza curarsi delle mie mani che, disperate ed esitanti, lo cercavano, gli accarezzavano il capo, gli stringevano il braccio sano attraverso le coperte, si posavano sul suo petto. Ignorava qualunque cosa facessi, come se nemmeno ci fossi.
Mi stava punendo, e aveva ragione.
 
~°~
 
Quei giorni mi appaiono immersi in un’acqua scura e fredda, che leva il fiato e intorpidisce il corpo. Ricordo lui, il braccio al collo, ad accarezzare con amore e desiderio il violino, pizzicare le corde ogni tanto, e suonare qualche nota al piano, con una mano sola, per distrarsi.
Ricordo la speranza con cui ogni mattina aprivo gli occhi: che lui si sarebbe avvicinato a me, avrebbe sorriso, e mi avrebbe concesso di abbracciarlo di nuovo, permettendo che tutto iniziasse a tornare come ai giorni migliori.
E ricordo altrettanto bene la delusione e il tormento che mi erano compagni al momento di richiuderli e dormire.
Doni, preghiere, pianti, promesse; nulla valse. Minacciai d’uccidermi, e mi guardò come si guarda un povero idiota. Non mi teneva più compagnia mentre scolpivo, come spesso faceva un tempo; non sedeva più accanto a me sul sofà, trascorrendo placide ore serali leggendo l’uno vicino all’altro. Usciva, e trascorreva fuori ore, passeggiando sul lungomare, o a volte scendendo sulla spiaggia, sedendosi a guardare le onde stretto nel cappotto. Venne e passò Natale, e fu triste e cupo.
E così pensai, delirai, che se volevo che mi ascoltasse, che mi perdonasse, dove obbligarlo ad accettare la mia compagnia, perché si rendesse davvero conto di quanto fossi pentito e disperato; dovevo togliergli la possibilità di evitarmi, di ignorarmi.
Presi a impedirgli di uscire senza di me, ma anche di restare da solo a lungo in casa; ero sempre con lui, trascurai anche il mio lavoro pur di non lasciare il suo fianco. Spesso dormivo nella sua stanza, sul divanetto, e gli raccontavo di come potevamo tornare a essere felici, e che avrei avuto fiducia, non avrei dubitato più; gli ripetevo quanto mi mancava, e continuavo a chiedergli assoluzione. Ebbi paura, a un certo punto, che lui avrebbe potuto fuggire di nascosto, di notte, se mi fossi profondamente addormentato, così trascinavo il divanetto davanti alla porta per sentirmi più sicuro. Ero pazzo.
Gli parlavo di fiducia togliendogli la libertà, inseguivo testardamente il perdono senza accorgermi che con tanta folle insistenza lo allontanavo ancora di più. Di certo esisteva il modo per addolcirgli il cuore, perché lui era orgoglioso ma non crudele: avrebbe accolto e sanato il mio dolore, accettato il mio rimorso, se fossi stato capace di porgerlo nel modo giusto. Voglio crederlo... voglio ancora pensare che una possibilità esisteva.
Ma quale era, il modo giusto? Anche ora non sono certo di averlo capito, e a quei tempi ne capivo ancor meno, e tremavo nel profondo del cuore, quando lui schivava il mio sguardo.
Non valsero le volte che mi inginocchiai di fronte a lui, che pregai, che gli carezzai le guance lisce; le volte in cui gli poggiai la testa in grembo e quelle che le mie lacrime gli inumidirono la veste da camera di seta scura. Piangevo, singhiozzando aspro, aspettavo di sentire la sua mano tra i capelli, ma nulla mai avvenne.
Nulla, per tutto il tempo che il suo braccio impiegò a guarire. 
 
E guarì infine, e il dottore ribadì le rassicurazioni che aveva già fatto altre volte in quel periodo: Florent avrebbe recuperato pienamente, presto avrebbe potuto tornare a suonare il violino.
Ciò fece brillare di felicità gli occhi di lui, e fece respirare meglio me, ma quel conforto non era sufficiente a darmi la pace, ad alleviare in qualche modo il peso del mio atto. Non ebbi la forza o il coraggio di esprimere a Florent il mio sollievo: temevo mi rinfacciasse la mia colpa, che con sprezzo rifiutasse la mia gioia, perché che diritto avevo di rallegrarmi, dopo essere stato la causa del suo incidente? Per non parlare degli insulti che gli avevo rivolto. Avrei meritato la sua freddezza e anche la sua rabbia, e come un vigliacco preferii non affrontarle. Rimasi in disparte, incapace di dir nulla, io che nelle settimane precedenti lo avevo riempito di parole; in disparte, pensando ai giorni spensierati che avevamo vissuto, e a come li avevo creduti eterni.
Fu Florent a venire da me, e io restai immobile, sicuro che mi avrebbe colpito, e a ragione. Anzi, speravo ormai che lo facesse, che mi rendesse ciò che gli avevo inflitto.
Mi guardò serio, i suoi occhi più intensi che mai, e i suoi pensieri indecifrabili… e poi sulla sua bocca si disegnò un lievissimo sorriso; in cuor mio imploravo non so chi di un miracolo.
Dopo avermi osservato a lungo, Florent posò sulle mie labbra un casto bacio; indugiò su di esse con dolcezza, e così grande fu il mio stupore, la mia incredulità, che nemmeno riuscii a ricambiare. Erano meravigliosamente morbide, tiepide, familiari… e mi erano mancate così tanto! Fu come se un delizioso e salvifico tepore mi avvolgesse, dopo essere quasi morto di freddo. Si staccò da me, per guardarmi, e io mi persi nei suoi occhi; con la punta delle dita gli sfiorai la bocca, le guance, i capelli, pieno di reverenza, e infine lo avviluppai tra le braccia.
Fu un momento di pure felicità: il mio animo si innalzava, il mio respiro era leggero, il futuro era di nuovo un posto in cui era possibile vivere. Ma l’atteggiamento affettuoso di Florent era un canto di sirena, era la dolcezza che mi rovinò.
Avrei voluto fare l’amore con lui quella notte, ma non me lo concesse. Giusto, pensai: non potevo pretendere di avere tutto e subito; che mi punisse ancora un po’, lo meritavo.
Almeno potei stringerlo fra le braccia, dormendo di nuovo nello stesso letto, e sentirmi finalmente in pace. Non del tutto, però: ancora non volevo che uscisse da solo, ancora non riuscivo a stare separato da lui per più di un’ora, anche se eravamo comunque sotto lo stesso tetto.
Florent mi assecondò, sembrava pieno di indulgenza, di pazienza; mi dedicava tutto il tempo che gli chiedevo, mi sorrideva, mi rassicurava.
Nei giorni successivi uscimmo per le nostre solite passeggiate, di sera cenammo fuori, andammo a teatro… suonò per me, brani semplici e tranquilli, perché, anche se aveva il permesso del dottore di dedicarsi al suo amato strumento, doveva andare per gradi. Non era ancora il tempo di virtuosismi, e se avesse provato a cimentarsi di certo glielo avrei impedito, ma non vedevo l’ora di ascoltare di nuovo il suo incredibile talento all’opera. Sognavo quel momento… e sogno è rimasto.
 
Trascorsero un paio di settimane; Matilde andò via qualche giorno. Quella sera Florent e io andammo a un concerto, e dopo ci fermammo a bere qualcosa; sulla via del ritorno ero un po’ brillo, e Florent mi sorrideva così dolcemente che a fatica mi trattenni dal baciarlo, dal toccarlo. In carrozza, però, ebbi l’audacia di prendergli una mano e carezzargli il palmo con le labbra, e poi di pormela sul petto, perché sentisse quanto il cuore mi batteva veloce.
A casa, sul divano, lo baciai davvero; a lungo, profondamente, facendo correre le mani sotto i suoi vestiti; lui si tolse giacca e camicia, e potei inebriarmi della sua pelle calda, sussurrando il suo nome, il mio amore, e mille promesse. Desideravo fare l'amore con lui per ore, per giorni! Quando mi feci più audace Florent mi fermò, gentile ma sicuro; mi aveva concesso di più, ma ancora non avevo ottenuto tutto il suo favore.
Va bene, gli dissi, va bene. Aspetterò.
Avrei continuato a pazientare, a sopportare il castigo, e sarebbe stato più facile ora che, mi sembrava, Florent aveva mosso un altro passo verso di me, che il suo cuore si era un altro po’ addolcito. Tornai a soli baci e carezze, e lui mi ricambiava con ardore; si alzò, a un certo punto, e alle mie proteste, al tentativo di trattenerlo mi fece cenno di avere pazienza solo qualche minuto. Si allontanò, e tornò con due calici, e una bottiglia di vino rosso, forte e profumato. Ne versò per entrambi, e brindammo ai giorni futuri.
E poi versò e versò,  ma solo a me; non diedi peso al fatto che lui avesse a malapena bevuto metà del primo calice, perché Florent era molto parco con gli alcolici; lui non apprezzava molto, mi aveva detto, avere i sensi offuscati.
A me piaceva, invece, e mi piaceva anche quel vino pregiato che, essendo quasi a digiuno, non ci mise molto a farmi girare la testa. Accettai ogni volta che Florent versava, tra i baci, tanto che finii la bottiglia e, stanco per la lunga giornata, illanguidito dall’alcol e dalla felicità, sopraffatto mi addormentai sul divano, ebbro e sorridente.
 
Quando mi svegliai era mattina, e Florent non era accanto a me. Mi alzai, un po’ dolorante per aver dormito in una brutta posizione, e lo chiamai.
Lo chiamai, lo chiamai.
Lo cercai in camera sua, dove il letto era intatto, e poi per tutta la casa, e nello studio, in giardino, facendomi sempre più frenetico e spaventato. Uscii, percorsi la passeggiata del lungomare, scesi in spiaggia… niente.
Avevo già capito, anche se tentavo di negare con tutto me stesso, e perseverai nella menzogna per ore intere, mentre il mio cuore sembrava rallentare, battere sempre più piano, ma senza mai spegnersi, in agonia.
Vagai in città, dal porto ai quartieri più nobili, visitai i suoi locali preferiti, che fossero locande popolari o raffinati caffè, fermai tante persone, descrivendo Florent e chiedendo loro se lo avessero visto. Nulla.
Tornai verso casa che si stava facendo scuro; nell’anima nutrivo ancora la folle speranza che rientrando l’avrei udito suonare il violino. Lui sarebbe stato lì, in salotto, perché era solo uscito per passare qualche ora in città, e le nostre strade non si erano incrociate… gli avrei raccontato di quanto mi ero spaventato, e lui avrebbe scosso la testa, sorridendo di me e della mia sciocca paura, e alla fine ne avrei riso anche io.
Ma una volta arrivato trovai solo il buio ad attendermi dietro ogni finestra.
 
Florent si era portato via poche cose, nella stessa sacca logora che custodiva tutti i suoi averi quando lo conobbi. Un pettine, un piccolo specchio e la sua boccia di profumo; i taccuini e le matite, un cambio di vestiti, e dall’armadio capii che aveva scelto i più semplici. Il suo amato e prezioso violino, ovviamente. Aveva preso con sé l’orologio di Gabriele, e di tutti i miei regali aveva portato via solo i gemelli che gli avevo donato a Venezia.
Non aveva preso denaro, nemmeno una moneta; forse li considerava soldi soltanto miei, e non aveva voluto toccarli. Nella mia preoccupazione avrei preferito che si fosse portato via tutto quel che c’era in casa, che avesse depredato anche l’argenteria e i gioielli di famiglia, purché ciò gli assicurasse un po’ di benessere.
Ciò che provai, ciò che pensai, è avvolto nella nebbia del trauma. Per tutta quella notte rimasi sveglio, seduto immobile sul letto di lui, strizzando gli occhi di tanto in tanto e scuotendo la testa, come quando ci si accorge di stare avendo un incubo e ci si vuole svegliare.
Certe volte lo faccio pure adesso, ma ancora non riesco a destarmi.
 
La sua lettera la trovai solo il giorno successivo.
 
~°~
 
Non ho niente da aggiungere, anzi, ho parlato anche troppo.
Florent, ho detto, l’ho cercato affannosamente, ma non l’ho trovato mai, né ho avuto sue notizie, quasi fosse esistito solo nei miei pensieri. Cercai di rintracciare anche Gabriele Vidal, ma pure su di lui non trovai niente. Per quanto io l’avessi detestato, potevo solo sperare che Florent l’avesse raggiunto, trovando accanto a lui rifugio e tranquillità… amicizia e affetto, una bella casa, agiatezza e serenità. Che invece potesse essere tornato a vivere di elemosina, suonando il violino per strada e dormendo in squallide soffitte, era un pensiero che mi faceva nausea e orrore.
Ricordavo bene che Gabriele gli aveva affidato un taccuino che riportava il suo itinerario e gli indirizzi a cui contattarlo; di certo Florent doveva averlo raggiunto, mi ripetevo, bisognoso non tanto di un riparo, quanto di conforto. E io quanto volte mi sono pentito e maledetto di non aver gettato mai nemmeno un’occhiata a quelle pagine, memorizzando almeno un paio di indirizzi!
Florent… se è vivo, adesso anche lui è vecchio, però non riesco a immaginarlo canuto e fragile, ammalato. Per me sarà sempre l’angelo splendido del Sonno Eterno, dall’espressione dolce, misteriosa e un po’ irridente, e se Dio e gli angeli esistessero davvero, vorrei che fosse lui a chiudermi gli occhi, ad accogliermi, quando morrò. Ma in Dio e negli angeli in fondo non credo, sono una speranza fragile a cui ormai ho rinunciato: nessun paradiso ci sarà in cui potrò incontrarlo e chiedergli scusa.
Ma nella morte buia, almeno, lo potrò finalmente dimenticare.
 
~°~
 
Riccardo,
 
pure se ora io dicessi d’amarti, tu forse non mi crederesti!
Eppure nonostante tutto ancora ti amo!
E se ti angusti per ciò che è successo, probabilmente lo fai per i motivi sbagliati. Ti perdono per le parole cattive, perché un uomo preso dalla rabbia spesso parla al di fuori di se stesso, senza distinguere più tra il vero e l’illusione che i suoi occhi credono di vedere.
Anche per il mio braccio ti perdono: so che ne sei straziato, e hai già patito abbastanza, per il senso di colpa e per la lontananza che ti ho imposto.
Non devi credere che per questi motivi io, offeso, me ne sia andato, né che lo abbia fatto per paura nei tuoi confronti. No, perché in realtà l’esibizione della tua superiore forza fisica ha finito con il lasciarti del tutto debole e indifeso di fronte a me, come mai lo eri stato.
 
Ciò che mi ha addolorato, amareggiato, e che mi porta fuori da questa casa è più grave, Riccardo. È la mancanza di fiducia che mi hai dimostrato. L'avermi considerato, anche brevemente, un opportunista.
Cosi poco credi in me e nel mio amore da pensare che potrei tradirti non appena tu ti volti? Così scarsa fede hai in me e nel sentimento che ti porto? Mi pensi così superficiale e falso?
E anche un’altra cosa: non avrei desiderato al mondo nulla di più che tu e Gabriele diventaste amici. Le persone più importanti per me siete voi due: colui che amo appassionatamente come compagno, e colui che fu ed è il mio più caro amico, il mio buon maestro. Sarei stato così felice di avervi entrambi accanto a me, di vedervi stringere un legame… ma tu per lui hai dimostrato solo diffidenza, e poi astio, e immotivata gelosia, quasi disprezzo. Oh, sei sempre stato molto civile, e non l’hai mai detto ad alta voce, ma l’ho capito lo stesso molto bene. E anche lui. Questo mi ha fatto piangere, e disperare, quanto tu non potevi vedermi.
E nonostante ciò, quando prima di andarsene Gabriele mi disse di essere preoccupato per me, gli risposi di non essere sciocco. Ancora speravo che ritrovare il Riccardo di sempre.
 
In questa storia il nostro amore si è ammalato, sai? Vorrei pensare che tutto possa tornare com’era fino a pochi mesi fa, a quella felicità luminosa e perfetta, ma ciò che leggo nei tuoi occhi e nei tuoi gesti è una tale paura di perdermi che temo finirai col rinchiudermi del tutto… in una gabbia grande e dorata, forse, ma pur sempre una gabbia. Il tuo sguardo su di me sarebbe completamente diverso da quello che mi ha fatto innamorare, che era così colmo di fiducia, gioia, e devozione. E avrei sempre presente il ricordo di come hai respinto una delle persone più importanti della mia vita, amando di me solo ciò che ti appartiene, solo ciò che ti riguarda.
 
Vado via, Riccardo, anche se ti amo come forse non amerò mai più nessuno… non voglio soffocare in un rapporto che potrebbe recare danno a entrambi. Credo soprattutto che tu abbia bisogno di riflettere, e di capire perché siamo giunti a questo.
Cercami, se vuoi; forse mi troverai, se il destino lo vorrà, e forse quel giorno avrai compreso.
E se così sarà, allora potrei tornare da te, ricostruire la nostra felicità, suonare di nuovo per te… suonare di nuovo insieme, violino e pianoforte, nella loro perfetta armonia.
Ma ora addio; scusa solo per il piccolo inganno amoroso con cui ti ho fatto abbassare la guardia, per l’ultima passione che non ti ho concesso, e per il vino con cui abbiamo brindato, per cui tu ora dormi sognando sereno e io scrivo e sono pronto ad andare.
Sì, in parte questa è anche una vendetta, una ripicca: sono orgoglioso, e tu lo sai.
Ma sicuramente sai anche che se tu avessi avuto fede, avrei preferito morire che lasciarti.
Sono io, il tuo
 
                            Florent.

 

 
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NdA

Un'altra storia è giunta alla fine, e questa volta mi lascia più malinconica del solito.
Mi piacerebbe, un giorno, scrivere una AU ambientata ai nostri tempi, in cui Riccardo e Florent si incontrano di nuovo, e hanno la possibilità di essere felici e spensierati, di avere un lieto fine.
Questa storia, però, non poteva finire in altro modo... le altre mie fic hanno avuto conclusioni diverse da quelle inizialmente pensate, ma in questo caso non mi sono discostata dall'idea iniziale. Forse è aver tratto l'ispirazione da una statua vista al cimitero ad aver messo il sigillo sul finale (credo non dimenticherò mai il momento in cui la vidi la prima volta, da lontano, e come le sono praticamente corsa incontro.  C'è gente che magari ricorda così il colpo di fulmine per il grande amore, io ho una statua a Staglieno... mai detto di essere normale, d'altra parte. Se fate un salto sulla mia pagine, ne ho inserito un'immagine a figura intera).
 
Grazie a chi ha seguito Riccardo e Florent fin qui.




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