Dedicata a SamHetfield,
con il cuore ♥
Ricordi sbiaditi
Cliff morì in autunno, eppure avrei giurato che fosse
inverno.
La stessa brina che ricopriva ogni cosa fuori dalla mia
finestra era stata artefice del suo triste destino; era stata lei, ma ero stato
anche io.
In Svezia l’autunno non esisteva nel 1986. Era inverno,
dunque?
La sensazione che provai quando mi resi conto che lui non ci
sarebbe stato mai più era simile a una tempesta gelida e impetuosa, capace di
immobilizzare il dolore in un solo istante e farlo scivolare sottopelle in un
angosciante loop.
Io e Cliff avevamo riso quella sera, avevamo giocato a carte
e ci eravamo punzecchiati come al solito; lui mi aveva accusato di essere uno
sbruffone perché credevo di poter vincere la partita e di accaparrarmi la
cuccetta migliore sul tour bus, ma alla fine aveva avuto la meglio – aveva
vinto, cazzo, e noi avevamo perso lui.
Avevamo avuto un rapporto particolare, ma Cliff aveva un
rapporto speciale con chiunque avesse la fortuna di incontrarlo e di incrociare
i suoi occhi pieni di vita.
E sì, ci eravamo amati in un modo strano, che non avrebbe
dovuto far parte di noi.
Erano stati soltanto istanti, attimi, momenti – adesso non
erano che ricordi sbiaditi.
E faceva male, mi faceva sentire sbagliato dimenticare,
anche se era inevitabile.
Faceva freddo quella sera.
Cazzo, si gelava.
Un grande concerto dei Metallica si era appena consumato
e tutti eravamo su di giri – forse un po’ troppo, considerando tutte le
sostanze che avevamo bevuto e assunto durante la serata.
Ma eravamo i fottutissimi Metallica, potevamo
permettercelo. Giovani, felici, pieni di successo.
Appollaiato sulla terrazza della mia camera d’albergo,
lasciavo che il gelo mi si appiccicasse al viso e alle braccia lasciate
scoperte dalla t-shirt a maniche corte.
«Sei un pazzo, amico» commentò qualcuno alle mie spalle.
Mi voltai e individuai Cliff, uno spinello tra le dita e
un bellissimo sorriso sul viso. Si accostò a me e mi porse la canna con la sua
solita gentilezza e quello spirito di condivisione che avevo sempre trovato
spiazzante.
«Dici? Io non mi ammalo mai» minimizzai, rubando una
boccata dalla stecca d’erba.
«Non hai freddo?» domandò, gli occhi immersi nei miei.
«Macché.» Come se il mio corpo avesse voluto tradirmi, un
brivido mi colse d’improvviso e increspò la pelle delle mie braccia.
Cliff ghignò. «Beccato. Smetti di fare il supereroe e
metti una felpa.»
«Non mi serve» replicai con fermezza.
Era tipico di Cliff: voleva sempre far star bene chi lo
circondava, era semplicemente apprensivo e non riusciva a non preoccuparsi per
gli altri; a volte anche io ero così, ma i miei tentativi risultavano sempre
fin troppo goffi, così cercavo di contenermi il più possibile.
Tornai ad appoggiare gli avambracci sulla balaustra in
ferro e un nuovo brivido mi investì. Forse avrei dovuto dar retta al bassista,
ma c’era qualcosa che mi tratteneva dall’andarmene.
Quella sera faceva freddo, tutto era ricoperto di brina,
eppure io avvertivo un calore anomalo dentro me. Doveva essere per via di
quello che avevo bevuto o a causa della spossatezza dovuta al troppo tempo
trascorso in tour, altrimenti non sapevo spiegarmelo.
Cliff mi si affiancò e riprese a parlare, consumando pian
piano lo spinello che teneva tra indice e medio della mano destra. «Lars vuole
uscire a tutti i costi, dice che James ha bisogno di prendere aria.»
«Ha esagerato con l’alcol» commentai.
«James? Non solo con quello.»
Risi e Cliff fece lo stesso.
Ci guardammo negli occhi per un attimo, complici, poi il
bassista mi circondò le spalle con il braccio sinistro e mi attirò più vicino a
sé.
Sobbalzai per un solo istante, ma non lo rifiutai – non
l’avrei mai fatto.
«Lo vedi che stai tremando?» osservò, passandomi la mano
sulla pelle scoperta per tentare di riscaldarla.
«Cosa vuoi che sia? Tranquillo» replicai, eppure non ero
più tanto convinto, complice anche quella tenera vicinanza tra noi.
Con lui era sempre stato normale lasciarsi andare a gesti
d’affetto, perché riusciva a rendere naturale qualsiasi cosa e a scalfire perfino
il cuore di pietra di Lars. Non che Lars fosse veramente incapace di provare
emozioni, ma certamente le esternava raramente o le incanalava in ondate di
rabbia che facevano quasi spavento.
Eppure Cliff era capace di catturarlo in abbracci goffi e
pieni di imbarazzo da parte del batterista, che poi finiva per sciogliersi un
po’ e ricambiare con gesti impacciati. E io in quei momenti, negli occhi di
Lars, leggevo gratitudine e calore nei confronti del nostro amico.
Senza quasi accorgermene, sollevai il braccio destro e lo
allacciai alla sua vita, stringendolo a mia volta. Tenevo lo sguardo fisso
sulla notte buia e gelida, ma non sentivo più un solo brivido percorrermi la
pelle – quelli che la increspavano sotto le dita callose di Cliff erano ben
diversi, ne ero consapevole.
Rimanemmo sospesi in quell’istante finché non udimmo Lars
irrompere nella stanza e richiamarci a gran voce.
«Muovete il culo, portiamo a passeggio James» strillò,
raggiungendoci in terrazza.
Mi scostai da Cliff e mi passai le mani sulle braccia
scoperte, già orfano del suo calore. «Dammi il tempo di mettere una felpa.»
«Parli di James come fosse un cane» scherzò Cliff.
«Perché, non lo è?» sibilò Lars, fingendosi irritato
all’idea di dover badare al nostro cantante.
Sghignazzai e rientrai in camera, pronto per vivere
l’ennesima notte insonne di quell’infinito tour.
Cliff morì in autunno e l’unica cosa che ricordavo di quella
notte era la sensazione di vuoto e d’inverno fin nelle ossa.
Solo poche ore prima stavamo scherzando e ci comportavamo
come sempre, poi eravamo andati a dormire con poco sonno e troppa stanchezza
addosso.
Il mondo si era capovolto, il tour bus si era capovolto,
Cliff si era capovolto.
Poi tutto era tornato alla normalità.
Una normalità nuova, che nessuno di noi era stato pronto ad
affrontare.
Affacciato alla finestra, accesi una stecca d’erba e il
sapore dolciastro della marijuana mi riportò alla mente il ricordo di Cliff
prendeva rapide boccate tra una sessione in studio e l’altra.
Ripensai con dolore a Lars che piangeva tra le mie braccia,
forse alla ricerca del calore che aveva permesso solo a Cliff di donargli –
forse sperava che un riverbero di quell’affetto fosse rimasto incastrato nel
mio corpo.
Rividi James inginocchiato sull’asfalto, immobile, le mani
tremanti e lo sguardo assente. Lo sentii urlare d’improvviso con lo sguardo
rivolto al cielo, sputare improperi e bestemmie come non lo avevo mai udito
fare.
E mi sentii sprofondare ancora, come quel giorno.
Se avessi vinto la scommessa, sarei morto al posto di Cliff.
Quella era una possibilità a cui avevo pensato spesso, ma
ero sempre arrivato a una conclusione: ero troppo codardo ed egoista per desiderare
che le cose fossero andate diversamente. La verità era che non avrei voluto
perdere la vita, così come non avrei voluto che fosse toccato a Cliff.
Invece era successo e io non potevo cambiare un bel niente.
Un brivido mi colse, gelido e impietoso, ricordandomi che ero
fin troppo vivo.
L’inverno era rigido e la brina si ispessiva al passo con il
mio dolore.
Potevo soltanto aggrapparmi a quei ricordi sbiaditi
che avrei voluto ricalcare con forza per imprimerli nel mio cervello e non
sentirli più scivolarmi via.
Seduti sul divano uno di fianco all’altro, aspettavamo.
James e Lars erano in ritardo e non riuscivamo a capire
perché; cominciavamo a preoccuparci e a sospettare che al batterista fosse
toccato andare a recuperare il cantante in qualche bettola, come capitava spesso
ultimamente. James non ragionava e non agiva bene quando era sotto pressione,
così ricercava sfogo e conforto nell’alcol.
Noi tutti avevamo capito che aveva un problema, ma
facevamo finta di niente perché non eravamo pronti ad affrontarlo. Eravamo i
fottutissimi Metallica e, insieme a band come Slayer e Anthrax, rappresentavamo
un genere musicale come il thrash metal. Questo significava non dare troppo
peso a certi aspetti delle nostre vite, in fondo ubriacarsi era parte del gioco
e James – visto da occhi esterni – stava semplicemente ricoprendo il proprio
ruolo in quel complicato meccanismo.
Cliff si passò una mano sul viso e sospirò. «Che fine
hanno fatto?»
«Non lo so, comincio a pensare che non verranno e ci
toccherà fare le prove da soli» dissi, giocherellando con uno dei miei plettri.
Il bassista cercò il mio sguardo e mi fisso con le iridi
sgranate. «E se gli fosse successo qualcosa?»
«Se la cavano, non preoccuparti» tentai di rassicurarlo,
sorridendo debolmente.
Cliff afferrò di slancio la mia mano e la strinse,
continuando a guardarmi negli occhi. «Me lo prometti?»
Avrei voluto ridere perché non avrei potuto prometterglielo,
ma i suoi occhi erano colmi di un bisogno viscerale di certezze che non ebbi
neanche la forza di rispondere.
«Kirk, mi prometti che non succederà niente ai Metallica?
Siamo una famiglia, vero?»
Era entrato a far parte del gruppo solo due anni prima, eppure
era già indissolubilmente legato a tutti noi.
Aveva bisogno che gli mentissi e io lo feci.
Strinsi più forte la sua mano e annuii. «Te lo prometto.»
Cliff morì in autunno e lasciò dietro sé una voragine
incolmabile.
Il ghiaccio che l’aveva strappato al mondo era lo stesso che
si era annidato nel mio cuore e che non lo aveva più abbandonato da quel
maledetto 27 settembre 1986.
Gli avevo promesso tante volte che ai Metallica non sarebbe
successo niente, eppure lo avevo visto infrangere per primo quelle stupide
promesse infondate.
Non lo aveva scelto, però noi eravamo rimasti soli e
distrutti.
Era arrivato Jason, poi Robert. Altri bassisti che mai
avrebbero potuto sostituire Cliff, ma che ci avevano aiutato a rimettere in
piedi la band e a raccogliere i cocci delle nostre esistenze infrante.
Un attimo prima eravamo quattro ragazzi pieni di vita e
aspettative, un po’ sbandati e sopra le righe; un attimo dopo eravamo rimasti
in tre, soli anche se stretti gli uni agli altri.
Diedi le spalle alla finestra – avevo lasciato che la stecca
d’erba si spegnesse tra le mie dita tremanti – e vidi soltanto oscurità di
fronte a me.
La stessa che albergava nel mio cuore e che i ricordi
stavano pian piano contribuendo a infittire.
Non mi restava che appigliarmi a quegli ultimi brandelli, ricordi
sbiaditi di una vita che non sembrava più appartenermi da un po’.
«Abbracciami.»
Lo disse con la disperazione nella voce e gli occhi che
luccicavano di lacrime.
SI era seduto di fronte a me, irrompendo nella mia
cuccetta e sistemandosi con le gambe incrociate sul materasso; mi aveva
raggiunto nel cuore della notte e mi aveva trovato sveglio, intento a disegnare
con le dita sul finestrino bagnato di condensa.
Guardandolo, avevo capito che qualcosa non andava.
Così avevo continuato a scrutarlo in silenzio finché non
aveva ceduto e aveva pronunciato quella parola – una preghiera, un grido
d’aiuto sussurrato nella notte gelida.
«Abbracciami» ripeté.
«Vieni qui» mormorai, sistemandomi meglio con la schiena
contro la parete della cuccetta.
Cliff strisciò verso di me e si lasciò stringere dalle
mie braccia, appoggiando la testa contro la mia spalla. Si rannicchiò e si
aggrappò a me, respirando piano e lasciando che le sue dita giocherellassero
con qualche ciocca riccia dei miei capelli.
Non gli chiesi cosa fosse successo, non era la prima
volta che il bassista si affidava a me in quel modo – forse perché ero sempre
stato l’unico all’interno della band a non rifiutare quei contatti tanto
affettuosi e decisamente poco virili.
A me non importava, sentivo anche io il bisogno di stare
vicino a Cliff in quel modo – qualunque cosa significasse.
Rimanemmo abbracciati per un po’, finché Cliff non
sollevò una mano e la accostò al vetro sporco di condensa.
Tracciò qualcosa con la punta del polpastrello in un
angolo ancora vuoto, poi sgusciò via e mi lasciò solo – infreddolito,
d’improvviso, come sempre quando se ne andava.
Mi chinai per leggere cos’aveva scritto e il cuore accelerò
i suoi battiti quando i miei occhi misero a fuoco ciò che aveva scarabocchiato.
Era soltanto il mio nome seguito da un cuore sghembo, ma
fu in grado di scatenare in me una tempesta di emozioni.
Cliff morì in autunno e mi fece sentire infreddolito, orfano
della sua presenza come ogni volta in cui avevamo interrotto i nostri abbracci.
Ricordavo fin troppo bene il dolore, le grida, la
disperazione.
E ricordavo il gelo che si addensava nelle mie ossa e mi
spingeva ad abbandonarmi a esso.
Anche se alla fine a vincere era stato il mio stupido
istinto di sopravvivenza; avevo pensato che non avrei mai potuto abbandonare
Lars e James, loro non si meritavano di perdere anche me.
Non avevo idea di come avrei fatto a essere forte per tutti
e quattro – anche per Cliff, ovunque fosse – né come avrebbero potuto ancora
esistere i Metallica.
C’era stata un’unica certezza nella mia mente offuscata:
Cliff avrebbe voluto che andassimo avanti, perché quello era stato il sogno di
tutti noi e non ci avrebbe mai perdonato un fallimento.
In fondo avevo mantenuto la mia promessa: ai Metallica non
era successo niente – a parte qualche piccolo cambiamento – ed erano
ancora in piedi, anche se un po’ ammaccati e pieni di dolore.
Stavamo ancora sul palco, a testa alta, pronti ad affrontare
il futuro senza mai dimenticare il passato – anche se era fatto di ricordi
sbiaditi, c’era e ci teneva vivi.
Ero ubriaco e fatto, ma tutto sommato ero lucido.
Anche Cliff era su di giri e non faceva che ridacchiare.
Eravamo sdraiati sul tappeto nella camera d’albergo di
Lars, mentre lui faceva una doccia.
James era scomparso e non avevamo idea di che fine avesse
fatto, ma in quel momento non ci importava.
«Poi è caduto, capito? Stavamo suonando per cinque
persone in un locale di merda e Jim è caduto!» raccontò Cliff, gli occhi
stretti per le troppe risate.
«Inciampato come un coglione» commentai.
«Sì! Però è un tipo a posto, dovresti conoscerlo.»
«Me lo presenti?»
«Certo! Andiamo a mangiare al messicano insieme? Jim lo
adora.»
Risi e allungai una mano per scompigliargli i capelli. «Certo.»
Cliff rotolò su un fianco e in un istante ci ritrovammo
vicini, occhi negli occhi e un sorriso ebete sulle labbra.
Sentivo l’acqua della doccia scrociare e Lars
fischiettare in bagno, ma l’unica cosa che riuscivo a fare era guardare Cliff.
Scrutai i suoi occhi sgranati, i capelli lunghi che gli
circondavano il viso dai lineamenti non troppo decisi, mi soffermai sulla
mascella leggermente squadrata e sulle labbra schiuse e incurvate all’insù.
Lo trovai dannatamente bello e tenero.
Poi avvertii le sue dita sulla guancia e in un istante
eravamo talmente vicini da poterci respirare.
Esitai appena, ma non riuscii a impedire che le nostre
labbra si sfiorassero per una frazione di secondo.
Allora tornammo a ridere come due ragazzini strafatti –
in fondo era quello che eravamo – e a raccontarci aneddoti di tempi in cui non
eravamo stati così vicini.
Mentre il mio cuore, tempestoso, palpitava incontrollato
nel petto.
Cliff morì in autunno e tutto ciò che mi rimaneva di lui
erano soltanto ricordi sbiaditi.
Erano tantissimi, ma si riassumevano in frammenti di
ghiaccio che ferivano impietosi la mia anima.
Erano trascorsi anni – decenni – e io non riuscivo a
smettere di sentirne la mancanza.
Cliff non riusciva a perdere la sua importanza, il suo posto
nei miei pensieri e nel mio cuore.
Non credevo a certe stupidaggini, ma ogni tanto pensavo che
l’unica spiegazione per giustificare quello che provavo era che lui fosse la
mia anima gemella, che fossimo legati indissolubilmente da un filo rosso
invisibile o qualche altra stronzata del genere.
O semplicemente era stato impossibile tenerlo fuori dal
cuore, dalla testa, dall’anima – per chiunque avesse avuto la fortuna di
conoscerlo, non solo per me.
Guardai ancora una volta fuori dalla finestra e decisi che
avrei conservato per sempre quei ricordi, per quanto sbiaditi e sbrindellati;
mi ci sarei aggrappato finché ne avessi avuto la forza e la capacità, perché
Cliff non meritava di essere dimenticato.
Richiusi le ante e fui investito da un brivido – stavolta,
però, era diverso.
Sorrisi amaramente e notai che i vetri erano bagnati di
condensa.
Sollevai l’indice destro e tracciai qualcosa in punta di
polpastrello, per poi indietreggiare e ammirare il mio piccolo scarabocchio.
Non era nient’altro che il nome di Cliff seguito da un
piccolo cuore sghembo.
Insignificante, ma capace di scatenare in me una tempesta in
mezzo alla quiete della notte gelida.
* * *
Pacchetto per la challenge di Laila: [Inverno] Brina – Angst
/ Ricordo
Ehilà, faccio timidamente capolino in questa sezione e metto
le mani avanti: non so tantissime cose sui Metallica e per scrivere questa
storia mi sono affidata tantissimo al mio istinto e all’ispirazione.
Spero davvero di non aver fatto porcherie con la
caratterizzazione dei personaggi o con eventuali riferimenti a fatti reali ^^”
In caso, sono ben accetti suggerimenti e consigli, grazie in
anticipo!
Detto questo, un paio di note su questa storia sono più che
dovute!
L’idea è nata principalmente come regalino – spero non
sgradito XD – per la cara SamHetfield; ho deciso di ricambiare il suo
pensierino per me nella sua raccolta “Cara SamHetfield, per Natale vorrei…”,
ovvero la shot Riposo
che vi consiglio di andare a leggere – ma vi consiglio di seguire tutta la
raccolta in generale, ne vale davvero la pena!
Ma la spinta definitiva per buttare giù questa OS l’ho avuta
nel leggere la storia …And Justice
For All di carachiel, quindi ringrazio con tanto affetto anche lei,
senza la quale probabilmente non avrei saputo dove caspita sbattere la testa
specialmente per la caratterizzazione dei ragazzi ^^” anche in questo caso, vi
consiglio di passare a leggere la long, merita tantissimo!
In realtà inizialmente avevo pensato a qualcosa di un po’
più allegro, ma ho finito per ricadere in un vortice di angst che non ho saputo
fermare… ehm… ^^”
Ammetto che Kirk&Cliff mi piacciono tantissimo, non so,
mi fanno tanta tenerezza e ho l’headcanon che fossero veramente tanto tanto
legati, così come penso che anche James e Lars siano tipo anime gemelle –
ovviamente solo in quanto a BROTP, non li shippo come coppia AHAHAHAHAHAHAHAH!
Piccole cosine tecniche: non so quando esattamente James
abbia cominciato ad avere problemi con l’alcol, così nei flashback sono rimasta
abbastanza vaga per non sbagliare troppo, ecco. Però, ecco, prendetele un po’
come mie licenze poetiche ^^
Quando Cliff racconta l’aneddoto di lui e il suo amico Jim,
faccio riferimento al chitarrista Jim Martin che ha militato per una decina
d’anni nei Faith No More, ma che prima conobbe Cliff durante gli anni del liceo
e i due diventarono amici inseparabili. È vero che hanno suonato insieme in
varie occasioni, ma è di mia invenzione il fatto che Jim sia caduto – voglio
sempre male a questo ragazzo AHAHAHAHAH povero! Ed è anche vero che andavano a
mangiare al messicano XD
Per quanto riguarda la foto in alto, devo ringraziare Evelyn per averla
procurata per me, la trovo veramente fantastica e tenera :3
Mi pare di non avere altro da aggiungere, ma per ogni
chiarimento sono a vostra disposizione!
Grazie a chiunque deciderà di leggere/recensire e spero che
la storia vi sia piaciuta ^^
Alla prossima, augurandomi che questa non sia la mia unica
comparsata nel fandom (magari la prossima volta con qualcosa di più allegro,
eh? XD) ♥
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