LA
LEGGE DELL'ORSO
In cielo non c’era una nuvola,
l’aria era immobile. Gli unici suoni che si sentivano, a parte lo
scalpiccio dei passi sul terreno polveroso, erano il frinire delle
cicale e qualche raro cinguettio.
L’area di sosta era deserta,
come se da anni non ci passasse nessuno. Persino il gabinetto
chimico, occultato in una graziosa capanna di legno, non emanava che
un lieve odore di detergente.
Con un sospiro di frustrazione,
Corinne spiegò la mappa su un tavolino da picnic, rimase a studiarla
per un po’, quindi sollevò lo sguardo e lo fece girate
tutt’intorno: un susseguirsi di picchi color ocra, punteggiato qua
e là di alberi verde chiaro, si perdeva all’orizzonte.
Girò la mappa di centottanta
gradi. “Ma si può sapere dov’è il nord?” gemette.
Adrienne abbandonò il thermos
rosa dal quale stava bevendo e le si avvicinò. Scrutò a sua volta
la cartina, poi puntò il dito su un vistoso cerchio rosso con
scritto in almeno cinque lingue ‘voi siete qui’. “Questa è
l’entrata del parco,” disse, con l’aria di aver dato un gran
contributo.
Poco lontano, Sophie annunciò:
“Il cellulare non prende.”
A quelle parole anche Jasmine
tirò fuori il proprio apparecchio. Osservò il display e confermò:
“Neanche una tacca.”
Le quattro si guardarono. “E
adesso?” chiese Adrienne. Tirò fuori di nuovo il thermos rosa, ma
dentro non c’erano rimasti che pochi sorsi di tè verde senza
zucchero. Frugò nello zaino, ma anche il thermos minimal chic
comprato a caro prezzo da Muji era desolatamente vuoto. “Sto per
mettermi a piangere,” annunciò.
Le altre non risposero.
Corinne riguardò la mappa, che
di nuovo non le diede altre informazioni che le pubblicità stampate
ai due lati di essa. Ce n'era una che vantava le comodità e il lusso
di una spa ricavata da una grotta naturale e sembrava proprio messa
lì apposta per prenderla in giro. “Non so cosa darei per una
doccia,” sospirò. “Quanto sarà che camminiamo?”
Jasmine guardò ancora una volta
il cellulare silente, poi disse: “La prossima volta me ne vado con
Jacques in Bretagna dai suoi, altro che vacanza per sole donne in
America.” Fece una pausa, durante la quale fece scorrere lo sguardo
sulla desolazione del paesaggio, quindi aggiunse: “Sono stufa di
portarmi le valigie da sola.”
Calò il silenzio. Per un po’
le quattro turiste rimasero sedute al tavolo da picnic ponderando il
da farsi, infine Sophie propose: “Torniamo indietro per la stessa
strada?”
“C’erano mille deviazioni,”
piagnucolò Corinne, “non ho idea di dove siamo. Rischiamo di
perderci ancora di più.”
“E allora che facciamo?”
L’altra si guardò intorno.
“Non lo so, come fa la gente in questi casi?”
“Ci mettiamo a urlare?”
“Magari attiriamo gli animali
feroci.”
Erano a quel punto della
discussione quando cominciò a farsi udire un rumore di zoccoli.
Prima che le turiste potessero fare ipotesi in merito, sbucò nello
spiazzo un ranger a cavallo.
Le quattro rimasero a fissarlo a
bocca aperta: poteva avere al massimo venticinque anni, aveva delle
belle spalle larghe e dalle maniche rimboccate spuntavano braccia
decisamente muscolose. Dava l’idea di essere anche alto. Sotto lo
smokey cap che gli ombreggiava il viso si intravedevano lineamenti
regolari e occhi celesti. La pelle aveva il color bronzo dorato dei
biondi che passano molto tempo in sane attività all’aria aperta.
Portava corti guanti di pelle
chiara, scuriti qua e là dall’uso, pantaloni da cavallo aderenti e
stivali.
“Oddio sto per svenire...”
mormorò Jasmine.
“Non vuoi più andare in
Bretagna con Jacques?” le chiese Sophie.
“Oh, sta un po’ zitta!”
Il ranger smontò con mossa agile
da cavallo, e tenendo l’animale per le redini si avvicinò. Chiese
qualcosa.
Le quattro si guardarono
desolate, ognuna di esse rimpiangendo di non aver imparato un po’
meglio l’inglese quando andava a scuola, infine Corinne tentò:
“Français.”
“Ah, ma certo, scusate,”
rispose disinvolto il giovanotto, in un francese che l’accento
americano rendeva secondo le ragazze decisamente sexy. “Vi siete
perse?”
§
Il ranger Reyes stava
distribuendo opuscoli nella reception del parco. Una specie di
gallina legnosa, precocemente ingrigita e vestita di cotone grezzo,
lo squadrò con sospetto e gli chiese: “I sentieri sono cruelty
free?”
Senza battere ciglio, l’uomo le
chiese: “Che intende dire, signora?”
“Non è che per rendere i
percorsi più facili avrete distrutto qualche habitat, vero?”
Impassibile, Reyes rispose: “No
di certo, signora. Del resto, questo è un parco naturale, nasce
proprio per tutelare la flora e la fauna.”
La visitatrice annuì, senza
preoccuparsi di nascondere il fatto che le rassicurazioni del ranger
la convincessero fino a un certo punto. “A Yosemite hanno
addirittura abbattuto degli alberi per fare un dormitorio,” lo
informò, “e si spacciano per un parco naturale.” Lo fissò come
sfidandolo a controbattere, poi chiese: “Il servizio di
ristorazione del parco include menu vegani?”
Reyes annuì come se la domanda
non potesse presupporre altro che una risposta affermativa. “Ma
certamente, signora.”
“Meno male, altrimenti avrei
lascito un feedback negativo. Gli opuscoli sono gratis?”
“Certo, signora.”
La donna cominciò a fare man
bassa di ogni pezzo di carta in esposizione. Quando ebbe raccolto un
pacco di fogli che sembrava la Bibbia, si girò e uscì.
Reyes la guardò allontanarsi,
quindi si voltò verso il collega Cooper, che stava trafficando al
computer, e brontolò: “Neanche mezza parola, ‘sta stronza.”
Poi, imitando il tono sussiegoso della visitatrice: “Non avrete
mica tagliato degli alberi per fare i sentieri, vero?” Alzò le
spalle. “Ma no di certo, signora, se vuole visitare il parco le
diamo un machete e si arrangia.”
L’altro alzò le spalle.
“Lascia perdere. Hai presente la tizia dell’altro giorno?”
Anche lui fece la voce in falsetto: “Come fate a far sventolare
tutte la bandiere nella stessa direzione?”[1] Stava per aggiungere
altro, ma si interruppe e indicò attraverso l’ampia vetrata della
reception un gruppetto in avvicinamento. “Guarda là,” disse.
Un ranger camminava tenendo il
cavallo per le redini, in sella all’animale vi era una ragazza con
un paio di short e una camicetta annodata sotto il seno. Altre tre
ragazze, macchina fotografica alla mano, attorniavano il ranger e di
quando in quando immortalavano lo svolgersi degli eventi. Fin da
quella distanza, con tanto di barriera del doppio vetro termico, si
sentivano gridolini e risate.
“Ma tu guarda,” brontolò
Reyes.
Cooper aggrottò le sopracciglia.
“Chi è?”
“Non hai riconosciuto il
palomino? È quello stronzo di Boston.”
“Che gran testa di cazzo,”
brontolò l’altro. “Il fottuto primo della classe delle mie
palle.”
Nel piazzale, intanto, le quattro
ragazze stavano consumando la memoria dei loro cellulari rosa a forza
di foto e filmati.
“Testa di cazzo,” ripeté
Cooper. “Non poteva starsene nella sua fottuta città? No, se ne
viene qui, in mezzo a gente che nei boschi ci è nata
e cresciuta, a fare il
saputello. L’altro giorno dovevi esserci: arriva questa famiglia di
non so dove, il bambino chiede se è vero che qui abitano Cip e Ciop.
Sto per rispondere quando passa quello stronzo di Turner, con la sua
faccia da pubblicità dei detersivi, e fa: certo, si tratta di
scoiattoli appartenenti al genere degli sciuridi, comunemente detti
tamia o chipmunk.”
“Che idiota.”
“Chi cazzo l’aveva chiamato,
fra l’altro. Ma Mister Pubblicità non resiste: pianta a mezzo
anche una scopata, se c’è da mettersi in mostra.”
Reyes scosse la testa. “Per me
non ci arriva. Siccome è di città vuole far vedere che anche lui
conosce la natura, ma non si rende conto che invece rompe i coglioni
e basta.”
“Poteva anche rimanerci, nella
sua cazzo di città,” brontolò Cooper.
§
Bennett raccolse le chiavi della
jeep e si sistemò in testa lo smokey cap. “Io vado,” annunciò.
Dalla sala operativa, Cooper
chiese: “Fai il Navajo Trail?”
“Sì, ho fatto cambio con
Bowers.”
L’altro sollevò con
ostentazione le sopracciglia. “Quindi sei con il perfettino di
città?”
“Chi?”
“Turner, no? Quello di Boston.”
Bennett alzò le spalle. “Mi va
sempre meglio che a Harris, dai. Vi ricordate quando si trovò nella
jeep un serpente a sonagli? Almeno lo stronzetto non è velenoso.”
Lanciò in aria le chiavi e le riacchiappò al volo, poi disse: “Ci
si vede, ragazzi.”
Uscì sul piazzale. Turner,
uniforme impeccabile nonostante il caldo, sedeva al posto di guida.
Al suo apparire, si voltò verso di lui e chiese: “Andiamo?”
Senza replicare, Bennet si
sedette nel posto del passeggero.
“Navajo Trail, giusto?” gli
chiese il più giovane.
“Come fai a saperlo?”
Turner assunse l’espressione di
Sherlock Holmes che sta per dire ‘elementare, Watson’, quindi
spiegò: “Ho visto che Bowers era di servizio alla reception,
quindi ho immaginato che avesse fatto cambio con qualcuno. Tutte le
altre jeep sono già partite, quindi non resta che il Navajo Trail.”
Si girò verso di lui con un sorriso che metteva in risalto la
dentatura da attore.
Bennett si limitò a tendergli le
chiavi.
Turner mise in moto, la vettura
partì. Dopo un po’ che procedevano in silenzio, il giovanotto
disse: “Quando hai tempo, vorrei portarti su a Knopf Peak. Credo
proprio di aver individuato una nuova specie di Pinus che non è né
il longeva né l’aristata. Normalmente si attribuiscono alle
Balfourianae solo tre specie, ma io penso che lassù ne cresca una
quarta.” Lo fissò compiaciuto.
Bennett, che aveva cominciato a
fare il ranger a diciott’anni e normalmente partecipava alla
manutenzione dei sentieri con ascia e piccone, si limitò a dire:
“Eh?”
“È un raggruppamento
tassonomico del sottogenere Ducampopinus,” precisò Turner.
“Ora è tutto decisamente più
chiaro,” rispose l’altro, con un tono che poteva significare
molte cose.
Proseguirono in silenzio fino a
che non raggiunsero un belvedere dal quale si poteva osservare una
delle vallate più belle del parco. Gruppetti di escursionisti di
varie nazionalità fotografavano il panorama o sedevano ai tavolini
consumando pasti al sacco.
I due parcheggiarono la jeep e
smontarono. Tutto sembrava a posto, i rifiuti erano negli appositi
contenitori, suddivisi per tipologia, i bagni chimici erano in
ordine. Cartelli e barriere in legno erano in ottimo stato.
A un certo punto, una voce
femminile disse: “Scusate, ranger.”
I due si girarono e si trovarono
davanti una donna di mezz’età, con un sobrio completo da trekking
e una coppia di bastoncini da escursione che le penzolava da un
polso.
Subito Bennett chiese: “Posso
aiutarla, signora?”
“Oh, sì, per favore.” La
donna indicò dei fiori rosa carico che sembravano composti da
mazzetti di piume legate insieme. “Potrebbe dirmi come si chiamano
quelli?”
“Ma certo, signora. Noi li
chiamiamo pennelli indiani.”
Turner intervenne: “Ma è un
nome popolare. Il nome scientifico è Castilleja parvula. Si tratta
di una pianta perenne diffusa in tutta la zona dei monti Tushar.”
“Oh, molte grazie, ranger!”
esclamò la donna, illuminandosi in viso. Poi, con voce vagamente
maliziosa: “La farebbe una foto con me?”
“Ma certo, signora.”
La donna porse la macchina
fotografica a Bennett. “Potrebbe...”
“Certo, signora,” grugnì il
ranger. Scattò e le riconsegnò l’apparecchio.
“Grazie!”
La donna raggiunse un gruppetto
di escursionisti. Quando essi si furono allontananti, Bennett con
voce gelida disse: “Molte grazie anche da parte mia.”
Turner lo fissò perplesso.
“Perché?”
“Per avermi fatto fare la
figura dell’idiota con quella tizia. Molte grazie.”
L’altro assunse un’espressione
se possibile ancora più stupita. “Volevo solo essere d’aiuto,”
disse infine.
“E allora avresti dovuto stare
zitto.”
“Perché?”
Bennett scosse la testa. “Proprio
non ci arrivi, Turner?”
Il giovanotto si strinse nelle
spalle. “È nostro dovere dare tutte le informazioni possibili ai
visitatori, no?”
L’altro si limitò a scuotere
nuovamente la testa.
Al rientro erano ancora in
silenzio. Turner aveva provato ogni tanto a girarsi verso il collega,
ma aveva invariabilmente incontrato il suo profilo.
Eppure ci stava provando, a
diventare un perfetto ranger, ci stava provando disperatamente: si
rendeva utile più che poteva, sostituiva i colleghi se c’era
bisogno, studiava giorno e notte per non essere impreparato su
niente, si prodigava per aiutare i visitatori, si teneva in forma per
dare sempre un’immagine sana e positiva del Corpo… A quanto
pareva, però, la strada era ancora molto lunga.
Si chiese se lo tenessero a
distanza perché veniva dalla città. Di nuovo fissò di sottecchi il
collega, che però si limitò a dirgli: “Tieni gli occhi sulla
strada.”
Turner non replicò.
Entrò nel piazzale, parcheggiò
il mezzo e spense il motore. Stava per dire 'siamo arrivati', ma
prima che potesse emettere un fiato Bennett aprì la portiera e
scese. Al più giovane non rimase che stare a guardarlo mentre si
allontanava.
Compilò il registro degli
spostamenti, si accertò che il freno a mano fosse tirato, scese e
chiuse accuratamente la portiera con la chiave, quindi si diresse
all'edificio degli alloggi.
Quando entrò, gli altri stavano
già mangiando. Bennett, che aveva davanti una pizza coi peperoni e
una coca, non alzò nemmeno la testa.
Egli andò al frigorifero, ne
trasse il proprio pasto e raggiunse il tavolo. Un collega scrutò il
contenuto della sua scatola bento e gli disse: “Lo sai qual è la
differenza tra mangiare il sushi e mangiare la figa? Il riso.”
Tutti sghignazzarono alla
battuta, da qualche parte qualcuno disse: “Io preferisco la figa,
comunque.”
Turner fece girare lo sguardo sul
cibo degli altri: hamburger, pizze, ciambelle glassate. La birra era
proibita, ovviamente, ma coca cola e bibite abbondavano.
In quell'assortimento di menu da
fast food, il suo contenitore minimal-chic di cibo giapponese e la
sua bottiglia d'acqua minerale apparivano in effetti decisamente
fuori posto.
Come me,
si disse. Tirò fuori le bacchette e gli parve di aver tirato fuori
l'uccello a una riunione ufficiale.
E dire che non era mica la prima
volta che si portava dietro il pranzo giapponese. Lui criticava forse
i loro cibi pieni di grassi e zuccheri? Le loro bevande assurdamente
gassate? Bere una lattina di coca cola era come infilarsi in bocca
sette zollette di zucchero, ma non si era mai permesso di dire
niente.
Si chiese quando si sarebbero
arresi al fatto che pur essendo uno di città, pur avendo gusti e
comportamenti diversi dai loro, era un ranger come loro.
§
La sala briefing era gremita. Era
uno dei rari giorni di chiusura al pubblico del parco e, come di
solito accadeva in tali occasioni, c'era la riunione generale. Tutti
odiavano l'evento, pomposamente detto Giorno della Crescita, perché
nel corso di essa sarebbero stati letti i feedback positivi e
negativi che i visitatori avevano lasciato a ogni ranger, dopodiché
i contenuti delle lamentele sarebbero stati studiati accuratamente e
sarebbero state proposte azioni di miglioramento.
In prima fila, impeccabile,
sedeva Turner, con un blocco per gli appunti sulle ginocchia.
“Fanculo al Giorno della
Crescita,” brontolò Cooper, che invece si era trovato un posto
nelle retrovie, “farebbero meglio a chiamarlo Giorno
dell'Inculata, farebbero.”
Bowers, che sedeva appena davanti
a lui, si girò a guardarlo, ghignò e disse: “Dovresti essere un
po' più assertivo, Jim: hai la meravigliosa occasione di lavorare
sui tuoi difetti per diventare una persona migliore, non sei
contento?”
“Fanculo.”
“Non ti ricordi i corsi della
psicologa? Qual è la prima fase dell'assertività?”
“Vuoi un cazzotto, Fred?”
“Provaci e io
ti lascio un feedback negativo.”
“Stronzo.”
Lo scambio fu interrotto
dall'arrivo del supervisore. L'uomo, un signore un po’ brizzolato,
con l’aria da papà buono, raggiunse il leggio, quindi inforcò un
paio d’occhiali e attivò il proiettore. Alle sue spalle comparve
una veduta del parco, con in primo piano l'immagine di due bambini in
tenuta da trekking, un maschietto e una femminuccia, che si tenevano
per mano e sembravano molto felici di essere in mezzo alla natura
incontaminata.
“Mocciosi del cazzo,”
brontolò qualcuno nella penombra che era calata, “rompono sempre i
coglioni.”
Il supervisore fece elegantemente
finta di non sentire.
Tirò fuori alcuni fogli scritti
a mano con penne e grafie diverse, quindi cominciò: “E ora, come
sempre, vedremo che cosa dice la gente di noi.” Fece una studiata
pausa, quindi soggiunse: “Voi cosa pensate che diranno?”
Alla domanda seguì un silenzio
di tomba, nel quale il fruscio del primo foglio che veniva sfilato
dalla pila risuonò sinistro.
Il supervisore si schiarì la
voce. “Cooper,” disse poi, “cominciamo da te. Una coppia di
vegani dice che hai traumatizzato i loro figli.”
Il ranger aggrottò le
sopracciglia. “Eh? Cos'avrei fatto?”
“Riportano la frase: se
andate in quella direzione, trovate un bel ristorante. Hanno di
tutto: maiale, pollo e manzo. Le bistecche sono talmente al sangue
che muggiscono ancora.”
L'espressione di Cooper divenne
perplessa. “Dove sarebbe il trauma?”
“Hai nominato le bistecche al
sangue.”
L'altro continuava a non capire.
“E quindi?”
Il supervisore emise un sospiro e
spiegò: “I vegani non mangiano carne, capisci? Sono contro la
crudeltà. Se tu gli parli di bistecche che muggiscono ancora, li
traumatizzi e fai fare brutta figura allo staff del parco.”
“Ma che cazzo, capo!” si
inalberò il ranger, “Siamo qui per fare i maggiordomi o per tirare
fuori la gente dalla merda quando ci finisce dentro? Si ricorda quei
due idioti che erano caduti dentro il Mariposa Pond?”
“Quello infatti è un feedback
positivo. Hanno detto che sei stato molto efficiente.”
“Ah, volevo ben dire.”
“Però devi lavorare di più
sulla sensibilità ai nuovi bisogni. Ad esempio, la gente ha bisogno
di sentirsi capita nelle sue esigenze etiche.”
Cooper brontolò qualcosa di
inintelligibile.
“Reyes,” chiamò allora il
supervisore.
“Capo?”
Il supervisore corrugò la fronte
e in tono cupo proseguì: “Reyes, qui dicono una cosa molto grave.”
“Sarebbe?”
Giunse carica di riprovazione la
risposta: “Hai detto a una comitiva di ebrei che li avresti spediti
volentieri a visitare Auschwitz, però assicurandoti che ci
rimanessero.”
“Non la piantavano di rompere
le palle su qualsiasi cosa, capo. E poi chi cazzo se
lo immaginava che erano
davvero ebrei?”
“Comunque non si dice.”
“Capo, secondo me è un po'
troppo tempo che lei non ha a che fare con i visitatori. Adesso sono
diventati un branco di rompicoglioni pretenziosi.”
“Devi lavorare di più sulla
tolleranza e il rispetto, Reyes.”
La cosa continuò per un po',
mentre l'atmosfera si inveleniva sempre di più. Alla fine erano
tutti incazzati come iene.
Fu a quel punto che il
supervisore disse: “E ora una bella notizia: abbiamo qui un ranger
che non ha ricevuto nessun feedback negativo e ne ha moltissimi
positivi. Bel lavoro, ragazzo!” Sfilò un foglio, si schiarì la
gola e lesse: “Gentilissimo e professionale, molto preparato. Lo
ringrazio per avermi insegnato il nome scientifico del pennello
indiano.”
L’elogio fu accolto da un
silenzio gelido.
Il supervisore sfilò un altro
foglio. Aggrottò le sopracciglia e borbottò: “Questo qui l'ha
scritto qualche straniero.” Poi, a voce più alta: “Quando è
arrivato con suo bel cavallo, noi ragazze pensato che era Lone
Ranger.”
“Gli manca solo la maschera,”
ringhiò Bennett. Rivolse un'occhiata feroce a Turner, che
dall’inizio della riunione prendeva appunti come se il supervisore
stesse rivelando il sistema per diventare miliardari in tre giorni.
“Non siete curiosi di sapere
chi è?”
Silenzio.
Il supervisore non se ne diede
per inteso. “È il nostro giovanotto di città. Alzati in piedi,
Turner, ragazzo mio. Hai lavorato sodo e i risultati si vedono,
complimenti! Ti proporrò per un encomio.”
“So io cosa ci vorrebbe per
quello lì,” ringhiò Cooper fra i denti.
Reyes annuì, poi rispose: “Sì,
è parecchio che stanno tranquilli, tra un po’ cominceranno a farsi
vivi.”
“Beh, direi che lo stronzetto
sarebbe l’ideale.”
§
Turner spinse il palomino su un
piccolo rilievo del terreno, dopodiché tirò le redini e appoggiato
al pomo della sella rimase a scrutare l’orizzonte. In quella zona,
il parco era una distesa di alberi radi e contorti, che emergevano da
erba così alta da arrivare al ventre dei cavalli. Era una zona
interdetta ai visitatori, la sua funzione era di ripopolamento e di
ricerca, per cui non c’erano sentieri né segnali.
Si guardò lentamente intorno. Un
falco pellegrino attraversò il cielo terso lanciando un lungo
strido, qualcosa strisciava nell’erba alta.
Poi a un certo punto colse in
lontananza una sagoma che lo spinse ad aggrottare le sopracciglia
perplesso.
Si aggiustò il cappello in modo
che la tesa gli ombreggiasse maggiormente il viso, poi scrutò di
nuovo: c’era un uomo.
Un uomo in abiti civili, alto,
con la barba incolta. Per quello che poteva vedere, portava un
giaccone mimetico e forse un paio di Jeans. Sulla spalla aveva un
fucile.
Si sentì attraversare da
un’ondata di adrenalina, quello non poteva essere altro che un
bracconiere. “Fred!” chiamò, stando attento a non alzare troppo
la voce e a non perdere di vista il tizio misterioso.
Udì uno scalpiccio di zoccoli
alle sue spalle, poi la voce del collega chiese: “Che c’è?”
Senza muoversi, Turner sussurrò:
“C’è un uomo.”
“Dove?”
Il più giovane indicò la
macchia. “Là in fondo, vicino ai due alberi secchi. Io scommetto
che è un bracconiere.”
Bowers lo affiancò, quindi
staccò il binocolo dalla sella e scorse con quello la distesa di
erba alta. Infine riabbassò lo strumento e disse: “È tutto a
posto, qui non ci sono bracconieri.”
Turner trasecolò. “Tutto a
posto? Ma è in una zona riservata, ha un fucile! Certo che è un
bracconiere!”
L’altro fece un gesto di
noncuranza, poi replicò: “Non fare tutto questo casino, lo vedo
anch’io che ha un fucile.”
“Ma è proibito, dobbiamo
riferirlo immediatamente al supervisore.”
“Lo sa già.”
“Cosa?”
“Lo sa. Qui vive della gente.
Famiglie che stavano qui prima che il Governo dichiarasse questo
posto parco naturale, e che continueranno a starci.”
Turner fissò di nuovo il
misterioso uomo e si accorse che dalla cintura gli penzolavano due
anatre abbattute. Si precipitò a indicarle al collega, che però non
parve particolarmente colpito dalla faccenda. Alzò anzi le spalle e
semplicemente disse: “Con questa gente bisogna andare d’accordo.”
Voltò il cavallo e prese a ridiscendere l’altura. Turner diede
un’ultima occhiata all’uomo che stava scomparendo nella
vegetazione, poi seguì il collega.
“Perché io non ne sapevo
nulla?” chiese affiancandolo.
“Perché sei l’ultimo
arrivato.”
“Ma io sono un ranger di questo
parco, devo sapere certe cose.”
“Tu pensa a studiare i nomi
latini dei bacherozzi, e lascia il lavoro vero a chi in questi posti
ci è cresciuto.”
Turner non replicò e la
cavalcata proseguì in silenzio. Abbandonarono la zona interdetta ai
visitatori e raggiunsero il più remoto dei sentieri aperti al
pubblico, nel quale normalmente transitavano solo escursionisti
esperti.
“Andiamo a vedere se a
Rattlesnake Point è tutto a posto,” disse Bowers, e senza
attendere risposta spronò il cavallo in quella direzione.
Mentre procedevano affiancati li
raggiunse da un sentiero di servizio anche Reyes, che spinse il suo
cavallo fra i loro due, poi si rivolse al collega più anziano e
chiese: “Tutto in ordine?”
“Stavo andando a Rattlesnake,”
fu la risposta. L'altro annuì grave e a Turner parve che facesse
girare lo sguardo intorno, come alla ricerca di qualcosa. Infine
disse: “Vengo anch'io.”
Raggiunsero la remota piazzola di
sosta e subito fu chiaro che era successo qualcosa: per terra c'erano
alcuni dei pali levigati che nel parco si usavano per le costruzioni,
spezzati e bruciacchiati. Nell'aria aleggiava l'odore che normalmente
si levava dai gabinetti chimici quando era il momento di vuotarli.
Avanzarono ancora e d'un tratto
compresero il motivo degli strani rilevamenti: la toilette era stata
oggetto di pesanti vandalismi. La porta era sfasciata, la seduta
interna sembrava essere stata distrutta a colpi di mazza. Le tegole
di legno del tetto erano sparse ovunque, le travi erano state
divelte.
La struttura era inservibile.
Turner tirò le redini e per un
po' rimase a osservare in silenzio lo scempio. “Chi può essere
stato?” chiese, ma non gli giunse risposta.
Si girò verso i colleghi e vide
che stavano scendendo da cavallo. Frattanto parlavano fra loro a
bassa voce.
Smontò a sua volta e li
raggiunse, ma i due continuarono a parlare fra di loro. Bowers diede
un calcio a un frammento di legno, poi disse: “Gli orsi si stanno
svegliando.”
Reyes assentì. “Questo è solo
l'inizio.”
“Hanno voglia di carne.”
Il più giovane rimase per un po'
ad ascoltarli in silenzio. Non che si intendesse molto di atti
vandalici, in fin dei conti aveva scelto di fare il ranger proprio
perché l'idea di fare il poliziotto non gli piaceva, ma ciò che
stava vedendo non gli evocava nessun animale, per quanto grosso o
infastidito dalla presenza umana.
Prestò orecchio allo scambio
degli altri due, che invece continuavano a parlare di orsi.
Strinse le labbra infastidito:
quello era un comportamento tipico, del quale gli avevano più volte
parlato durante il corso di studi per diventare ranger. La gente con
molti anni di servizio, svolto magari sempre nello stesso parco,
tendeva a farsi delle proprie idee, non necessariamente giuste, e a
sostituire quelle alla realtà dei fatti. Ripensò a tutte le volte
che era stato pesantemente rimbeccato per aver espresso nient'altro
che competenze precise e scientificamente ineccepibili e di colpo si
sentì avvampare di rabbia: non avrebbe permesso che le credenze e le
abitudini prevalessero sulla razionalità.
Bowers e Reyes potevano avere
vent'anni di servizio, ma evidentemente di plantigradi non sapevano
proprio nulla, a parte forse qualche leggenda da vecchi cacciatori.
“Qui non ci sono orsi,”
disse, “e anche se ci fossero, di certo non è
in estate che si
svegliano.”
I due, che stavano parlando fra
loro, tacquero e all'unisono si girarono verso di lui. Bowers si pose
i pugni sui fianchi, e fissandolo con uno sguardo a metà tra il
fastidio e il disprezzo, replicò: “Ma senti un po' il perfettino
di Boston che ci viene a fare la lezione. Complimenti, professore,
lei è molto preparato. Sa tutto dei nomi latini e delle
statistiche.” Scosse la testa. “Peccato però che in pratica non
capisca un cazzo.” Poi, rivolto al collega: “Dai, torniamo al
campo base, bisognerà avvisare gli altri e mandare qualcuno a
sistemare questo casino.”
L'altro, il piede già nella
staffa, rispose: “Sì, e poi bisognerà decidere cosa fare. Se le
cose sono già a questo punto, non c'è molto tempo.” Si issò in
sella.
Turner avrebbe voluto chiedere
delucidazioni, perché ancora una volta Bowes e Reyes si erano messi
a parlare in un modo che gli risultava incomprensibile, ma i due si
stavano già allontanando affiancati, a un buon trotto.
A lui non rimase che montare a
sua volta e seguirli.
§
Sventolando una copia del 'Nature
News', il giornale interno del parco, Bennett disse: “Guardate qua,
ragazzi: quando si dice le soddisfazioni della vita.”
Cooper, Reyes e Franklin, che si
stavano preparando a montare sulla jeep, richiusero le portiere e
attesero.
“Guardate qua,” ripeté
Bennett.
Sulla prima pagina del periodico
c'era una fotografia che sembrava ritagliata da un manifesto di
propaganda: ritraeva un giovane ranger biondo, atletico, con gli
occhi celesti, il sorriso da attore e i bicipiti scolpiti.
'Competenza, disponibilità e
simpatia', recitava il titolo, 'ecco il ranger dell'anno'.
“Che mi venga un colpo se
questo non è lo stronzetto di città,” ringhiò Franklin, fissando
la fotografia come se stesse per piantarci un coltello.
“Ve l'ho detto, ragazzi, sono
soddisfazioni,” riprese Bennett. “Uno lavora, si fa il culo... e
questo è il risultato.”
“Gli altri cos'hanno detto?”
chiese Cooper.
Il primo alzò le spalle. “Potete
immaginare. L'unico contento è il capo. Lo stronzetto gli piace,
vorrebbe che fossimo tutti come lui, così i visitatori riempirebbero
il parco di feedback positivi.”
“Vaffanculo ai visitatori, dico
io,” ringhiò Reyes incupendo lo sguardo, “deficienti pretenziosi
buoni solo a mettersi nei guai.”
Tutti assentirono. Ci fu qualche
secondo di silenzio, poi Reyes, a voce più bassa, chiese:
“Piuttosto... come pensiamo di muoverci per quella cosa?”
Gli altri si scambiarono
occhiate. Cooper infilò le mani in tasca, Franklin calciò un sasso,
mandandolo a rimbalzare contro la ruota della jeep.
“Bisognerebbe attivarsi,”
disse Bennett dopo un po'. Fece girare lo sguardo sugli altri, che
distolsero il loro.
Ci fu un altro lungo silenzio,
poi Cooper abbassò ulteriormente il tono e propose: “E lo
stronzetto?”
La domanda parve cadere nel
vuoto, gli altri quattro rimasero a guardarsi in silenzio. Infine,
Reyes distolse lo sguardo e disse: “Sarebbe l'ideale.”
“Già, la persona giusta.”
“Ma regge?”
“Chi se ne frega.”
“Eh no, poi viene fuori un
casino.”
L'ultimo a parlare era stato
Franklin. Gli altri lo guardarono quasi con risentimento, ma lui
insisté: “Poi viene fuori un casino, e dopo è peggio.”
Ci fu qualche mugugno in
risposta, poi Bennett concluse: “Sarà meglio tirare fuori un nome,
comunque, perché quella faccenda non aspetta in eterno.”
Nel frattempo, Doug Turner,
uniforme impeccabile, sorriso da attore, stava svolgendo il suo turno
alla reception assieme al ranger Zilker.
Il collega trafficava al
computer, indeciso se aprire tetris o candy crush, mentre davanti a
lui c'era una fila che arrivava quasi alla porta d'entrata, composta
perlopiù da donne e ragazze.
Si avvicinò una rugosa signora
dallo chignon bianco, con un paio di bermuda, scarponi da trekking e
uno sdrucito zaino su cui erano cucite le toppe di svariati campi
base. La donna aprì sul bancone una mappa del parco e chiese
informazioni su uno dei sentieri. Con fare professionale, Turner le
spiegò ogni particolarità di quel percorso, fornendole anche degli
ulteriori opuscoli, quindi chiese: “È tutto, signora?”
“No, veramente vorrei sapere
qualcosa anche di quest'altro sentiero.” Lo indicò sulla mappa.
Di nuovo, Turner le fornì ogni
possibile informazione. “Le serve altro, signora?” chiese infine.
La donna gettò una fugace
occhiata dietro di sé, constatando che la coda cominciava a dare
segni d'impazienza, quindi rispose: “Sì, ecco... sarebbe
possibile... ehm... noleggiarla per un'escursione privata, solo io e
lei?” Gli scoccò un'occhiata languida.
Impassibile, il ranger rispose:
“Mi spiace, signora, ma temo che queste attività non siano
previste nel nostro servizio.”
“Capisco. E fuori dal
servizio?”
§
L'acqua doveva scorrere almeno
dalla notte prima, perché tutt'intorno si era creato un pantano nel
quale gli scarponi dei ranger affondavano. La fontanella era stata
divelta e giaceva ai piedi di una piccola scarpata. Le panche e i
tavoli da picnic erano stati ammucchiati da una parte. Vi era stato
poi appiccato il fuoco, che però doveva essersi spento quasi subito,
lasciando un cumulo di assi annerite e fumiganti.
Franklin andò alla botola in cui
si trovava il rubinetto che chiudeva la tubatura, solo per accorgersi
che era stato danneggiato anche quello. Alzò la testa e in tono cupo
annunciò: “Gli orsi stanno perdendo la pazienza.” Gli parve di
cogliere una presenza tra le fronde, ma a una seconda occhiata tutto
era immobile. La cosa non lo rassicurò per niente.
Reyes annuì grave e disse:
“Credo proprio che sia arrivato il momento di mandare qualcuno a
controllare se MacDowell distilla clandestinamente.”
Tutti assentirono.
“Ci togliamo il pensiero,”
disse Cooper, “poi siamo a posto per un po'.”
“Sì, è ora.”
Franklin gettò un altro sguardo
sconsolato allo zampillo, che saliva fino a due metri e faceva
ricadere un festone cristallino sul terreno rossastro, poi disse:
“Sentiamo anche gli altri, ma credo che saranno tutti d'accordo.”
“È l'unica.”
Di nuovo sul gruppo calò un
silenzio rotto solo dallo scrosciare del getto. Poi Cooper disse:
“Quello là non è dei nostri, non ha niente a che fare con noi.”
“Poteva restarsene nella sua
città,” rincarò Reyes. “Viene qui a vantarsi, a fare il primo
della classe, ma di questo posto in realtà non sa nulla.”
“Proprio nulla.”
“Farà un corso accelerato,”
ghignò Franklin.
§
Turner fermò la jeep in una
rientranza lungo un sentiero di servizio, quindi tirò fuori la mappa
che gli avevano dato i colleghi – una mappa del parco che non aveva
mai visto – e ancora una volta la squadrò. Vi era tracciato un
sottilissimo percorso che dalla pista su cui si trovava si inoltrava
nella macchia.
Stando a quello che era riportato
sulla cartina, alla fine del sentiero avrebbe dovuto trovare
l'abitazione dei misteriosi personaggi che vivevano lì da prima che
la zona fosse dichiarata parco naturale.
Si chiese che razza di gente
fosse. Magari si trattava di nativi, anche se il nome che gli avevano
dato i colleghi non sembrava indiano, oppure di gente la cui famiglia
aveva abitato lì per generazioni e col passare del tempo aveva
acquisito privilegi ormai inalienabili.
Si chiese anche perché avessero
affidato quello strano compito – controllare se un certo signor
MacDowell stesse distillando clandestinamente – proprio a lui.
Forse era un modo per metterlo alla prova, per vedere se nonostante
tutto poteva diventare un buon ranger?
Scese dalla jeep, chiuse con cura
la portiera nonostante fosse praticamente in mezzo al nulla, quindi
individuò il sentiero che era segnato sulla mappa e senza indugio lo
imboccò.
Il percorso era talmente stretto
che a stento vi sarebbe passata più di una persona, il fondo era
poco più di una serpeggiante scia di impronte. L'erba calpestata
faceva capire che veniva usato con regolarità, anche se forse non
quotidianamente.
Procedette per un buon mezzo
miglio, poi il sentiero si allargò un po'. La vegetazione si fece
meno fitta, dietro le cime degli alberi spuntò un tetto di legno.
Un cane cominciò ad abbaiare, un
latrato basso, lungo, da bestia di grossa taglia. Poco dopo se ne
aggiunsero altri, più acuti e secchi.
Turner, che stava procedendo di
buon passo, rallentò la marcia fino a fermarsi, poi rimase in
ascolto. I cani non accennavano a smettere, ma non si udivano voci.
Riprese a camminare, più adagio.
Era normale che ci fossero cani in un parco naturale? Quanti ce
n'erano? Se li sarebbe trovati addosso?
Si rese conto di essere un po'
inquieto, sia per i cani, sia per la stranezza del luogo. Si chiese
cos'avrebbe trovato alla fine del sentiero.
La sua curiosità fu soddisfatta
poco dopo: sbucò in una specie di radura disseminata di rifiuti,
lattine di birra vuote, una sdraio sgangherata, una carcassa di
macchina rugginosa, con il cofano pieno di erbacce e un paio di
galline appollaiate su quel che restava dei sedili.
Da un albero penzolava, appesa
per una zampa posteriore, una carcassa di ungulato senza testa. Le
mosche ronzavano sul collo tagliato. Poco lontano c'era un pickup
bianco con il cofano tutto rigato di sangue e cosparso di ciuffi di
pelo.
“Caccia di frodo,” disse fra
sé e sé.
Al centro dello spiazzo c'era un
edificio a un solo piano, col tetto spiovente, sgangherato e
fatiscente al pari di tutto il resto.
I cani, un bloodhound e due
pitbull, erano chiusi in un recinto e continuavano ad abbaiare
furiosamente, saltando con le zampe anteriori contro la rete.
Il ranger si sentì invadere
dall'inquietudine: senza mezzi termini, quel posto era sinistro. Chi
poteva vivere in un luogo del genere, con gli animali morti appesi
agli alberi e la sporcizia ovunque? Prese in seria considerazione
l'idea di ritornare alla macchina, per poi ripresentarsi in
quell'orribile abituro in compagnia di un collega.
Si voltò indietro, ma non si
mosse. Forse era proprio quella la prova, forse gli altri si
aspettavano di vederlo tornare con la coda fra le gambe, spaventato a
morte per colpa di un po' di pattume e di una carcassa messa a
frollare.
Pensò a quanto avrebbero riso di
lui. Se già lo disprezzavano così, poteva immaginare cosa sarebbe
successo dopo la sua eventuale fuga.
Si costrinse ad avanzare nella
radura. I latrati ebbero un parossismo, da qualche parte una voce
maschile urlò: “Bully, Killer! Che cazzo avete da far casino?”
Raggiunse la porta. Raccolse il
coraggio e bussò.
Passarono alcuni secondi, poi
dall'altra parte si udirono dei passi pesanti. L'anta si aprì,
rivelando un uomo sulla trentina, alto un metro e novanta, robusto,
con una gran barba lunga fino al petto e una salopette di jeans come
unico indumento.
Turner dovette lottare per non
fare un passo indietro. “Buon giorno,” disse, cercando di
mantenere la voce ferma.
“Buon giorno,” fece eco
l'uomo, senza mutare minimamente la propria espressione.
“È... è lei il signor
MacDowell?”
“Qui siamo tutti MacDowell.”
Il ranger si rese conto che i
suoi colleghi non gli avevano detto il nome proprio della persona che
avrebbe dovuto controllare. Anche quella era una prova, magari per
valutare la sua capacità di risolvere problemi imprevisti?
“Sono qui per accertarmi che
tutto sia in ordine,” rispose. “Posso dare un'occhiata?”
L'uomo si scostò dalla soglia.
“Prego.”
Turner a quel punto tentennò.
L'interno della casa era semibuio e ingombro di rifiuti al pari
dell'esterno. Puzzava di birra rancida, fumo stantio e sporcizia.
Fece per arretrare, ma impattò contro un solido ostacolo. Alle sue
spalle una voce profonda chiese: “Ci vuole già lasciare, ranger?”
Egli si girò e si trovò davanti
un uomo grosso quanto il primo ma più anziano, a sua volta barbuto,
vestito con una vecchia camicia a scacchi e un paio di jeans
sdruciti. “Io... forse è meglio che torni in un altro momento,”
balbettò Turner, la cui inquietudine cresceva di attimo in attimo.
“Con permesso.”
L'uomo rimase immobile.
“Con permesso,” ripeté il
ranger, cercando di mantenere la voce neutra.
L'altro gli artigliò la spalla
con una presa d'acciaio. “Dove vuole andare, ranger?” gli chiese
con ostentata cortesia. “Non doveva fare dei controlli?”
Turner si sentì sospingere verso
l'interno dell'abitazione. Calma,
si disse. Calma, non
farti prendere dal panico, pensa a cosa fare.
Si chiese, quasi sperandolo, se quello fosse una specie di scherzo
ben congegnato, e se da qualche parte ci fossero i suoi colleghi,
pronti a saltar fuori per sbeffeggiarlo al momento giusto.
Cercò di svincolarsi dalla presa
in modo che il gesto sembrasse quasi casuale, ma le dita robuste
dell'uomo si serrarono al punto da fargli male. Saltò indietro con
un gemito.
L'altro lo fissò sollevando le
sopracciglia, come stupito da quello strano comportamento. “E
adesso che c'è?” chiese.
“Preferirei che evitasse di
toccarmi, per favore.”
“Ma davvero?”
Nel frattempo si stavano
allontanando sempre di più dalla soglia di casa. Turner si accorse
che nella penombra c'erano altre persone. “Mi faccia uscire,”
disse, cercando di mettere nella richiesta tutta la sua
autorevolezza. A quel punto non gli interessava più nulla di
eventuali distillazioni clandestine o di colleghi in agguato pronti a
sfotterlo, voleva solo andarsene di lì il più in fretta possibile,
perché percepiva con chiarezza che in quella casa, in quegli uomini
e in generale in tutta la situazione c'era qualcosa di profondamente
sbagliato.
La sensazione di pericolo era
nettissima. “Mi faccia uscire,” ripeté.
L'altro fece una breve risata,
poi, col tono di chi sta dicendo la cosa più normale del mondo,
rispose: “Temo proprio che non lo farò.”
“Cosa?”
Nel frattempo, tutt'intorno si
udiva un tramestio: la gente che Turner aveva intravisto nella
penombra si stava avvicinando.
Si decise in un istante:
sbilanciò con una spinta l'uomo che lo stava tallonando, si
divincolò dalla sua presa e si lanciò verso la porta ancora
socchiusa. Nella penombra della stanza, la lama di luce che ne
filtrava era intensa come un faro. Al di là si intravedevano il
verde degli alberi e l'azzurro del cielo.
Qualcosa lo colpì tra le spalle,
mandandolo lungo disteso per terra. Turner si rigirò, saltò in
piedi, ma già qualcuno lo stava afferrando per la camicia. Ricevette
un pugno che lo fece barcollare, sentì in bocca il sapore del
sangue, altri colpi gli piovvero addosso. Si difese come poteva, ma
alla fine venne afferrato saldamente per le braccia e si ritrovò
immobilizzato.
L'uomo che gli aveva aperto la
porta si spostò nel suo campo visivo. Lo squadrò senza fretta,
quindi sollevò una mano e gli slacciò lentamente il primo bottone
della camicia. Turner tentò per l'ennesima volta di divincolarsi,
poi scalciò, strappando un grugnito di disappunto all'altro. Subito
dopo gli si abbatté tra guancia e collo un manrovescio che l'avrebbe
scaraventato a terra, se non fosse stato saldamente trattenuto per le
braccia.
Il secondo bottone della camicia
cedette. A fatica per la mascella dolorante, Turner chiese: “Che
cosa volete fare?”
Giunse pacata la risposta: “Ci
vogliamo solo divertire un po'. Se farai il bravo, nessuno si farà
male.”
Il ranger si sentì gelare. “Cosa
significa?” ansimò.
L'altro ghignò. “Biondino, ti
facevo più sveglio.” Gli pizzicò un capezzolo, provocandogli un
nuovo parossismo di agitazione.
L'uomo alzò la mano per colpirlo
una seconda volta, ma a quel punto si fece udire la voce di un altro:
“Lascia, a me piace quando si agitano.”
Un altro ancora intervenne: “E
poi, quando sono chiusi dentro possono agitarsi finché vogliono. Non
vanno più da nessuna parte.”
§
I cani non abbaiavano più, forse
si erano stancati. Dappertutto c'era silenzio, dalle fessure delle
finestre non entrava più luce.
Turner si mosse a fatica sul
pavimento sudicio, facendo rotolare via una lattina di birra vuota.
Si irrigidì temendo di aver attirato con quel suono l'attenzione dei
suoi aguzzini, ma non successe nulla.
Si passò la lingua sulle labbra
aride, cercò di rialzarsi. Se solo fosse riuscito a raggiungere il
suo cellulare, o magari un telefono fisso, o qualsiasi altro mezzo di
comunicazione, avrebbe potuto chiedere aiuto, spiegare che era finito
in mezzo a un branco di pazzi maniaci pervertiti, dire che aveva
urgente bisogno di cure mediche.
In ogni caso, doveva andarsene,
prima che quelli tornassero.
Represse un brivido. Nonostante
le raccomandazioni, all'inizio non aveva per nulla fatto
il bravo come gli
avevano suggerito. Si era ribellato, si era divincolato, aveva
scalciato, morso e fatto in definitiva ogni sforzo per evitare
l'inevitabile.
Non era servito a molto.
Anche con quello avrebbe dovuto
fare i conti, una volta fuori di lì.
Nonostante il dolore e la
spossatezza, si costrinse a ragionare: le chiavi della Jeep erano
nella tasca dei suoi pantaloni, che però gli erano stati strappati
di dosso, assieme a ogni altro indumento. Aveva senso cercarli, o
sarebbe stato meglio andarsene comunque, a prescindere dal
reperimento di un mezzo di trasporto?
Scartò l'ultima ipotesi, la casa
era in un parco naturale, distante decine di miglia dal più vicino
centro abitato. Dove voleva andare nudo, stremato, dolorante e con
chissà quali lesioni addosso?
Pensò ai colleghi: probabilmente
erano passate ore dalla sua partenza, quindi ormai dovevano aver
capito che gli era successo qualcosa. Avrebbero mandato qualcuno a
cercarlo?
Dei rumori lo fecero sussultare.
Colse passi pesanti, capì che i pazzi stavano tornando. Si tirò in
piedi alla meglio, arretrò tentoni nella stanza buia. Palpò
freneticamente ciò che lo circondava, alla ricerca di un corpo
contundente qualsiasi.
La porta si aprì, sulla soglia
comparvero un paio di quei maniaci. Uno di essi aveva in mano un
oggetto che gli parve un marchio da bestiame, con la punta
arroventata al calor bianco. “Finiamo il lavoro,” disse.
§
Reyes abbandonò la lattina di
coca, in realtà piena di birra, sul tavolino davanti alla TV e
disse: “Ormai dovrebbero aver finito, no?”
Cooper si girò verso di lui.
“Che c’è, sei preoccupato per mister perfettino di città? Al
massimo non farà i giri di ricognizione a cavallo per un po’,
tutto qui.”
L’altro alzò le spalle e
semplicemente rispose: “Non so, ormai si è fatta una certa ora.”
Alzò lo sguardo verso la finestra, oltre la quale c’era il buio
impenetrabile dei luoghi molto lontani da ogni centro abitato, e
disse: “Poi viene fuori un casino, e invece di un problema risolto
ne abbiamo dieci da sistemare.”
“Io la smetterei di
preoccuparmi così tanto,” replicò Franklin, senza nemmeno alzare
gli occhi dalla rivista che stava sfogliando.
Si udì il rumore di un motore in
avvicinamento.
“Lo senti? Consegna a
domicilio, come la pizza.”
Ci fu del tramestio all’esterno,
lo sbattere di un paio di portiere, poi il motore ripartì. I ranger
uscirono sul patio e fecero appena in tempo a vedere un pickup bianco
che si allontanava.
Ai margini del cerchio di luce
prodotto dal lampione c’erano due fagotti, uno grosso e uno più
piccolo. Da quello grosso, ricavato da una vecchia coperta, spuntava
un ciuffo biondo, di quella particolare tonalità dorata che si
poteva generalmente ammirare nei manifesti di propaganda.
Bowers raccolse l’involto più
piccolo, dal quale cadde tintinnando un mazzo di chiavi, e disse:
“Chi va a recuperare la jeep domattina?”
Franklin alzò la mano. “Io.”
L’altro gli lanciò le chiavi,
poi proseguì: “E adesso portiamolo dentro, forza. Un angolo per
uno.”
Raccolsero i lembi della coperta
e scomparvero all’interno dell’edificio. Fuori non rimase nulla
di diverso dal solito.
“Portatelo nella sua stanza,”
disse Cooper.
Reyes sogguardò la propria
lattina, che nel frattempo aveva recuperato, e chiese: “Gli lascio
una birra?”
“Meglio che ce la teniamo per
noi, scommetto le palle che quell’idiota è anche astemio.”
§
Il supervisore sollevò la testa
dal rapporto che stava compilando. Di fronte a lui, pallido, le
labbra serrate e le sopracciglia aggrottate in un’espressione
rabbiosa, c’era Doug Turner. Aveva un occhio nero e un paio di
cerotti di avvicinamento sullo zigomo. Il labbro inferiore, segnato
da una cicatrice scura, era ancora un po’ gonfio. “Vuoi sederti,
figliolo?” lo invitò.
Gelido, il ranger rispose:
“Grazie, signore, preferisco stare in piedi.”
“Vuoi dirmi cosa c’è,
allora?”
Il giovane strinse gli occhi,
quindi rispose: “Beh, signore, non so se lei ne è al corrente, ma
in questo parco vive un gruppo di pervertiti sadici.”
Il supervisore annuì. “Vuoi
dire i MacDowell, ragazzo?”
Il ranger assunse un’espressione
stupefatta. “Cosa?”
“I MacDowell. Gli orsi, come li
chiamiamo noi.”
“Signore, sono degli
psicopatici, bisogna prendere provvedimenti, chiamare la polizia. Mi
hanno sequestrato e...” Strinse di nuovo le labbra, talmente forte
da farle sbiancare. “Seviziato,” concluse poi. Tirò fuori il
telefonino, scorse la galleria delle immagini e ne ingrandì una.
Voltò lo schermo verso il superiore, poi disse: “Alla fine mi
hanno fatto anche
questo.”
La foto mostrava un marchio a
fuoco largo forse cinque centimetri, fatto come la sagoma di un orso,
ancora arrossato sui bordi.
“Capisco.”
“Che intende fare, signore? Io
credo che sia meglio chiamare la polizia, quella gente va fermata.”
Il supervisore annuì grave,
prese un gran respiro e lasciando uscire il fiato disse: “Capisco
il tuo punto di vista, Turner.”
Il giovanotto aggrottò le
sopracciglia. “Che significa, signore? Questo non è un punto di
vista, non è un parere. Io le sto dicendo che quella gente mi ha
sequestrato, picchiato e… fatto altre cose, per un giorno intero.”
Il cellulare tornò fuori, pronto a mostrare nuovamente l’infamante
marchio.
Il supervisore fermò con un
gesto l’esibizione, quindi ripeté: “Io capisco il tuo punto di
vista, figliolo. Davvero, non faccio fatica a mettermi nei tuoi
panni.”
Turner fece un passo indietro, lo
squadrò diffidente. “Ma…?”
“Ma tu hai studiato etologia,
quindi sai bene che in ogni ambiente ci sono degli equilibri che
devono essere rispettati.”
“Temo di non capire,” ringhiò
Turner. “Mi sta dicendo che dei pazzi maniaci contribuiscono
all’equilibrio del parco?”
“In un certo senso sì. Un
coguaro sbrana una capra di montagna. Se interpellassimo in proposito
le capre, non potrebbero che darci un parere negativo sulla faccenda,
definirebbero i coguari assassini e direbbero che si tratta cannibali
pervertiti. Il che, dal loro punto di vista, è perfettamente
legittimo. Ma tu ed io sappiamo che se i coguari non mangiassero un
certo numero di capre di montagna, esse si riprodurrebbero a
dismisura e finirebbero per distruggere l’ambiente stesso in cui
vivono.”
Il giovanotto non replicò.
“Questa gente era qui prima di
noi,” continuò allora il supervisore, “e ha il diritto di
abitare qui.”
“Ma non di commettere dei
crimini,” lo interruppe Turner con veemenza.
Il più vecchio alzò le spalle.
“Crimini, azioni meritorie… chi può dirlo? Tu uccidi quando fai
caccia di selezione, no?”
“Ma non esseri umani.”
“Beh,” il supervisore alzò
le spalle, “va a chiedere ai daini che abbatti se condividono il
tuo punto di vista o no.”
Di nuovo il ranger mantenne un
indignato silenzio.
“Noi la chiamiamo la legge
dell’orso,” spiegò allora l’uomo. “L’orso fa parte
dell’ecosistema, ogni tanto vuole nutrirsi. Eliminare gli orsi, per
far sì che nessuno venga più sbranato da loro, serve solo a
distruggere un equilibrio che invece deve rimanere intatto.”
“Non capisco.”
“Ti sei mai chiesto perché in
questo parco non ci sia un solo bracconiere? Gli orsi ogni tanto si
vogliono divertire. Se diamo loro quello che vogliono, loro
proteggono questo posto quanto e più di noi, visto che non sono
legati alle nostre regole. Se non glielo diamo fanno danni.”
Calò il silenzio.
Infine Turner, con la voce che
tremava di rabbia, chiese: “Quindi lei non farà niente?”
Il supervisore scosse la testa.
“Proprio niente, e ti avverto che se tenterai di fare qualcosa tu,
avrai tutti contro. I tuoi colleghi non ti amano, come ben sai, e io
sarò lieto di dar loro ragione e di dichiararti inadatto al mestiere
di ranger, e forse anche affetto da qualche turba mentale, se per
caso ti metterai in testa di far uscire questa storia dai confini del
parco.”
CI fu un altro lunghissimo
silenzio, infine il più giovane disse: “Va bene, signore, credo di
aver capito.”
“Ne sono lieto, figliolo...”
cominciò l’uomo, ma Turner gli girò le spalle e uscì sbattendo
la porta.
Il supervisore emise un sospiro.
Lanciò un fugace sguardo all’anta serrata, quindi scosse la testa
e riprese a compilare il suo rapporto.
Lavorò fino a tardi, poi spense
la lampada della scrivania, si rialzò e si stirò facendo
scrocchiare la schiena.
Ultimamente aveva cominciato a
fare caldo, e si sentiva l’uniforme appiccicata addosso per il
sudore.
Raggiunse il proprio alloggio, si
sfilò gli abiti ed entrò nella cabina della doccia. Alla base della
schiena, proprio sopra una natica, aveva una vecchia cicatrice, ormai
quasi cancellata: un marchio a fuoco fatto come la sagoma di un orso.
[1] Per quanto assurda, la
domanda è stata posta veramente. L’episodio viene riportato nel
libro “Hey, ranger!” di Jim Burnett.
|