Bess
Forsaken
I piatti rimasero pieni quella sera. Esattamente come la
sera precedente.
Mi ero seduta a tavola ed ero rimasta a fissare la mia
porzione di sformato che qualche vicino ci aveva regalato –
non ricordavo chi
fosse stato esattamente. C’era un viavai continuo in quei
giorni attorno a casa
nostra: conoscenti, amici di famiglia, persino qualche parente che non
si
faceva vivo da anni. Io salutavo tutti in maniera meccanica, ma non li
guardavo
nemmeno in faccia e non li ascoltavo parlare; per quanto mi riguardava,
erano
tutti uguali e tutti anonimi.
Anche papà e Yelena lasciarono il loro piatto pieno. Mia
sorella provò a mandar giù qualche boccone, ma
poco dopo si arrese.
Quella sera a tavola c’era silenzio. Esattamente come la
sera precedente.
Di solito all’ora di cena la piccola zona giorno si
riempiva di musica. Uno di noi si sarebbe potuto alzare e avrebbe
potuto
poggiare la puntina sul vinile, ma sul piatto del giradischi era
situato ancora
Surrealistic Pillow dei Jefferson Airplane, uno
degli album preferiti di
mamma. Non avevamo il coraggio di sostituirlo con qualche altro disco,
ma non
avevamo nemmeno il coraggio di ascoltarlo senza di lei.
“Questa è la canzone che hanno suonato a
Woodstock” ci
spiegava sempre con entusiasmo appena le prime note di White
Rabbit
raggiungevano le sue orecchie. “Mi sarebbe piaciuto
partecipare al festival, ma
all’epoca avevo già messo la testa a posto: ero
sposata con vostro padre e voi
eravate già nate.”
Pensava sempre fuori dagli schemi, mia madre. Ascoltava
la musica delle nuove generazioni ed era una ribelle, un po’
come me.
Mi guardai attorno e mi accorsi, forse per la prima
volta, che oltre al vinile c’erano un sacco di altri oggetti
che le erano
appartenuti sparsi per la casa e che nessuno aveva avuto il coraggio di
toccare: la giacca leggera era ancora appesa
sull’attaccapanni all’ingresso, le
sue caramelle alla menta preferite stavano dentro una ciotolina sulla
mensola
del camino, sul bracciolo del divano era poggiato un libro letto per
metà –
sicuramente un classico inglese.
Distolsi lo sguardo: non ci volevo pensare. Preferivo
credere che da un momento all’altro mamma avrebbe fatto il
suo ingresso nella
stanza, si sarebbe scusata per il ritardo, avrebbe cenato con noi,
avrebbe
scartato una caramella alla menta e poi avrebbe ripreso in mano quel
volumetto
per portarlo a termine, per sapere come sarebbe andata a finire la
storia.
All’improvviso mio padre spezzò il silenzio,
lasciando
andare la forchetta sul piano del tavolo e trascinando la sedia
all’indietro.
Sobbalzai e mi voltai a guardarlo: mentre si metteva in piedi, lo vidi
barcollare appena e strizzare le palpebre.
“Che c’è?” gli
domandò Yelena preoccupata.
“Sto bene” replicò lui in tono piatto,
mentre si passava
una mano tra le ciocche corte e scompigliate. Nella penombra della
stanza le
sue occhiaie risaltavano ancora di più, ed era evidente
che non stesse
affatto bene.
Papà era un bell’uomo: io l’avevo sempre
ammirato perché
non dimostrava affatto la sua età, anche se qualche volta lo
prendevo in giro
perché le sue origini inglesi gli si leggevano in faccia.
Aveva i capelli
biondo cenere proprio come i miei, gli occhi grigio-verdi proprio come
i miei e
il viso delicato ma dai tratti ben definiti. La perfetta
rappresentazione della
sua personalità mite e tranquilla: papà era un
tipo misurato, raramente perdeva
la pazienza e non alzava mai la voce.
Tutto l’opposto di mamma, insomma. Forse era proprio quella
diversità che li aveva fatti innamorare l’uno
dell’altra – e si erano amati
tanto, ma davvero tanto.
Ma ormai non sembrava neanche più lui. Era come se fosse
invecchiato di colpo e non guardava più me e Yelena in viso
mentre ci parlava.
Lo osservai mentre strascicava i piedi fino al camino e
afferrava un mazzo di chiavi. Sembrava un automa più che una
persona.
“Cosa stai facendo?” gracchiai, la voce roca.
Chissà da
quante ore non aprivo bocca; la gola nel frattempo mi si era seccata.
“Mi sono appena ricordato che devo fare una cosa”
borbottò. La sua voce pareva provenire da un altro mondo.
“A quest’ora?” incalzò Yelena
dubbiosa.
Lui non si voltò a guardarci, si diresse a passo
strascicato verso l’ingresso. “Devo andare in un
posto. È importante.”
Quando posò le dita sulla maniglia, pronto a spalancare
il portoncino d’ingresso e uscire, lo stomaco mi si contorse
e sentii le
lacrime pizzicare agli angoli degli occhi; saltai in piedi e corsi da
lui,
afferrandolo per un braccio. “No, papà, ti prego,
non andartene!” lo supplicai.
Non era da me implorare in quel modo, ma a quella vista
il terrore mi aveva aperto in due il petto.
Non mi importava ciò che aveva da fare, non mi
interessava se si fosse trattato di vita o di morte: almeno
lui doveva
stare con noi, in quella casa che era già troppo vuota e mi
metteva i brividi.
E poi quale padre avrebbe lasciato le figlie da sole in
una situazione del genere?
“Ha ragione Bess” intervenne mia sorella, alzandosi
a sua
volta e muovendo qualche passo avanti. “E poi come ti salta
in mente di andare
in giro da solo in queste condizioni? Non stai bene,
papà!”
Lui allora si voltò lentamente e guardò entrambe
con
sguardo vuoto, come se non ci vedesse nemmeno. “Torno presto,
ve lo prometto.
Non mi succederà niente.”
Si divincolò dalla mia stretta – impresa quasi
impossibile,
visto che le mie dita stritolavano fortissimo il tessuto della sua
manica – e
uscì, lasciandoci confuse e spiazzate.
Non avevamo fatto in tempo a fare niente e ad aggiungere
altro; forse nessuna delle due credeva che se ne sarebbe andato davvero.
E invece eravamo sole.
Mi voltai a guardare Yelena, nel silenzio più assoluto.
La stanza, rischiarata solo dalla luce calda e debole di una lampadina,
mi
sembrava ancora più buia e piena di ombre.
Quel vuoto non lo sopportavo, assomigliava troppo al buco
che avevo al centro del cuore. Lo dovevo riempire con qualcosa, con qualcuno.
Se tendevo l’orecchio, in mezzo a quella quiete potevo
sentire la voce di mamma che canticchiava mentre lavava le stoviglie,
potevo
udire l’acqua scrosciare e le posate che tintinnavano e si
urtavano a vicenda.
Potevo sentire i suoi passi nella zona notte, quando faceva i suoi
soliti giri
di controllo per verificare se le camere da letto fossero in ordine.
E la potevo perfino vedere davanti al piano cottura,
seduta sul divano, di fronte alla finestra con lo sguardo rivolto
all’esterno.
Ogni riflesso somigliava al suo sorriso, ogni luce somigliava ai suoi
occhi,
ogni ombra era il suo profilo. E ogni filo d’aria tiepida che
mi sfiorava la
pelle era una sua carezza.
Era tutto così bello, ma anche così finto. Lei
non c’era,
e ora non c’era nemmeno papà.
Allora mi resi conto che tremavo fortissimo – che
diamine, l’estate stava per arrivare, faceva un caldo
impossibile e io stavo
tremando come una foglia! – e che le mie guance erano
bagnate, incrostate di
lacrime bollenti.
Non mi mossi finché non sentii le braccia di Yelena
avvolgermi e attirarmi al suo corpo. Mi strinsi a mia sorella con tutte
le
forze che avevo, mi aggrappai alla sua maglietta leggera e gliela
bagnai tutta.
Le nostre lacrime e i nostri singhiozzi si fondevano insieme,
perché anche lei
aveva cominciato a piangere – forse anche lei aveva paura di
quella casa e di
quel silenzio, anche se faceva finta di essere forte per me.
“Perché è andato via? Perché
ci ha lasciato qui da sole?
Io voglio che papà torni adesso, e voglio che torni anche la
mamma!” mormorai,
ma a ogni parola un singhiozzo mi costringeva a riprendere fiato.
“Oh, Bess” sospirò mia sorella mentre mi
carezzava i
capelli.
Avevo il capo posato sul suo petto e lo sentivo
sobbalzare.
“Mi prometti una cosa?”
“Tutto quello che vuoi” mormorò lei,
tenendomi così tanto
stretta da farmi quasi male.
“Promettimi che almeno tu non te ne andrai mai.”
Lei mi afferrò per le spalle e mi scostò appena
da sé, in
modo da potermi guardare negli occhi.
I suoi erano arrossati e pieni di sofferenza – erano
così
da quando, tre giorni prima, mi aveva preso da parte e tra i singhiozzi
mi
aveva detto che mamma aveva avuto un incidente stradale e non ce
l’aveva fatta.
Quello sguardo e quelle parole avevano segnato inesorabilmente la fine
della
mia infanzia.
“Ricordatelo sempre, Bess: qualsiasi cosa accadrà,
sarai
sempre la mia sorellina e nulla ci separerà. Io ci
sarò sempre,
affronteremo tutto insieme; ovunque sarai, io sarò con te.
Te lo giuro.”
“Per sempre?”
“Per sempre.” E la sua voce era rotta dal pianto.
Ci abbracciammo ancora e rimanemmo in quella posizione
per tantissimo tempo – a me parve
l’eternità.
Chissà se mamma poteva vederci, ovunque si trovasse.
Chissà quanto doveva ferirla vederci così e non
poter fare niente per noi.
Quando ci separammo, ci guardammo ancora una volta negli
occhi.
“E adesso che facciamo?” le chiesi.
“Mmh… innanzitutto potremmo sciacquarci il viso,
che
dici?” propose lei, accennando un sorriso.
Annuii e mi diressi verso il bagno. “Tu non vieni?”
“Sparecchio la tavola e ti raggiungo.”
Il bagno era illuminato soltanto dal chiarore della luna
piena per tre quarti; non mi preoccupai nemmeno di accendere la luce,
mi
fiondai al lavandino e inondai il mio viso già fradicio con
l’acqua fresca.
Magari mi avrebbe aiutato a svegliarmi da quel brutto incubo.
Mi rimisi dritta e, senza nemmeno asciugarmi, guardai
nello specchio davanti a me. Tra le ombre alle mie spalle mi sembrava
quasi di
scorgere il viso di mamma mentre si pettinava con cura i lunghi capelli
castano
scuro, uguali a quelli di Yelena.
Un capogiro mi costrinse a reggermi al bordo del lavandino
per non cadere e il respiro mi si mozzò. Non ce la facevo
più.
Tornai nella zona giorno e, ferma sulla soglia, osservai
Yelena mentre raccoglieva i bicchieri ancora disposti sulla tavola.
“Senti” esordii col tono più fermo che
mi venne in quel
momento, “io non so a che ora torna papà, ma in
ogni caso qui non ci voglio
rimanere. Non voglio restare a casa.”
Yelena si voltò per scrutarmi con attenzione, poi
annuì
lentamente. “D’accordo.” Tacque per
qualche altro secondo, probabilmente in
cerca di una possibile soluzione. “Possiamo andare dalla
signora Townsend. Ti
ricordi cosa ci ha detto oggi?”
Cercai di riportare alla mente la conversazione che
avevamo avuto con la nostra vicina quando era venuta a trovarci quel
pomeriggio, ma non mi era rimasto impresso nulla in particolare. Scossi
la
testa.
“Che potevamo chiedere a lei se avessimo avuto bisogno
d’aiuto, a qualsiasi ora
del giorno e della notte.”
“Allora andiamo da lei.”
Sapevo che a mia sorella non piaceva chiedere aiuto agli
altri, quindi se aveva proposto una cosa del genere doveva essere
davvero
disperata. Alla fine, anche se ai miei occhi era sempre stata una
specie di
supereroe, era soltanto una ragazzina di neanche diciott’anni
che aveva appena
perso la madre e doveva prendersi cura della sua sorellina di undici
anni.
Quando qualche minuto dopo ci chiudemmo la porta alle
spalle, sentii subito il cuore più leggero. Per la prima
volta realizzai che
potevo sentirmi a casa ovunque nel mondo, tranne che dentro la mia vera
casa.
Papà non tornò quella sera.
Io e Yelena non chiudemmo occhio: anche se la signora
Townsend ci aveva gentilmente lasciato una camera con due letti singoli
che era
appartenuta ai suoi figli, noi rimanemmo in soggiorno ad aspettare con
gli
occhi sgranati.
Lo vedemmo soltanto la mattina dopo, sul presto, e a
giudicare dallo sguardo annacquato e dall’alito pesante che
aveva, doveva aver
alzato parecchio il gomito. Ci riconobbe a stento quando ci vide.
La sera dopo andò esattamente allo stesso modo.
“Torno
presto” ci disse mentre usciva, ma rincasò
soltanto all’alba.
Allora cominciai a vedere mio padre come un bugiardo e
smisi di fidarmi di lui. Non sapevo più a cosa credere, ora
che il mio mondo
stava cadendo a pezzi.
Yelena era arrabbiata. Non riusciva a sopportare che, al
posto di stare con noi nel momento in cui avevamo più
bisogno di un padre, lui
andasse a stordirsi con l’alcol per tutta la notte.
Io invece ero soltanto disperata. Ogni volta che lo
vedevo uscire era una pugnalata e non esisteva un modo per dissuaderlo,
per riportarlo
indietro, per convincerlo a non andarsene. Suppliche, pianti isterici,
grida:
nulla serviva ad attirare la sua attenzione.
Eravamo sole, io e Yelena. Io ero con lei e lei con me,
ma a nessuno importava di noi. E ben presto anche quel viavai di
persone che
erano sembrate così gentili e bendisposte si
dissipò, lasciando il vuoto
attorno a noi e alla nostra casa.
Io stavo sempre peggio, giorno dopo giorno. All’inizio
ero rimasta sotto shock, in maniera talmente profonda da non riuscire
nemmeno a
soffrire; ma man mano che il tempo passava una voragine mi si apriva
nel petto.
Confondevo la realtà con gli incubi che sognavo di notte, mi
svegliavo tra le
lacrime, cercavo mia madre ma non la trovavo mai. E, giorno dopo
giorno,
realizzavo che lei non c’era più.
Era l’estate più fredda della mia vita. Avremmo
dovuto
fare tante cose: ci saremmo dovuti trasferire in una casa
più bella e in un
quartiere migliore, perché entrambi i miei genitori avevano
trovato un lavoro
ed erano riusciti a risparmiare un po’ di soldi, e forse
avremmo fatto pure le
nostre prime vacanze in famiglia.
Ma ormai era tutto sfumato. Io non credevo più a mio
padre.
Circa una settimana più tardi, ricominciò a
uscire anche
di giorno e io diedi per scontato che fosse tornato al lavoro. Non lo
vedevo
quasi mai, a volte non tornava per niente a casa; le poche volte che lo
incrociavo, era ubriaco marcio.
Una volta, sbirciando tra gli scaffali della piccola
dispensa, mi ero accorta che aveva conservato un sacco di alcolici
anche a
casa. Quando non usciva, stava comunque attaccato alla bottiglia per
tutto il
tempo: le sue scorte finivano in un battito di ciglia.
Yelena era sempre più incazzata. Gli insulti che
rivolgeva a nostro padre quando lui non era presente facevano venire i
brividi,
era quasi impossibile credere che una figlia li stesse rivolgendo al
loro
padre.
Io, invece, ero sempre più disperata. Cominciavo a vedere
tutto con una lucidità che una ragazzina di undici anni non
avrebbe dovuto
avere, ma la mia mente e il mio cuore non erano pronti ad accettare
queste
consapevolezze.
Quel giorno eravamo andate a fare una passeggiata al
tramonto, come spesso capitava. Nessuna delle due voleva rimanere a
casa per
troppo tempo, ci veniva il voltastomaco.
“Bess, devo dirti una cosa molto importante”
annunciò a
un tratto Yelena in tono basso ed estremamente serio.
Mi voltai a guardarla e notai che faceva fatica a
ricambiare lo sguardo, fissava l’asfalto bollente su cui
stavamo passeggiando.
Doveva essere grave davvero.
“Che c’è?” domandai. Avevo il
cuore in gola, ma cercai di
darlo a vedere.
“Ho cercato di posticipare il più possibile questo
momento, speravo di poter aspettare almeno qualche altro mese. Ma non
posso più
rimandare.”
Le mie gambe stavano cominciando a tremare, ma mi imposi
di andare avanti. “Che cazzo stai dicendo?”
Avevo cominciato a parlare come mia sorella. Mi aveva
contagiato.
Lei sospirò. “I soldi in casa stanno finendo: devo
cercare un lavoro, se non vogliamo morire di fame.”
Sgranai gli occhi e mi immobilizzai in mezzo alla strada.
“Non è possibile. Papà va a lavorare
ogni giorno, è lui che porta i soldi in
casa, e poi c’erano i risparmi che lui e mamma
avevano…”
“Papà non va a lavorare.”
Puntai i miei occhi nei suoi e non ci fu bisogno di aggiungere
altro.
Tutte le volte che lo vedevo uscire di casa andava a
bere.
Tutte le volte che lo vedevo uscire di casa andava a
spendere tutti i soldi che avevamo a fondo – e anche quelli
che non avevamo.
Perché quello di bere era un vizio che costava tanto.
Tutte le volte che lo vedevo uscire di casa andava a
sottrarre qualcosa dalle nostre vite, oltre all’affetto che
non ci dava più da
mesi.
“Non è giusto. Cazzo, non è
giusto!” esclamai, la voce
già incrinata da un pianto che avrei voluto trattenere.
Yelena mi regalò uno dei sorrisi più tristi che
le avessi
mai visto sulle labbra. “Da tre mesi non
c’è una sola cosa giusta. Ma ce la
caveremo, in un modo o nell’altro.”
Yelena era l’unica che si impegnava davvero per noi
– per
me. Mi aveva fatto una promessa e l’aveva mantenuta; avrei
sopportato la sua
lontananza se avessi dovuto, se lo meritava.
Annuii e nel frattempo serrai la mascella e i pugni,
sperando che mia sorella non se ne accorgesse. Adesso anche io
cominciavo a
essere incazzata con nostro padre – cominciavo a capire
Yelena.
Ero molto più debole di quanto dessi a vedere e di quanto
io stessa fossi disposta ad ammettere.
Ero stata convinta fino all’ultimo che avrei potuto
sopportare l’assenza di mia sorella –
l’ennesima assenza nella mia vita –, ma quando
arrivò il suo primo giorno di lavoro ero tremendamente
agitata.
Era stata assunta come cameriera in uno squallido bar che
si trovava ai margini dal quartiere; non era l’ideale, la
paga era bassa e i
clienti erano per la maggior parte delinquenti, gente poco
raccomandabile, ma
avevamo urgente bisogno di soldi e Yelena si accontentò.
Non aveva dei turni fissi: certe volte doveva lavorare di
mattina, certe volte nel pomeriggio. Il caso volle che il primo giorno
le
assegnassero la fascia oraria pomeridiana.
Mi ero svegliata con l’ansia, avevo trascorso la giornata
scolastica con un groppo in gola ed ero tornata a casa col terrore di
trovarla
vuota. Ma avevo tirato un sospiro di sollievo quando mi ero resa conto
che papà
era in bagno e si stava facendo una doccia.
Mi lasciai cadere sul divano e mi concentrai sui suoni
che oltrepassavano la finestra spalancata della zona giorno. Fuori si
respirava
ancora l’afa estiva, ma dentro casa nostra regnavano
perennemente penombra e
gelo.
“Beatrix.” La voce di mio padre mi fece sobbalzare
e mi
voltai a guardarlo: era sulla soglia, coi capelli ancora umidi e i
vestiti
leggeri e puliti – anche se un po’ spiegazzati. Mi
bastò guardarlo negli occhi
per capire che era sobrio quel giorno.
Sembrava quasi quello di un tempo, bello come l’avevo
sempre visto, anche se aveva pronunciato il mio nome in una maniera
distante
che mi aveva fatto male.
“Ciao papà.” Cercai di utilizzare lo
stesso tono
distaccato. In fondo non sapevo nemmeno io come comportarmi: da una
parte
volevo correre ad abbracciarlo e chiedergli di rimanere con me per
sempre,
dall’altra volevo gridargli in faccia che era uno stronzo
perché per colpa sua
Yelena lavorava in uno squallido bar.
“Dov’è Yelena?” mi
domandò.
“Al lavoro.”
E la conversazione crollò. In fondo da tre mesi a quella
parte non avevamo tanto da dirci, eravamo come degli sconosciuti.
Lo seguii con lo sguardo mentre apriva le ante della
credenza, rovistava in tutti i mobili della cucina e poi si recava in
dispensa,
alla ricerca di chissà cosa.
In realtà lo sapevo benissimo, ma non
volevo
ammetterlo nemmeno a me stessa.
Ogni secondo che passava, la voragine che avevo al centro
del petto si allargava. Non provava nemmeno a rivolgermi la parola,
anzi, non
mi guardava nemmeno.
La mamma mi chiedeva sempre: “Com’è
andata a scuola?”.
Ogni giorno, non appena rientravo. Invece papà forse nemmeno
lo sapeva, che era
ricominciata la scuola.
Lo vidi tornare presso il tavolo a mani vuote, mentre con
lo sguardo cercava freneticamente qualcosa sulle mensole e sui piani
dei
mobili. Quando individuò ciò che gli interessava,
scattò in avanti e lo afferrò
come farebbe un affamato con un piatto di cibo; il suo mazzo di chiavi
tintinnò
nel silenzio, il suono più atroce che le mie orecchie
avessero mai udito.
Allora capii. Mi ero fidata un’altra volta, mi ero persa
nel suo sguardo così colmo di lucidità, mi ero
illusa che lui sarebbe stato con
me perché l’avevo trovato a casa.
Avevo addirittura pensato che mi stesse aspettando.
E invece, ancora una volta, voleva lasciarmi da sola. Veramente
sola, perché stavolta non c’era Yelena accanto a
me.
Sola coi fantasmi del mio passato, sola con l’ombra di
mamma che abitava ancora a casa nostra, sola con i ricordi e col cuore
a pezzi,
sola come una bambina di undici anni non avrebbe mai dovuto essere
– ma ormai
non ero nemmeno più una bambina, anche io ero invecchiata di
colpo come mio
padre.
“Papà, non andartene” mormorai. Non
l’avevo mai più
supplicato da quella prima volta in cui era uscito, ma quel giorno non
riuscii
a trattenermi.
Lui sospirò e si diresse verso l’ingresso, ma non
disse
niente. Probabilmente non sapeva nemmeno lui cosa dire.
“Perché mi vuoi lasciare da sola?
Perché non rimani qui
con me?” Il mio tono di voce salì di
un’ottava e le ultime sillabe vennero
soffocate dal singhiozzo di un pianto che era in procinto di esplodere.
“Beatrix, tesoro… devo andare,
è una cosa
importante” bofonchiò.
“Non è vero!” Mi sarei potuta alzare,
sarei potuta andare
da lui e bloccarlo, artigliarlo per un braccio e impedirgli di uscire.
Avrei
potuto fare qualsiasi cosa per trattenerlo accanto a me, ma avevo preso
a
tremare e a singhiozzare talmente forte che non riuscivo a controllare
il mio
corpo: i muscoli non rispondevano, sentivo soltanto un dolore
opprimente
all’altezza del petto e i polmoni che si riempivano di piombo.
Osservai mio padre – quell’uomo sciupato e pieno di
rughe, particolari che prima di allora avevo ignorato –
attraverso gli occhi
appannati, la sua immagine era sfocata come la sua anima.
“Non andartene, non andartene…
rimani…” continuavo a
piagnucolare disperata. Non riuscivo nemmeno a passarmi le mani sul
viso per
asciugare le lacrime e scostare le ciocche.
“Torno presto, promesso.” Anche la sua voce era
sfocata.
“Non è vero neanche questo! Sei un bugiardo, un fottuto
bugiardo! Te ne stai andando come la mamma, mi lasci anche tu! Io non
voglio
che tu te ne vada!” strillai isterica. Sembravo una bambina
piccola, piangevo
fortissimo e mi colava il naso.
Solo che un brivido di gelo mi correva lungo la schiena,
e quella era una sensazione che nessun bambino provava.
Ma mio padre uscì lo stesso. Fu talmente egoista da
lasciarmi lì, in quelle condizioni, talmente sconvolta che
non riuscivo nemmeno
ad alzarmi.
Gridai con tutto il fiato che avevo in gola fino a farmi
bruciare i polmoni, conficcai le unghie nei palmi fino a farmi bruciare
la
pelle, ma dentro stavo gelando.
Il cuore mi batteva nella testa, le orecchie mi si
riempivano del suono del mio stesso respiro corto, gli occhi erano
serrati e
incrostati di lacrime. Il divano sembrava una trappola per il mio corpo
squarciato dai tremiti, intorpidito.
“Mamma… mamma…” Lo mormoravo
senza rendermene conto, le
chiedevo dove fosse.
Era tutta intorno a me, in quella casa che mi avvolgeva e
mi soffocava: era lì, mi guardava, mi parlava, mi
accarezzava, mi rassicurava –
io lo sapevo.
Solo che mamma era morta.
E anche io mi sentivo morire. E piangevo, e la chiamavo,
ed ero lontana da tutto e tutti.
Ero sola, vuota, morta, perché lei non
era con me.
La chiamavo ma non rispondeva, la cercavo con le dita ma non la
trovavo, la
volevo ascoltare ma non la sentivo.
Ero sola.
Tremavo, volevo urlare ma non ci riuscivo più.
Ero sola.
Tremavo, volevo alzarmi e andare via ma non riuscivo a muovermi.
Ero sola. Sola. Sola.
Sola.
Sola.
Sola.
Yelena mi trovò così.
Tremante, incapace di parlare, fradicia delle mie stesse
lacrime.
Ci misi un po’ per tornare alla realtà, per capire
che il
volto che vedevo era il suo e che le mani che mi stavano toccando erano
le sue.
Mi chiese come stavo e risposi con un singhiozzo, perché
non riuscivo a parlare.
“Oh mio dio, ha un attacco di panico”
mormorò
preoccupata. Poi si sedette accanto a me, mi prese tra le braccia e mi
cullò
finché non mi calmai.
La mia prima volta a casa da sola era stata un disastro.
Cominciai a soffrire abitualmente di attacchi di panico.
Mentre tutti gli undicenni giocavano tra loro e si preoccupavano di
apparire
più fighi degli altri, ecco i problemi che dovevo affrontare
io.
A volte mi sorprendevano quand’ero a scuola, altre volte
quando ero in giro con mia sorella; nella maggior parte dei casi mi
accorgevo
del loro arrivo e cercavo di reprimerli o limitarli, ma non era sempre
così
semplice.
Allora mi allontanavo da tutto e da tutti, mi nascondevo
in un angolo e aspettavo che il senso di oppressione, ansia e terrore
passasse
da solo.
Quando stavo a casa da sola – certe volte ero costretta,
visto che mio padre non tornava e Yelena aveva da lavorare –
la situazione
peggiorava: l’unica soluzione era allontanarmi, uscire di
lì e fare una
passeggiata.
Alla fine, pur di non restare chiusa tra quelle quattro
mura, stavo diventando una nomade. Conoscevo a memoria le strade del
mio
quartiere – anche se non erano decisamente il luogo
più adatto per una
ragazzina di undici anni – e imparai le tecniche per passare
inosservata. Non
studiavo più, non mi importava quale direzione stesse
prendendo la mia vita:
pioggia, sole, vento o neve, a qualunque ora e in qualunque giorno
della
settimana, io ero sempre in giro.
Anche se le strade erano inondate di ragazzi come me –
molti li conoscevo, frequentavano la mia stessa scuola – io
non mi avvicinavo a
nessuno e non mi facevo notare: volevo stare da sola.
Ciò che mi disgustava maggiormente di casa mia non erano
tanto i ricordi legati a mia madre – certo, anche quelli
continuavano a far
male –, quanto la possibilità di incontrare quello
stronzo di mio padre. Lui
non c’era mai, era vero, ma di certo se fosse rincasato non
mi avrebbe trovato
lì ad aspettarlo. Mi metteva il voltastomaco.
Adesso sì che ero davvero incazzata con lui, adesso
sì
che capivo mia sorella: da quando mi aveva lasciato sola quella volta,
il
risentimento che provavo verso di lui si era trasformato in odio vero e
proprio, profondo e viscerale.
Era talmente stronzo che non riusciva nemmeno a capire il
male che stava facendo a me e Yelena. Per avere un padre del genere,
avrei preferito
che anche lui fosse morto – o che magari la mamma fosse stata
al suo posto. Lei
in una situazione del genere ci avrebbe dato tutto l’amore
che le era possibile
donare, ne ero certa.
Quel giorno di metà ottobre sarebbe stato il compleanno
di mamma.
La mattina mi ero svegliata con un nodo in gola e,
rigirandomi tra le coperte e sbirciando verso la finestra, avevo avuto
l’impressione di scorgere il suo viso attraverso il vetro
sporco.
Dovevo fare qualcosa per lei, per festeggiarla.
Tutti gli altri giorni ero stata codarda, ma quella volta avrei
resistito.
Ero da sola, come ogni pomeriggio.
L’occhio mi cadde sul giradischi abbandonato sul mobile
accanto al camino, che nessuno aveva più toccato e usato da
giugno. Per fortuna
qualcuno – probabilmente Yelena – aveva tolto dal
piatto il vinile dei
Jefferson Airplane per evitare che si rovinasse; comunque la custodia
era
ancora là accanto, leggermente impolverata.
Mi accostai al mobile di soppiatto e, con dita tremanti,
portai fuori il disco e lo osservai con devozione. L’avevamo
ascoltato talmente
tante volte che alcuni punti sulla superficie erano rovinati, ma era
ancora uno
degli oggetti più belli che avessi mai visto.
Misi su il lato A – quante volte mamma aveva compiuto
quello stesso gesto! – e posizionai la puntina, col cuore in
gola. Non ero
certa di riuscire ad affrontare tutto ciò, ma ero certa di volerlo
fare.
Non appena l’inizio di She Has Funny Cars
riempì
il silenzio, gli occhi cominciarono a bruciarmi e una voragine mi si
aprì al
centro del petto. Ricordavo perfettamente le domeniche mattina piene di
sole in
cui mi mettevo in piedi sul divano e saltellavo seguendo quel ritmo
così
contagioso, finché mamma non mi intrappolava tra le sue
braccia e mi
rimproverava, perché il divano così si
sarebbe rotto e se l’avessi
sfondato ci sarei finita dentro e mi avrebbe inghiottito.
Ridevamo
tantissimo.
Brividi di emozione mi correvano lungo le braccia, la
schiena, il cuore, e potevo quasi percepire la presenza di mamma
accanto a me. Era
una sensazione stupenda e devastante allo stesso tempo.
Rimasi lì impalata per un tempo incalcolabile, a
osservare il disco e lasciarmi riempire le orecchie da quelle note
così
familiari, senza avere il coraggio di sedermi o compiere qualsiasi
altro
movimento. Solo quando il primo brano dell’LP giunse al
termine realizzai che
erano trascorsi solo poco più di tre minuti.
Ma il vero colpo al cuore lo ebbi quando Somebody To
Love esplose nella stanza con la sua proverbiale energia.
Avevo sempre
adorato quella canzone e avevo sempre amato sentire mamma che la
canticchiava
per me.
Mi diceva sempre che quella era la mia ninna nanna, che
la intonava tutte le volte che mi cullava tra le braccia per farmi
addormentare, e forse era per quello che ero così tanto
affezionata a quella canzone.
Resistetti solo fino alla seconda strofa. Poi, tremando
come una foglia e con le lacrime a rigarmi le guance, sollevai la
puntina e
corsi fuori, via da quella casa e da quei ricordi, lontana dal panico
che
minacciava di stritolarmi lo stomaco.
Una volta all’aria aperta mi sentii subito meglio; corsi
per qualche altro metro e poi mi fermai per riprendere fiato, i
singhiozzi a
squarciarmi il petto e gli occhi che bruciavano per le lacrime e la
luce
rossastra del tramonto. Camminai, camminai e camminai ancora, tenendo
lo
sguardo basso, cercando di non pensare a niente.
“Ehi! Hadley!”
Sobbalzai nel sentir pronunciare quelle parole ad alcuni
metri da me, ma non mi voltai: avevo ancora gli occhi arrossati e le
lacrime
secche sulla pelle, non volevo che qualcuno mi vedesse in quelle
condizioni.
Tanto sapevo già di chi si trattava: solo una persona mi
chiamava per cognome e con quell’inconfondibile accento.
Pensai che, se avessi
finto di non aver sentito e avessi continuato dritta per la mia strada,
avrei
potuto scamparla.
Ero stata poco attenta a non farmi notare quel giorno.
Ma tutte le mie speranze andarono in fumo quando avvertii
una presenza più vicina a me, alle mie spalle.
“Beatrix! Non fare la stronza,
tanto so che mi hai sentito!”
Fui costretta a fermarmi e sbirciare al mio fianco quando
mi sentii sfiorare la spalla: proprio come immaginavo, Viktor mi
scrutava
attentamente e mi rivolgeva uno dei suoi soliti sorrisetti ironici.
Era da almeno un anno e mezzo – da quando non
frequentavamo più la stessa classe – che non ci
avevo davvero a che fare, ma
lui non era cambiato per niente: spalle larghe, capelli castano chiaro
sempre
scompigliati, lineamenti decisi ma non troppo duri, leggero accento
dell’Est
Europa. Andavamo davvero d’accordo alle elementari, ma poi ci
eravamo persi di
vista – soprattutto da quando mia madre era morta e io avevo
smesso di
frequentare chiunque.
“Che c’è?” ribattei
bruscamente, infastidita dalla
situazione più che dalla sua presenza.
Lui aggrottò le sopracciglia. “Ma tu hai
pianto!”
“Non è vero” mi affrettai a chiarire, ma
ormai aveva
visto i miei occhi e aveva capito.
“Non ci casco! Cos’è
successo?” Mi afferrò per un polso –
quanto detestavo quel gesto! – e mi strattonò
leggermente per potermi osservare
meglio in viso.
“Non ci parliamo da una vita. Che te ne importa?”
sputai
acida, divincolandomi dalla sua presa.
Avevo sempre avuto un caratterino deciso, ma nell’ultimo
periodo mi capitava spesso di rispondere in maniera scontrosa, complice
tutta
la rabbia che avevo accumulato dentro in quei mesi.
Lui sospirò e piegò appena il capo di lato, in
cerca
delle parole da utilizzare.
“Mia madre è morta, lo sapevi?” sbottai
a un certo punto.
Perché l’avevo fatto?
Lui annuì e abbassò lo sguardo. “Lo
sanno tutti nel
quartiere.”
“E allora perché mi chiedi cos’ho se sai
già la
risposta?”
“Senti… mi è venuta
un’idea.”
Incrociai le braccia al petto e lo scrutai attentamente,
aspettando che parlasse.
“Ti porto nel mio posto preferito, dove ci sono tutti i
miei amici. È un luogo in cui tutti si possono divertire
come vogliono senza
mai essere giudicati… credo che ti farebbe bene distrarti un
po’, ora che sei
giù.” Sorrise appena sulle ultime parole, come se
volesse contagiarmi un
entusiasmo che invece non mi arrivò per niente.
Ci pensai su per qualche istante: non avevo la più
pallida idea di dove volesse portarmi, ma in fondo cos’avevo
da perdere? Mi
fidavo di Viktor, era un ragazzino a posto, e poi ovunque
sarebbe stato
meglio che a casa mia.
Annuii appena, al che Viktor mi strizzò l’occhio e
mi fece strada lungo la via,
nella direzione opposta rispetto alla mia dimora.
Squallore fu la prima parola che mi venne in mente
non appena mettemmo piede dentro quel locale. Ma era uno squallore che,
in
qualche modo, sapeva di casa.
Tutto era sudicio e immerso nella penombra: l’insegna
appesa all’ingresso, su cui campeggiava la scritta Alibi,
era scrostata
e sbiadita; il bancone era ricoperto di aloni sospetti, i tavoli erano
incrostati e pure i vetri di porte e finestre avevano una patina di
sporcizia.
A giudicare dal suo aspetto, pure il barista – che, come mi
aveva rivelato
Viktor, era anche il gestore del locale – non doveva vedere
una doccia da
parecchio tempo.
Eppure c’era qualcosa di affascinante e magnetico in
tutto ciò. I vinili di Led Zeppelin, Rolling Stones e Pink
Floyd appesi alle
pareti ingiallite, il giradischi addossato in un angolo e il piccolo
palchetto
su cui erano stipati batteria e amplificatori davano un tocco rock
all’atmosfera, facendo somigliare il locale a uno di quei pub
in centro dove
andavano a suonare le band importanti. Risate e imprecazioni si
mischiavano
alla musica, riempivano l’aria insieme al fumo che pizzicava
gli occhi e che
odorava di tabacco e marijuana.
In un primo momento provai una sorta di paura verso quel
luogo e la gente che lo frequentava, ma nel guardarmi attorno una
seconda volta
mi resi conto che si trattava di ragazzi come me, miei coetanei o poco
più
grandi, e la maggior parte li conoscevo già, anche se solo
di vista. Erano
ragazzi di cui giravano voci davvero tristi, che avevano alle spalle un
passato
difficile – del resto tutti in quel quartiere dovevano
lottare contro qualche
demone – e, anche se si ostinavano a ridere e bere tutti
insieme, non erano
davvero così felici come apparivano.
“Mio fratello mi sta chiamando.” La voce di Viktor
mi
riscosse dalle mie riflessioni. Eravamo ancora fermi vicino
all’ingresso.
Gli lanciai un’occhiata spaesata.
“Mi avvicino un attimo a sentire che vuole. Tu intanto
vai al bancone, ordina qualcosa. Ti raggiungo subito, okay?”
Annuii e lo osservai mentre si allontanava, dirigendosi
verso Bogdan – suo fratello – che stazionava in un
tavolino dall’altra parte
del locale, vicino al palchetto.
Non mi soffermai troppo a osservarli – preferivo che
Bogdan non mi notasse perché, a differenza di Viktor, non mi
ispirava troppa
fiducia: si diceva fosse immischiato in qualche affare losco che aveva
a che
fare con la droga – e mi diressi al bancone, senza
però mettermi in fila. Non
sapevo nemmeno cosa ordinare: non avevo mai assaggiato nulla di
alcolico, ma
avevo l’impressione che in un luogo del genere fosse
d’obbligo. Quindi decisi
di aspettare Viktor prima di combinare qualche disastro.
Nel frattempo ne approfittai per esaminare ancora i
presenti: erano tutti così diversi, così
spontanei e disinibiti. C’era chi si
vestiva in maniera eccentrica, chi sfoggiava la maglietta della propria
band
preferita, c’era chi si acconciava i capelli in maniera
bizzarra, se li tingeva
o se li ossigenava, poi c’era chi si era riempito la pelle di
piercing e
tatuaggi.
E le ragazze… erano così belle! Truccate, vestite
in modo
da mettere in risalto i punti più forti del loro corpo,
così sorridenti e così
maliziose, sempre con la situazione sotto controllo. Erano delle dee in
confronto a me, piccola e sciatta, magra e senza forme, così
bassa che col
mento arrivavo a malapena al piano di marmo del bancone.
Mi sarebbe piaciuto essere come quelle ragazze.
Qualunque fosse il demone che tutte quelle persone si
portavano appresso, erano riuscite in un modo o nell’altro a
metterlo da parte
ed erano diventate esattamente ciò che volevano essere.
“Ehi, biondina!” esclamò una voce fin
troppo squillante,
facendomi sobbalzare.
Mi voltai e aggrottai le sopracciglia. “Non
c’è bisogno
di gridare, sono qui a fianco, ti sento” misi in chiaro in
tono diffidente.
La ragazza che mi aveva appena rivolto la parola scoppiò
a ridere e mi sorrise. Era davvero bella: pelle olivastra, lineamenti
ispanici,
capelli lunghi e scuri, abiti colorati che le calzavano a pennello.
“Scusami,
hai ragione! Ti ho visto entrare con Vik poco fa… sei
nuova?”
Mi strinsi nelle spalle. “Sono nata qui.”
“Come ti chiami?”
“Bess” risposi automaticamente, utilizzando
l’abbreviativo con cui mi chiamava sempre Yelena.
“Io invece sono Fanny. Senti un po’…
prendi qualcosa? Una
birra?” mi chiese, accennando al barista che armeggiava con
qualche bottiglia
nella sua postazione.
“Ma veramente i minorenni non potrebbero comprare
alcolici” le feci notare dubbiosa.
“Ah, ma qui non si fa caso a queste cose, Charles non
chiede mai i documenti! Per questo l’Alibi è il
locale più frequentato del circondario:
pur di vendere e guadagnare, Charles dà via la roba a
chiunque.”
“Oh, beh, se la mettiamo
così…” Mi guardai attorno alla
ricerca di Viktor e lo avvistai che ancora conversava con suo fratello
e
qualche altro ragazzo, poi tornai a scrutare la mia interlocutrice.
“Ma credo
che non prenderò niente. Anzi: si sta facendo tardi, penso
che me ne andrò a
casa.”
All’improvviso mi sentivo inadeguata. Non era il posto la
causa di questa
sensazione: ero io, il mio aspetto, il mio atteggiamento.
“Sei sicura?” ribatté Fanny, ma non
c’era traccia di
scherno nella sua voce. Era dolcissima.
Annuii e mossi un passo verso la porta. Non mi preoccupai
di avvisare Viktor: avrebbe capito.
“Ma tornerai?” mi chiese Fanny quando le davo
già le
spalle.
Mi voltai giusto il tanto per rivolgerle un’ultima
occhiata. “Tornerò.”
Solo mentre ero già per strada realizzai che avevo
buttato fuori quella risposta senza neanche rifletterci. Non ne avevo
avuto
bisogno: lo sapevo, nonostante tutto, malgrado la mia iniziale
diffidenza. Non
sapevo quando e in quali circostanze, ma sarei tornata
all’Alibi.
Ora capivo come mai Viktor lo considerava il suo luogo
preferito: mi si era incollato sulla pelle dal primo momento in cui vi
avevo
messo piede.
Quella sera capii di avere un angolo di mondo a cui
appartenevo veramente. Quella sera capii chi sarei voluta diventare.
Mi guardai allo specchio e per la prima volta mi detestai.
Mamma mi diceva sempre che ero una bambina bellissima,
ma ora lei non mi diceva più un cazzo e io ero stufa di
essere una bambina.
Odiavo quel visetto pulito e dai tratti ancora infantili,
odiavo quei capelli biondo cenere così anonimi, odiavo i
miei occhi sgranati e
tristi, odiavo le mie spalle sottili e il petto troppo piatto.
Ma c’erano dettagli del mio aspetto che non si decidevano
a cambiare, altri che non sarebbero cambiati mai. Ma c’erano
tanti altri
dettagli che potevo raddrizzare per far emergere ciò che ero
– o meglio, ciò
che ero diventata.
Aggrottai le sopracciglia sottili con disappunto, mi
osservai nuovamente allo specchio e mi piacqui: più dura,
più incazzata, più
adulta.
Se nessuno – incluso mio padre – mi notava, avrei
fatto
in modo di attirare l’attenzione a modo mio.
Distolsi lo sguardo dallo specchio e improvvisamente mi
sentii più forte.
Se ce l’avevano fatta tutti quegli altri ragazzi, ce
l’avrei fatta anch’io.
Cominciai a rubare i soldi dal fondo comune e dai
portafogli di mio padre e Yelena. A volte mia sorella mi dava qualcosa
di sua
spontanea volontà, ma non mi bastava mai.
Forse mi sarei dovuta sentire in colpa, ma non era così:
del resto mio padre faceva la stessa cosa per alimentare il suo vizio
di merda,
quindi perché non potevo farlo anch’io?
Perché non potevo spendere tutto ciò
che volevo per delle cose futili? Nessuno mi avrebbe rimproverato,
anzi, forse
semplicemente nessuno se ne accorgeva: ero diventata la ragazzina
fantasma a
casa.
Comprai dei vestiti nuovi, mi rifeci il guardaroba:
lasciandomi guidare dall’istinto e dal gusto personale,
trovai nelle tinte
scure e negli indumenti dallo stile un po’ gotico
ciò che mi rappresentava
davvero. Non sarei stata alla moda, certo, ma sarei stata me stessa e
avrei
spiccato tra tutti gli altri.
Acquistai anche dei trucchi e mi esercitai parecchio per
applicarli al meglio. Adoravo il modo in cui certi make-up riuscivano a
rendere
la mia faccia più cattiva, mentre altri mi facevano apparire
più provocante e
maliziosa.
Cominciai a frequentare abitualmente l’Alibi e spesso mi
ci recavo anche dopo cena, anche perché di sera la casa era
sempre vuota e
nessuno mi imponeva di restarci. Di mio padre lo sapevo, ma in quel
periodo
anche mia sorella cominciò a uscire più spesso:
dopo essere tornata dal lavoro
– da uno dei suoi tanti lavori, per essere precisi
– del pomeriggio, si
truccava, si agghindava e usciva. Non avevo idea di cosa andasse a
fare, ma non
pensavo mai di chiederglielo – del resto anche lei si faceva
i fatti suoi e non
indagava sulla mia vita.
Inizialmente mi affidavo a Viktor e a Fanny, che diventò
la mia amica più stretta, ma ci misi davvero poco tempo a
conoscere tutti gli
altri ed entrare a pieno titolo nella cerchia. Mi era sempre venuto
semplice
fare nuove conoscenze e andare d’accordo con tutti, ma negli
ultimi sei mesi me
n’ero completamente scordata, tanto ero stata sopraffatta
dalla sofferenza e
dal dolore. Ma ora era tutto diverso: mi presentavo per ciò
che volevo essere,
mi comportavo e interagivo in base a come gli altri mi avrebbero dovuto
vedere,
ben presto costruii il mio personaggio e questo mi conferì
la sicurezza che mi
era mancata fino ad allora.
E soprattutto ottenni ciò che agognavo di più:
quando
arrivavo io, si voltavano tutti. Non passavo mai inosservata.
Le spese aumentavano giorno dopo giorno: cominciai a
fumare e mi servivano i soldi per le sigarette, assaggiai i miei primi
alcolici
e mi servivano i soldi per le birre, andavo in giro per la
città e mi servivano
i soldi per i mezzi pubblici, cercavo di rendere il mio look sempre
più
eccentrico e mi servivano i soldi per vestiti e accessori. E rubavo
senza scrupoli
dalle tasche della mia famiglia, ormai non mi sarebbe importato nemmeno
se mi
avessero scoperto.
Ormai la mia famiglia era altrove. Yelena era l’unica
persona che mi teneva ancorata al passato.
Quel giorno avevo un mal di pancia devastante e mi girava
la testa. Era cominciato tutto nel primo pomeriggio e non avevo saputo
come
spiegare quei sintomi: avevo pensato che si potesse trattare di un
qualche
strano attacco di panico, che mi si stava presentando sotto
un’altra forma, ma
scartai quasi subito l’idea.
Avrei voluto parlarne con qualcuno, magari con Yelena, ma lei
ovviamente non
c’era.
Mi recai all’Alibi con tutte le intenzioni di trovare un
modo per placare quel dolore. Entrai, salutai i miei amici con un cenno
e mi
diressi subito al bancone, posando i gomiti sul ripiano in marmo con
fare
deciso. “Una birra, grazie.”
“Wow, che determinazione! Se cominci a bere già da
ora,
tra qualche ora sarai fottuta!” commentò Viktor
mentre mi passava accanto.
Gli rivolsi un sorrisetto. “Fatti i cazzi tuoi.”
“Non era una critica, anzi! Non vedo l’ora di
vederti
sbronza!”
“Ammesso che tu rimanga sobrio abbastanza!”
“Bess, tesoro, ciao!” mi affianco Fanny,
regalandomi uno
dei suoi sorrisi magnetici.
“Ehi.” Afferrai la mia birra, che nel frattempo era
comparsa di fronte da me, ne presi un lungo sorso e poi mi voltai a
guardare la
mia amica. “Oggi mi voglio sconvolgere.”
Lei mi scoccò un sorrisetto complice.
“Quanto?”
“Voglio andarci giù abbastanza pesante.”
“Allora non ti basterà un’innocente
birra” affermò, intrecciando
le dita sotto il mento e lanciando un’occhiata a Charles, che
stava servendo
due ragazzi. “Ti fidi di me?”
“Chi non si fiderebbe di te?” ironizzai, dandole di
gomito e sghignazzando.
Fanny era una pazza, faceva tutto ciò che le saltava in
mente e provava qualsiasi sostanza le capitasse a tiro; spesso tirava
su anche
cocaina e usciva completamente di testa. Tutto sommato però
era uno spasso.
“Bene, allora allontanati e aspettami: ti porterò
qualcosa
di forte, uno dei miei drink preferiti!” esclamò.
“E cosa cambia se rimango qui?”
“No, dai, è una sorpresa!”
“Come vuoi.” Mi strinsi nelle spalle e mi
allontanai,
dirigendomi a passo spedito al tavolo di Viktor e i suoi amici.
Le sedie erano già tutte occupate: oltre al mio vecchio
compagno di scuola c’erano Bogdan – ormai avevo
superato il timore iniziale nei
suoi confronti –, Jeff – il migliore amico dei
fratelli polacchi – e alcune
ragazze con cui avevo già stretto amicizia.
Scostai bottiglie e bicchieri vuoti e mi accomodai con
nonchalance sul piano del tavolino. “Ehi, che si
dice?”
“Ciao bimba! Non hai una bella cera”
commentò Bogdan,
distogliendo per un attimo lo sguardo dalla biondina che gli sedeva
sulle
ginocchia.
“Quando mai ha una bella cera?” mi
sbeffeggiò Viktor,
prendendo una boccata dallo spinello che stringeva tra le dita.
Tirai un piccolo calcio a entrambi. “Che stronzi! Andate
a fanculo!”
Effettivamente però mi pareva di avere una guerra
nucleare dentro la pancia e no, non stavo affatto bene, anche se
cercavo di
nasconderlo e comportarmi come al solito.
“Allora… sapete chi suona oggi?”
domandai, accennando al
palchetto su cui era in corso un viavai di persone e strumentazione.
Una cosa che mi aveva colpito dell’Alibi era che si
tenevano piccoli concerti praticamente ogni sera.
“Dei tizi… non saprei.” Jeff si strinse
nelle spalle.
“Saranno pure dei tipi a caso, però li avete
visti?”
commentò Becky in tono malizioso, sporgendosi appena verso
di me.
“E allora?” incalzò Bogdan in tono
fintamente offeso.
“No, dico… il chitarrista, quello con gli occhi
verdi e i
capelli mossi… da uno così mi farei scopare
volentieri” proseguì la bionda con
un sorrisetto.
Becky sapeva il fatto suo. Aveva quindici anni e
probabilmente era già stata a letto con tutti i
frequentatori di sesso maschile
dell’Alibi.
“Beh, ma allora lo voglio vedere anch’io questo
chitarrista!” esclamai, aprendomi in un sorrisetto complice.
“Ma guarda te questi stronzi che vengono a rubarci le
donne…” bofonchiò Bogdan, voltandosi a
guardare prima suo fratello e poi Jeff.
Stavo per ribattere a tono con un commento ironico, ma
improvvisamente una fitta alla pancia mi fece strizzare gli occhi e
mordere il
labbro. Mi portai una mano sul ventre e serrai la mascella.
“Merda.”
“Che cazzo hai? Sei bianca in faccia…”
si preoccupò
Viktor, scrutandomi attentamente.
“Ho detto che non ho niente, porca puttana!”
sbottai.
“Nervosa la ragazza” aggiunse Bogdan.
“Senti, vuoi fare un tiro? Così ti rilassi un
po’”
propose allora il fratello minore, accennando alla sua stecca
d’erba.
Aggrottai le sopracciglia e ci riflettei su per qualche
istante. Non avevo mai provato a fumare nient’altro oltre
alle sigarette, ma in
fondo che avevo da perdere? La pancia mi faceva un male tremendo, avevo
la
mente incasinata e piena di pensieri negativi, avevo voglia di
dimenticare
tutto e divertirmi.
“Vediamo un po’.” Mi sporsi per sfilargli
lo spinello
dalle dita e presi una lunga boccata, senza pensarci troppo.
“Eccomi qua! E, Bess, ti presento la tua prima
tequila!”
esplose la voce di Fanny, attirando l’attenzione di tutti.
Si sedette accanto a me, sul tavolino, e mi porse un
bicchierino.
Bogdan fischiò d’approvazione. “La
nostra bimba perde la
verginità alcolica!”
“Ma veramente bevevo già da prima” gli
feci notare.
“Una birra ogni tanto non equivale a bere”
puntualizzò Viktor.
“Mi raccomando: giù tutta d’un
sorso!” Fanny mi batté su
una spalla e mi sorrise.
Non potei fare a meno di essere contagiata
dall’entusiasmo generale. Avevo il mio primo shot di tequila
tra le dita,
l’erba stava cominciando a fare effetto e sentivo che quella
sarebbe stata una
serata memorabile.
Ridevo, così tanto che non riuscivo nemmeno a parlare.
Senza motivo. Il mondo girava tutto intorno a me e mi faceva ridere.
Misi faticosamente a fuoco la faccia di Fanny, illuminata
solo dalle luci dei lampioni. Mi guardava e sorrideva.
Forse c’era freddo lì fuori, ma io non me ne
accorgevo.
“Cazzo! Volevamo vederti sconvolta ed è
ciò che abbiamo
ottenuto!” commentò la mia amica ridendo.
Anche io sghignazzavo senza interruzioni, sentivo la
testa leggera ed era bellissimo.
Sollevai lo sguardo al cielo. “Fanny?”
“Sì?”
“Ma siamo in piedi o sedute?”
Lei lanciò un gridolino e mi spintonò
leggermente. “Ma
che cazzo di domande fai?”
Rotolai di lato sul marciapiede – ah, forse eravamo
sedute! – e continuammo a ridere. Io non riuscivo nemmeno a
rimettermi dritta
con la schiena.
Ormai non sentivo più nessun dolore, avevo solo una
strana sensazione di caldo tra le cosce.
“Oh cazzo… Bess?” si ricompose Fanny
dopo un po’.
La guardai di sbieco. “Che
c’è?”
“Guarda i tuoi pantaloni.”
Cercai di risedermi meglio che potevo, abbassai lo
sguardo e allora notai una macchia scura sul tessuto
dell’interno coscia.
Forse mi sarei dovuta vergognare, e invece scoppiai di
nuovo a ridere, senza motivo. “Ah, ecco perché mi
faceva male la pancia…”
“È la prima volta che ti vengono?” mi
domandò Fanny,
strattonandomi per un braccio in modo che mi rimettessi dritta.
“Sì.”
“Allora congratulazioni: sei ufficialmente diventata
donna! Ora… come cazzo facciamo? Ti devo riaccompagnare a
casa, prima che
questo marciapiede si trasformi in uno scenario da film
horror…”
“No, col cazzo! Io voglio rimanere qui, mi sto divertendo
tantissimo!” protestai.
Proprio in quel momento lo stomaco mi si contorse
all’improvviso: mi chinai in avanti e cominciai a vomitare.
Forse avevo bevuto
un po’ troppo…
Da una parte mi veniva da ridere perché sembravo una
cretina, ma i conati mi scuotevano tutto il corpo e me lo impedirono.
Solo quando smisi mi resi conto che Fanny mi stava sorreggendo
e mi aveva tenuto i capelli perché non si sporcassero.
“Porca puttana” mormorò.
Trascorsero alcuni secondi di silenzio, poi io
ricominciai a ridacchiare. “Che schifo, adesso mi devo
comprare un paio di
scarpe nuove…”
“Prima sbronza e prime mestruazioni in un colpo solo:
benvenuta nel mondo degli adulti, Bess.”
Tra poco meno di un mese avrei compiuto dodici anni.
Nei giorni successivi fui costretta a restare a casa.
Qualche volta mi era capitato di bere la sera e
risvegliarmi il giorno dopo con un leggero mal di testa, ma quello era
il mio
primo hangover in piena regola.
E anche quando i postumi della sbornia cominciarono a
sfumare, le fitte lancinanti alla pancia rimasero lì e
continuarono a
torturarmi.
Stavo di merda. L’unica cosa che riuscivo a fare era
stare a letto, tremare e cercare la posizione in cui sembrava andare un
po’
meglio.
Yelena veniva da me e mi accudiva tutte le volte che non
era al lavoro, praticamente in quei giorni viveva dentro la mia camera.
Non
poteva essere tanto presente, ma faceva quel che poteva e io sapevo che
ci
metteva il cuore e tutta la buona volontà.
A volte ci pensavo: se ci fosse stata la mamma,
sicuramente si sarebbe presa cura di me. Le avrei parlato dei miei
sintomi e
lei mi avrebbe consolato, le avrei fatto le domande più
stupide sul ciclo e su
cosa comportasse diventare donna, anche se molte informazioni
già le sapevo
grazie a Yelena e alle ragazze dell’Alibi. Ma mi sarebbe
piaciuto essere ancora
per un po’ una bambina che andava a cercare conforto tra le
braccia della
mamma.
Se ci fosse stata lei, forse non mi sarei nemmeno
ubriacata così.
Formulare quei pensieri era inevitabile, ma subito
cercavo di scacciarli perché mi facevano male.
Potevo cambiare esteriormente, potevo crearmi una
maschera e convincere tutti che ero una ragazza forte, ma quella era
una ferita
che mi sarei portata appresso per sempre.
Di mio padre, ovviamente, nemmeno l’ombra. Era troppo
impegnato a far fronte alle sue sbronze per preoccuparsi anche delle
mie.
Era il terzo giorno di chiusura forzata in casa e io
stavo cominciando a stufarmi. Non ero più abituata e quel
posto mi piaceva
sempre meno.
Yelena mi aveva portato la cena, si era seduta sul bordo
del letto ed era rimasta a chiacchierare con me.
Non le avevo detto che mi ero presa una sbronza epocale,
era convinta che il problema fossero soltanto i dolori dovuti al ciclo.
A un tratto, mentre ridevamo tra noi, mia sorella
adocchiò l’orologio e subito si alzò.
“Devo andare” affermò mentre raccoglieva
i resti del mio
pasto.
Aggrottai le sopracciglia. “Dove?”
“Al lavoro.” Non mi guardò mentre lo
diceva.
“Ah. Okay.”
Già da qualche tempo avevo un sospetto riguardo a quelle
sue uscite notturne, ma non avevo mai avuto il coraggio di esprimerle.
Però
detestavo quando mi si nascondevano le cose e alla fine, lo sapevo, la
mia
curiosità avrebbe avuto la meglio.
“Yelena?” la richiamai, quando mia sorella mi dava
già le
spalle e si accingeva a uscire dalla stanza.
“Che c’è?”
“Girati.”
Mi diede ascolto e lasciò che i nostri occhi si
incrociassero.
“Dimmi la verità” ordinai in tono
mortalmente serio.
“Su che cosa?”
“Quando esci di sera vai a battere, non è
vero?”
Lei tacque e abbassò di colpo lo sguardo. Non disse
niente per interminabili secondi.
Quella risposta mi bastò.
“Lo sapevo” affermai.
“Bess, per favore… scusami! Lo so che ti ho
deluso, ma i
soldi in casa non bastano mai, il lavoro non è mai stabile e
mi pagano una
miseria! Io non volevo, però ho pensato
che…” cominciò a giustificarsi, quasi
in lacrime.
“Ma io non ti sto giudicando, cos’hai
capito?” la
interruppi.
“Cioè… non ti importa se sono una
prostituta?” mormorò.
Mi strinsi nelle spalle. “Se a te va bene, allora va bene
anche a me.”
“Grazie.” Tornò indietro e mi strinse in
un lungo
abbraccio.
Non ce l’avevo con lei, davvero: sapevo che era stata una
scelta obbligata, che non aveva avuto alternative. Ai miei occhi,
qualsiasi
lavoro sarebbe potuto essere rispettabile se lo era il fine a cui
serviva. E
Yelena si stava sacrificando per me.
Non ebbi il coraggio di chiederle se questo la facesse
star male: lei non smentì e non confermò.
Eppure sentivo che c’era qualcosa di sbagliato. Eppure la
rabbia nei confronti di mio padre continuava a crescere,
perché se sua figlia
era costretta a fare sesso con degli sconosciuti era soltanto causa
sua, e con
i soldi che lei guadagnava lui continuava a comprare da bere.
Certe volte la mamma mi mancava così tanto.
“Sono un po’ indecisa però.”
Presi una boccata dalla mia
sigaretta e posai lo sguardo sulle mie amiche.
“Il rosso potrebbe donarti” propose timidamente
Muriel.
Avevo legato parecchio con quella moretta da quando era
arrivata all’Alibi: somigliava tanto a me nel primo periodo e
io l’avevo presa
sotto la mia ala protettiva.
“Ma quale rosso! Vorrei qualcosa di
più… particolare,
appariscente. E scuro, soprattutto.”
“Ma cos’ha il biondo che non va? Hai dei capelli
stupendi!” cinguettò Fanny, prendendo una mia
ciocca liscia tra le dita.
“È anonimo. Fa cagare! Allora… che ne
dite del viola?”
Fanny scoppiò a ridere. “Ti prego, no!”
“Secondo me invece le starebbe bene!”
obiettò Muriel.
“Ehi ragazze! Quanto prendete a botta?” esplose la
voce
di Viktor, intrisa di ironia.
Sollevai lo sguardo e lo vidi avvicinarsi lungo la strada
insieme a Ives e Ethan – due ragazzi della nostra cerchia
– con la solita
stecca d’erba tra le dita.
Faceva sempre questa battuta idiota quando ci vedeva
accomodate sul gradino del marciapiede.
Gli mostrai il dito medio. “Una botta devi averla presa
tu da piccolo, in testa.”
“Era un complimento! Non capisci mai un cazzo!” mi
punzecchiò.
I tre si fermarono davanti a noi.
“Sì, vabbè… fammi fare un
tiro e taci!” lo liquidai con
un sorrisetto.
Lui mi passò lo spinello.
“Ragazzi, noi stavamo pensando di andare al mare
domani”
se ne uscì Fanny.
“Figo! Noi ci siamo!” esclamò Ives con
entusiasmo, per
poi voltarsi a guardare Ethan.
Lui si strinse nelle spalle. “Nel dubbio io entro e mi
prendo un Jack.”
Gli strizzai l’occhio. “Ma domani ti voglio al
mare, eh!”
“Certo, in bikini” ribatté in tono
scherzoso prima di sparire
all’interno del locale.
Era molto affascinante, Ethan.
“Sbaglio o sul lungomare c’è quel
chioschetto dove
andavamo sempre l’estate scorsa?”
domandò Viktor.
“Sperando che sia ancora tutto intero”
ironizzò Muriel
con una risatina.
“Io dovrei comprare un costume nuovo”
affermò Fanny con
una smorfia.
“Sapete dove si ferma il bus diretto al lungomare?”
si
informò Ives.
“Tra l’altro dovrò vendere un rene per
comprare i
biglietti…” bofonchiai.
Lui sorrise. “E chi lo paga il biglietto?”
Era il 3 giugno 1981, era l’anniversario di morte di mia
madre e io me ne stavo seduta su un sudicio marciapiede: pensavo al
colore di
cui mi sarei tinta i capelli e progettavo un piano per andare al mare
senza
spendere un soldo.
Un anno era stato capace di stravolgere del tutto la mia
vita: la mia famiglia si era distrutta e ne avevo trovato
un’altra, ero stata
strappata via dall’infanzia e mi ero scontrata con la vita
vera, mi ero chiusa
in un guscio e poi l’avevo spaccato, uscendone più
forte di prima. O forse ero
più debole, perché avevo perso me stessa e mi ero
imposta di non guardare più
al passato.
Ero giovane – troppo giovane – e incazzata col
mondo,
cercavo sorrisi e sguardi in ragazzi distrutti come me, forse con la
stupida
speranza di ritrovare, un giorno, il sorriso di mia madre.
Nessuno mi aveva dato delle indicazioni su come vivere,
nessuno mi aveva mostrato la strada giusta da percorrere,
così io ne avevo
costruito una tutta mia.
Non sapevo come, non sapevo se in modo giusto o
sbagliato, ma sarei andata avanti giorno dopo giorno, passo dopo passo
– dolore
dopo dolore.
♠
♠ ♠
Ciao a tutti e benvenuti al primo capitolo della mia
prima raccoltina incentrata sul personaggio di Bess!
Capitolone, visto che sono quasi diecimila parole…
SCUSATEMI, vi giuro che non pensavo
che sarebbe uscito così lungo, ma per come ho intenzione di
strutturare la
raccolta non lo potevo proprio dividerlo! A maggior ragione
perché la shot
partecipa a un contest, quindi dovevo dire tutto in questa sede XD
E… fa schifo. Lo detesto. Ci ho messo una vita a
scriverlo e man mano che andava avanti mi convinceva sempre meno,
quindi mi
scuso doppiamente perché davvero… lo stile fa
schifo, la struttura fa schifo e
probabilmente è la storia più brutta di tutta la
serie AHAHAHAH!
Ma la smetto di lamentarmi (come mio solito) e passo alle
note veramente importanti!
Innanzitutto vi lascio il pacchetto che ho scelto per il
contest di Vintage:
Genitori
fantasma:
Ovviamente
i genitori in questa storia non devono esserci. Possono essere morti,
lavorare
e viaggiare spesso e quindi lasciare il povero protagonista da solo,
senza uno
straccio d’affetto familiare. Per chiunque
sceglierà questa storia, dunque, i
genitori sono off limits.
Che poi questo pacchetto si prestava praticamente a tutti
i miei personaggi X’D
Per quanto riguarda i personaggi e le loro vicende, non
credo di dover aggiungere altre grandi spiegazioni: spero sia comunque
tutto
chiaro anche per chi non conosce la serie!
Unica precisazione: Surrealistic Pillow dei Jefferson
Airplane è un album pubblicato nel 1967 ed è il
simbolo del rock psichedelico
di quegli anni. Contiene, tra l’altro, due dei più
grandi successi della band (Somebody
To Love e White Rabbit).
Vi lascio di seguito i link delle canzoni che ho
menzionato (bellissime, vi consiglio di darci un ascolto se non le
conoscete
*-*):
White
Rabbit (è vero che l’hanno cantata a
Woodstock, per inciso)
She
Has Funny Cars
Somebody
To Love
La prima è contenuta nel lato B dell’LP, le ultime
due
nel lato A (come detto nella storia, sono rispettivamente la prima e la
seconda
traccia).
Spero che la storia vi sia piaciuta più di quanto piaccia
a me XD e spero che il personaggio di Bess vi abbia intrigato!
Non garantisco tempi brevi per quanto riguarda gli
aggiornamenti di questa raccolta, ma spero davvero di riuscire a buttar
giù un
secondo capitolo decente XD
Grazie mille a chiunque sia giunto fin qui e alla
prossima! ♥
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