Descrizione più o
meno grafica di violenza(?) Dunno, nel caso balzate la parte in corsivo, non è
strettamente necessaria per la trama <3
Capitolo 8
Abbandonati
Sophie avrebbe fatto tardi, lo
sapeva.
Poco importava se i suoi genitori
non sarebbero dovuti essere a casa, poco importava che non la aspettassero, e
che sarebbe dovuta essere alla Tana coi Weasley.
In quella momentanea e ovattata
irrazionalità, corse lungo i viali innevati del suo quartiere, superando
rapidamente le case che una volta conosceva a memoria.
Le sembrò di scivolare, non in
modo maldestro e violento, ma dolcemente, finché non ebbe imboccato il
vialetto, salito le scale del portico, valicato la porta di casa.
… La porta di casa era aperta, no,
spalancata, appesa precariamente a uno solo dei cardini, semidistrutta
dall’interno. Il legno era sporco di sangue. Non uno schizzo, no, piuttosto di
macchie minuscole, che sembravano aprirsi in ampi ventagli sotto i suoi occhi.
Con il cuore che le martellava in
petto, Sophie entrò nella casa dov’era cresciuta, una fioca luce che la seguiva
malgrado non le servisse. Sapeva cosa avrebbe trovato, sapeva cosa la
aspettava, di quella consapevolezza distorta dei sogni che non riconosceva ma
che le faceva tremare le gambe mentre superava l’arcata del salotto.
«Finalmente sei tornata!» il
saluto di sua madre echeggiò come se arrivasse da lontano, prendendola quasi in
contropiede: i lunghi capelli biondo scuro, il volto bellissimo, dagli zigomi
pronunciati e gli eterei occhi grigi, tutto come ricordava. L’espressione di
rimprovero, quegli occhi assottigliati sotto le sopracciglia inarcate, era
mitigata da un sorrisetto nascente sulle labbra gentili.
Sophie si fece avanti timidamente,
di nuovo bambina nel suo corpo di donna, incassando la testa fra le spalle e
guardandola con un sorriso colpevole. «Ho fatto tardi?»
«Non dico che hai fatto tardi,
girino, ma ancora un po’ e finivo il nuovo libro» ridacchiò suo padre,
comparendole alle spalle e scompigliandole i capelli, rossi e indisciplinati
quanto i suoi.
«Papà!» Scacciò la mano del padre
e lui le fece l’occhiolino da dietro gli spessi occhiali squadrati, mentre si
avvicinava alla poltrona in cui era seduta la moglie. Poltrona che, notò ora
Sophie, era macchiata e squarciata, così come il resto della mobilia: tutto era
posizionato esattamente dove avrebbe dovuto ma… ogni superficie o imbottitura
era semidistrutta e macchiata da una sostanza ormai secca, marrone scuro.
«Dai, Sophie, è ora» la richiamò
Anne, improvvisamente seria.
«Di cosa, mamma?» le chiese la
figlia, confusa.
Guardò la madre esitare,
aggrottare le sopracciglia sottili. Qualcosa si spense, nel suo sguardo. «Ma
certo, mi sono sbagliata» ammise, il sorriso piegato da un fremito.
«Cosa… mamma, non capisco…»
mormorò Sophie, guardando suo padre.
Philip posò un bacio sul capo
della moglie, cercando di confortarla. Poi si voltò. «Vedi, la mamma si è
confusa, Sophie… tu non c’eri» spiegò con semplicità, ma il suo sorriso si era
fatto gelido e distante.
Il cuore di Sophie pareva battere
due volte più veloce del normale.
«Non… che cosa-» il fiato le si
mozzò in gola, mentre macchie di sangue iniziavano a fiorire sui vestiti dei
due, impregnandoli fino a scorrere sul pavimento di legno, macchiando le loro
pelli assieme a lividi e lacerazioni, sporcando le loro cornee.
Suo padre allungò un braccio per
accarezzarle il volto, ma l’arto era scomposto in un angolo disumano e lei si
fece indietro, sprofondando nel panico nel rendersi conto che c’era qualcuno dietro
di lei. Braccia ammantate di nero la bloccavano.
«No, è tutto sbagliato» farneticò
Sophie, divincolandosi, incapace di urlare mentre una mano guantata le copriva
la bocca, mentre chi la teneva iniziava a trascinarla via da quella stanza, via
da loro, dai suoi genitori trasfigurati da una violenza impietosa.
«Certo che è sbagliato, tesoro»
disse dolcemente Anne, sempre più lontana, sempre più sfigurata. «Tu non c’eri…
CI HAI ABBANDONATI»
2 gennaio 2004
Sophie si tirò a sedere di scatto,
annaspando in cerca d’aria.
Si mosse verso il comodino, buttando
a terra tutto ciò che vi era appoggiato alla ricerca della lampada. Appena
riuscì ad accendere la luce rimase immobile, abbagliata, ma non chiuse gli
occhi.
Rimase lì, a stringere il comodino
fra le dita, il respiro affannato e il cuore che le batteva violentemente in
petto. Quando sentì un rumore alle sue spalle si voltò di scatto, terrorizzata,
ma trovò solo Siler.
Con dita tremanti, la strega si passò
una mano fra i capelli umidi di sudore, prima di carezzare il muso
dell’animale. Continuò per qualche minuto mentre si calmava, riadattandosi alla
realtà, e ogni respiro completo rendeva il suo sguardo più vacuo, i suoi
movimenti più meccanici.
Un plic attutito le fece
abbassare lo sguardo sul copriletto, dove un cerchietto scuro si era appena
disegnato. E poi un altro, e poi un altro. Sophie registrò lentamente le
lacrime che scorrevano silenziosamente sul suo volto, fino a cadere dalla
mascella tremante.
Apatica, si pulì il volto e cercò con
lo sguardo il calendario dell’albergo, posizionato sul comodino opposto al suo.
Sorrise appena, un sorrisetto quasi folle nella sua amara sconsolatezza: come
ogni anno, gli incubi erano stati puntuali.
***
5 gennaio 2004
Ginny Weasley era certamente
l’amicizia più radicata e profonda di Sophie Winchester.
Draco Malfoy era sicuramente
l’amicizia più salda e incontrovertibile di Sophie Winchester.
Ginny Weasley e Draco Malfoy
non erano grandi amici. Checché Sophie continuasse a blaterare riguardo le loro
“palesi somiglianze”.
Ginny squadrò il biondo con aria
critica. Tzé, palesi. Il giorno in cui avesse mostrato palesi
somiglianze con quello snob platinato, avrebbe trovato il modo di portarlo
nella tomba con lei, perché sicuramente sarebbe stato coinvolto nella
trama malefica.
«Weasley.»
Certo, con gli anni aveva imparato ad
avere a che fare con l’ex-Serpeverde, e a rivalutare tutti i pregiudizi e le
stigma che vecchie ferite avevano lasciato. A ventidue anni compiuti, era
consapevole che Draco non fosse suo padre, che non lo potesse incolpare per
l’Horcrux che Lucius Malfoy le aveva rifilato quando aveva undici anni, e che
gli errori fatti in gioventù erano stati in parte forzati, e interamente pagati
a caro prezzo.
«… Weasley?»
Doveva anche ammettere che per
arrivare a quel punto ci erano voluti innanzitutto anni, perché guerra o
non guerra l’adolescenza era un pessimo momento per perdonare ex-bulli,
ex-puristi ed ex-Mangiamorte che ti avevano tormentato l’infanzia. In secondo
piano, Ginny era stata alquanto motivata dal fatto che Draco fosse
diventato, nell’ordine, amico di una delle sue migliori amiche, fidanzato
dell’altra, e collega del suo fidanzato e di suo fratello.
Sulle ultime, anzi, si era persino
trovata partecipe degli eventi.
«Weasley!»
Ciononostante, tenendo pur conto di
tutto quanto fosse successo, mutato, perdonato e superato, certe cose non
potevano cambiare.
La boria, ad esempio, con cui Draco
era capace di portare avanti anche il più piccolo, insignificante dei gesti,
era ancora lì, in bella vista. Così com’era ancora lì il repertorio di insulti
e nomignoli offensivi, scremato solo della componente più razzista. La totale,
assoluta incapacità di tenere per sé i suoi problemi e di non farne una scena
madre ogni volta, poi, era forse solo cresciuta negli anni.
«WEASLEY!»
La rossa inarcò un sopracciglio.
«Cosa, Malfoy?»
«Mi fissi da mezz’ora come se fossi
cosparso di pus di Bubotubero! Se proprio non sai scendere a patti col fatto di
non avere buon gusto, apriti una qualsiasi idiota rivista per streghe e
fissa PotterSfiga, sarà stampato da qualche parte!»
Ginny si dondolò sulla sedia. «Quindi
ti brucia ancora che nell’inserto del Settimanale delle Streghe non abbiano
messo anche le tue foto?»
«Non ha alcun senso! Di meno
fotogenico del tuo stupido fidanzato c’è solo Kreacher!»
«Eppure anche lui stava benissimo in
quel piccolo pezzo del Cavillo».
Draco lanciò le mani in aria con fare
esasperato e fece per uscire dal suo stesso cubicolo che, per decisioni
totalmente indipendenti da lui, fronteggiava quello di Harry. Ergo, se Ginny
doveva aspettare il fidanzato per pranzare assieme, la colluttazione verbale
con il biondo era inevitabile: Ginny stava collezionando tempi sempre migliori
sul farlo uscire dai gangheri.
«Aspetta!» sbottò però quel giorno,
in barba al suo nuovo record.
Draco la squadrò con sospetto, ancora
a un passo dall’uscire dal cubicolo. Lei sospirò.
«Stavo pensando a Sophie»
«… Ed è un mio problema perché?»
«Perché Hermione mi ha detto che sei
“insofferente come un Ippogrifo” e Harry che continua a trovarti a fissare la
scrivania di Sophie».
Se dal volto dell’Auror scemò ogni
traccia di diffidenza, con altrettanta rapidità un colorito roseo gli salì agli
zigomi affilati, e il suo sguardo si fece omicida. «Weasley, giuro su Salazar
che-»
«Sono preoccupata anche io» lo
interruppe noncurante la strega, passandosi assente una mano sullo stomaco. «So
che in questo periodo… beh, non deve essere facile essere là da sola».
Draco non rispose ma riprese posto
alla sua scrivania, ignorandola per qualche minuto. Alla fine, si strinse nelle
spalle. «No che non sarà facile. Ma quella cocciuta…»
La ragazza guardò il giovane Malfoy
fissare il muro di cartongesso come se volesse perforarlo con lo sguardo, ma
sapeva che stava solo fissando la fotografia del suo primo giorno nella
squadra: Sophie con un braccio stretto in una morsa letale attorno al collo del
biondo, il volto sorridente mente lui, rigido e a braccia conserte, alzava gli
occhi al cielo.
Ginny conosceva benissimo quella
foto, perché era la stessa che Sophie teneva nel suo piccolo e straripante
album fotografico: sempre gli stessi volti, negli anni, da Hogwarts all’ultimo
compleanno festeggiato assieme.
Ginny, Draco, Harry, Ron, Hermione. Pochi
i nomi di coloro che davvero avevano la fiducia di Sophie. Pochi i nomi di
coloro che ne conoscevano ogni sfaccettatura, ogni segreto accuratamente
custodito, ogni sfumatura che si nascondeva dietro al volto perennemente
sorridente della ragazza.
Pochi, pochissimi, coloro che
ricordavano ogni anno di abbracciarla una volta in più, perdonarle una svista
in più, lasciarle del tempo in più per fissare il vuoto, persa nei suoi
pensieri. Ogni anno, quel giorno, da quando i genitori di Sophie le erano stati
strappati via.
Ogni anno.
… Non quell’anno.
«A Sophie non sono mai piaciute le
cose facili» sancì infine Draco, interrompendo i cupi pensieri della strega.
«L’ha deciso lei di essere lì, e non ho la minima intenzione di compatirla…»
«Che vuol dire?! Ha fatto una scelta
coraggiosa e assolutamente grandiosa per il suo futuro, non si merita-»
«Non ho detto questo» il biondo interruppe
a denti stretti la feroce difesa di Ginny. mormorando poi qualcosa di simile a “Stramaledetti
Weasley”. «Quello che intendo, è che sta facendo qualcosa che la rende
orgogliosa di sé stessa, qualcosa che ha scelto consapevolmente… non è una totale
sconsiderata, sa affrontare un po’ di difficoltà… non le sono mai piaciute
le cose facili» ripeté infine, con aria decisa.
La rossa, ora più calma, fissava
l’Auror con un accenno di stupore in volto: per quanto fosse protettiva nei
confronti della sua amica, e per quanto i motivi per cui essere preoccupata non
facessero che moltiplicarsi, non poteva che avere fiducia in lei. Draco aveva
ragione, insomma… ma il suo ego non aveva assolutamente bisogno di sentirselo
dire.
«La piantate di fissarmi tu e
il tuo fidanzato?!» sbottò di colpo il biondo, ormai al limite della
sopportazione.
«È che a volte fatico a credere a
quanta lacca tu possa mettere sui capelli, Malfuretto- ciao amore» si annunciò
Harry, arrivando con il cappotto cosparso di neve piegato su un braccio.
Si chinò a posare un bacio sulle
ridenti labbra della fidanzata.
«Spine nel fianco» sibilò
Draco, appoggiandosi alla scrivania coi gomiti e prendendo a massaggiarsi le
tempie.
Harry e Ginny si scambiarono dei
sorrisi complici, mentre si avviavano verso la mensa. Un attimo prima di
andarsene, la rossa si riservò il diritto di dare dei colpetti di
incoraggiamento a una spalla del biondo.
Lui guardò i due di traverso, ma li
salutò con un cenno del capo.
Quando le loro voci si persero
definitivamente nel rumore di sottofondo del Dipartimento, Draco tornò a
guardare la foto in cui Sophie lo aveva costretto, tutti quegli anni prima.
E ripensò alla conversazione che
aveva origlia-casualmente udito una decina di giorni prima.
27 dicembre 2003
A sua difesa,
Draco si stava solo annoiando, mentre attendeva che le analisi sulla
bacchetta di un sospettato arrivassero. Si stava stiracchiando le gambe,
passeggiava avanti e indietro, riattivava la circolazione: non era certo
colpa sua se la pidocchiosa scrivania che gli avevano assegnato anni prima – e
che lui aveva poi sostituito con un pregiato pezzo di antiquariato - dava
praticamente le spalle all’ufficio di Robards.
Quindi
sì, forse aveva superato la linea che separava l’innocente e casuale prossimità
dal sospettoso appostarsi, ma gli era parso di sentire un rumore di
sottofondo provenire da quell’ufficio. Ufficio la cui porta, di norma, era perennemente Imperturbabile:
nessun rumore in entrata, nessun rumore in uscita.
Così,
il biondo aveva inarcato un sopracciglio e, badando che non vi fosse nessuno in
vista, si era avvicinato al vecchio uscio di legno.
Nessun
altro suono, però, stava giungendo al suo orecchio: né un respiro, né il
tramestio di un cassetto smosso, né un qualsiasi altro tipico movimento da
ufficio.
Draco
stava quindi per riprendere la sua noiosa attesa per i corridoi del Quartier
Generale, una smorfia di disappunto già pronta sulle labbra, quando udì un
crepitare improvviso, e il rumore di una punta metallica su una superficie di
pietra.
Il
biondo corrugò la fronte.
… Il
camino?
«Inizio
a detestare queste nostre conversazioni, Watari».
Le
sopracciglia del biondo scattarono verso l’alto, gli occhi grigi frugarono
un’ulteriore volta il corridoio. Dall’altra parte della porta, un silenzio
prolungato venne spezzato dal sospirare di Robards. «Che cosa vuole L, ora?»
«…
Posso ricordarle che è lei ad averci contattati? Ad aver dato inizio a questa
faccenda? Non starebbe parlando con me, altrimenti». La replica venne da una
voce distorta, quasi incomprensibile nel crepitare delle fiamme di, sì,
un camino acceso: Metropolvere, senza ombra di dubbio.
«Ironico, dato il perché vi ho
contattati» replicò seccamente la voce del Capo.
Draco era pressocché schiacciato
sullo stipite della porta, appena scostato perché la sua sagoma non fosse
visibile tramite lo spesso vetro giallastro della finestrella, e i suoi
pensieri correvano rapidamente: la versione ufficiale, era che Watari stesso
avesse preso i contatti con il Wizengamot, e tramite di esso col Ministero
britannico e americano.
Quindi, come poteva averlo contattato
per primo Robards? Si riferivano forse a qualcos’altro? A qualcosa che non
c’entrava con la richiesta di rinforzi di L?
Per altro, quello stesso giorno
avevano ricevuto notizia della morte degli Auror americani che erano arrivati
in Giappone: Robards li aveva convocati in ufficio non più di una manciata di
ore prima, sforzandosi di rassicurarli sull’incolumità di Sophie e finendo per
cacciarli a “fare il loro lavoro finché ne avevano uno!”. Quindi ora
cosa ci faceva a parlare di nuovo con Watari? Era ancora inerente a quel
disastro sfiorato?
«Che cosa succede?» chiese Robards,
prendendo nuovamente parola per primo. E di nuovo, Draco riconobbe una nota di
resa che raramente aveva sentito nella voce di quell’orgogliosissimo
Auror.
Prima che potesse udire la risposta,
Proudfoot e McLuhan si affacciarono alla fine del piccolo corridoio che
separava l’ufficio dal resto dei cubicoli, cianciando ad alta voce dell’ultima
partita del Puddlemore United.
Draco, stringendo i denti, si
appoggiò con indolenza al muro, ritraendosi dalla porta quel tanto che bastava
a non rendere sospetta la sua posizione.
«Oh, Malfoy! Hai mica visto Weasley?
Mi deve dieci falci!» sbottò allegramente Proudfoot, prendendo atto della sua
presenza con un’entusiasta alzata delle bianche sopracciglia.
Sempre entusiasta, questo stramaledetto pezzo da museo.
«No» rispose il biondo tra i denti.
«Oh, non lavora oggi?»
«Non lo so»
«Ma è nella tua squadra, non sai se-»
«Ho forse una stupida cicatrice in
fronte e degli stupidi capelli spettinati? No, perché non sono Potter, chiedete
a lui» lo interruppe Draco con un’occhiataccia, trattenendosi dall’alzare la
voce perché non filtrasse dalla porta del Capo. Porta che, più che chiaramente,
quel giorno non era Imperturbabile.
«D’accordo, d’accordo, scusa… che
permaloso» borbottò mogiamente l’altro Auror, superando Draco.
«Oh, lo sai com’è fatto… e poi è
fuori dall’ufficio di Robards, sarà in qualche guaio e starà aspettando una
strigliata» commentò McLuhan, sparendo col collega dentro al labirinto di
cubicoli.
«Fottuto mangiacarta» sibilò Draco,
controllando i dintorni prima di avvicinare nuovamente l’orecchio alla porta.
«… e va bene, va bene! Fate
come diavolo ritenete opportuno!» stava abbaiando Robards.
«Perfetto. Ci tengo a ricordarle che
L desidera sapere di ogni ulteriore sviluppo, e che Sophie non deve-»
«Avere nessun sospetto-non sono
stupido, Watari.»
Dopo qualche secondo, in cui la
tensione ebbe tutto il tempo di filtrare attraverso la porta e irrigidire la
schiena di Draco, Watari concluse: «Ci faremo risentire presto.»
Il rumore di fiamme si smorzò di
colpo.
«… Fortunato me» brontolò cupamente
Robards, prima che un acuto scricchiolare annunciasse che avesse preso posto
alla sua scrivania.
«Malfoy! Ho i risultati!»
Draco si voltò lentamente verso Ron e
la pergamena che stringeva in mano, il volto indecifrabile e la testa completamente
altrove. Per quel che rimaneva del turno, non prestò al collega la benché
minima attenzione.
Tornando al 5 gennaio 2004
«Qualcosa che non va, Malfoy?»
Draco alzò lentamente gli occhi su
Robards, senza dargli nemmeno per sbaglio la soddisfazione di vederlo
sobbalzare. «No, Capo» replicò atono, le sopracciglia bionde inarcate e il
volto teso nella migliore delle sue espressioni da Aristocratico decaduto, come
le definiva Hermione. Quando Hermione era gentile.
“Stramaledetto pezzo di snob” era la versione più irritata.
Sophie e Weasley piccola concordavano
entrambe su un più colorito “Firebolt su per il c-”
«Allora lavora, il Ministero
non ti paga per fissare il vuoto» lo rimbottò Robards, prima di proseguire
verso il suo ufficio in un basso borbottio ininterrotto.
Quando la vecchia porta
scricchiolante si fu richiusa alle sue spalle, il biondo smise di nascondere la
smorfia di disprezzo che gli premeva sulle labbra sottili.
Non gli era sfuggita la nota di
sospetto negli occhi di Robards, né il modo in cui si era accigliato. Quasi con
preoccupazione.
Cosa sta combinando?
D’altronde, la più brava a leggere il
volubile umore del Capo era sempre stata Sophie, l’unica idiota che
potesse seriamente prendere quell’insopportabile criticone scorbutico di
Robards come modello di riferimento.
La cosa più ridicola, però, non era
nemmeno che Robards avesse effettivamente preso sotto la sua ala quello sgorbio
di diciassettenne che aveva deciso di diventare Auror dopo il diploma.
No, l’ironia era che, da come stavano
convergendo i fatti, sembrasse essere proprio Robards quello che tramava alle
loro spalle, alle spalle di Sophie.
Draco schioccò la lingua e ruotò
sulla sedia, tornando a fronteggiare la parete di cartongesso che chiudeva la
sua scrivania. Davanti a lui, la solita foto.
Sospirò.
«Dannato sgorbio».
***
«Hai visto anche tu? Il plico…»
L stava per aprire bocca, quando
Sophie glielo chiese.
La guardò con la coda dell’occhio,
vagamente stranito che la ragazza avesse pressoché sussurrato, invece di
lanciarsi in esclamazioni rumorose. L’ennesimo comportamento bizzarro della
strega che, in quei giorni, era stata più silenziosa, discreta e cauta di
quanto lo fosse stata da quando l’aveva conosciuta.
Accantonò quel pensiero
momentaneamente, prima di scuotere il capo.
«Quale plico?»
«Quello che aveva prima di salire»
«Che cosa c’è?» chiese Matsuda,
spostando lo sguardo dal detective al televisore: nelle immagini in bianco e
nero di una videocamera di sicurezza, Raye Penber giaceva privo di vita sulla
banchina di un treno.
L rimase in silenzio un attimo più
del consueto, aspettandosi istintivamente che fosse Sophie a rispondere al suo
posto. Dopo averla vista abbassare lo sguardo, persa in un tè che stava
sorseggiando con scarso entusiasmo, capì però che sarebbe rimasta in silenzio.
Anche stavolta.
Non che fosse rilevante, non in quel
momento: la squadra si era procurata tutti i filmati di sicurezza che avessero
immortalato la morte degli Auror e, malgrado fossero relativi a sole tre
vittime, ora avevano decine di nastri da visionare. L era certo che, tra quelle
dodici morti, una lo avrebbe condotto da Kira, una sola.
E infatti.
Dopo aver gettato un’occhiata di
sbieco alla rossa, L chiese di riavvolgere la registrazione, spiegando quanto
avesse catturato la sua attenzione: Raye Penber era entrato nella stazione di
Shinjuko Ovest alle 15:11, alle 15:13 era salito sulla linea Yamanote, e alle
15:21 aveva ricevuto il file contenente le schede degli Auror presenti in
Giappone. Solo un’ora e mezza più tardi era sceso sulla banchina su cui, pochi
attimi dopo, sarebbe morto.
Giunti alla fine delle riprese, L
capì cosa intendesse Sophie. «Sia nell’immagine dei cancelli, che in quella in
cui sale a bordo, aveva con sé una specie di busta».
«Tra gli oggetti che aveva con sé non
è stato registrato niente che possa somigliare a una busta… c’era solo un pc
babbano, col file del MACUSA» confermò il Sovrintendente, dando una rapida
occhiata al rapporto della morte di Penber.
«Significa che l’ha lasciata sul
treno» commentò L.
«Significa che la busta serviva a
Kira» aggiunse Sophie, ancora una volta sottovoce.
Il detective incrociò il suo sguardo,
ragionando: il file richiesto da Penber e gli altri, era stato spedito via gufo
a solo quattro degli agenti, che lo avevano poi passato tramite il bizzarro
mezzo elettronico. L’utilizzo di un file digitale, babbano, il fatto che lo
stesso Penber e altri Auror si trovassero nel pieno di zone babbane, non faceva
che rendere difficoltosa quell’indagine. Normalmente, un mago avrebbe
utilizzato un gufo e avrebbe viaggiato smaterializzandosi, o via Metropolvere.
Chiaramente, Kira si era garantito
che le sue vittime fossero ritrovate, e doveva aver manipolato anche il modo in
cui si erano svolte le comunicazioni: non solo gli Auror erano morti in tempi
diversi, ma l’ordine con cui il file aveva raggiunto gli agenti non combaciava
con l’ordine delle morti.
Ma è qui l’errore.
A Kira servivano nomi e volti per
uccidere, perciò doveva aver per forza avvicinato un unico agente, per poi
confondere le acque manipolandone le azioni e, per esteso, quelle dei suoi
colleghi. Perciò, quell’agente doveva essere tra i primi ad aver ricevuto il
file, e Raye Penber era il secondo della lista.
Ciò significava che Penber doveva aver
incontrato Kira prima di entrare nella stazione… e, forse, anche dopo.
L riportò gli occhi sulle immagini,
studiando come il corpo di Raye fosse collassato verso l’entrata del treno:
l’uomo era uscito, poi si era voltato nell’attimo in cui era crollato a terra,
avvolto da un lampo di luce verde. Si era accorto di aver scordato la busta?
Il detective aggrottò lievemente le
sopracciglia.
No, era molto più probabile che… Kira
lo avesse chiamato.
… Infantile.
«Passatemi al setaccio tutti i video
di ogni stazione della linea Yamanote relativi al 27».
Dubitava che Kira si fosse fatto
cogliere in fallo dalle videocamere, era abbastanza intelligente da saperne
sfruttare gli angoli ciechi alla perfezione, ma se aveva commesso un passo
falso… avrebbero trovato il loro sospettato principale.
Poi, dieci minuti più tardi, arrivò
la lettera.