Due
pesche, una banana, e un paio di libri; nient’altro.
“Pessimo,
per oggi dovrò accontentarmi”. Chiuse
lo zaino e se lo mise in spalla, pronta per allontanarsi da centro
del paese. Riprese a camminare a passo svelto lungo la strada
lastricata, guardandosi in giro di tanto in tanto per assicurarsi che
nessuno la stesse seguendo. Erano quasi undici anni che viveva
così:
arrivava su un’isola, rubava quanto le serviva per
sopravvivere,
ogni tanto qualche vestito e quando il fato era particolarmente
benevolo agguantava qualche libro che avrebbe restituito al legittimo
proprietario una volta finito, prima di imbarcarsi di soppiatto su
qualche nave e scroccare un passaggio fino alla prossima isola. Il
tutto rigorosamente da sola.
Non
che fosse proprio la vita che sognava, ma per uno strano scherzo del
destino si era trovata a condurre un’esistenza da ladra,
clandestina, mendicante
e tal volta da fuggitiva. Spesso
le era capitato di sfruttare il suo aspetto per rimediare un pasto o
una stanza in qualche bettola piena di pirati, non che fosse
bellissima, era una ragazza nella media. Non era troppo alta, coi
capelli neri che le arrivavano poco sopra le spalle e una frangetta
spettinata che le copriva gli occhi, neri anche quelli, gli
unici segni che la distinguevano erano la sacca rossa che portava in
spalla dove infilava refurtiva e diari pieni di appunti e una katana
dalla lama bianca, anch’essa tenuta dietro la schiena.
La
città di Alsafara era piccola ed essendo l’unica
dell’isola su
cui si trovava portava il suo stesso nome. Le case erano tutte
ammassate alla rinfusa ai bordi della strada principale, larga
qualche metro e lastricata di marmo bianco. Lo stile architettonico
della zona combaciava con le possibilità economiche degli
abitanti
della città, le mura degli edifici erano in arenaria,
intervallati
di tanto in tanto da qualche buco che doveva fungere da finestra e
quasi tutti erano composti da almeno tre piani, ognuno occupato da un
piccolo appartamento mal arredato. Ogni mattina in occasione del
mercato, tutti i cittadini si riversavano nella strada principale e
nella piccola piazza al centro della città, chi per vendere
e chi
per fare provviste. Alla giovane erano bastati pochi giorni per
capire l’andazzo generale di quel nuovo posto.
Era
quasi mezzogiorno e la via principale stava
iniziando a svuotarsi. La
ragazza
camminava piano in
mezzo alla folla per non farsi notare, anche se era difficile non
notare il suo pallore in mezzo a quel mare di pelli ambrate.
«Ehi
tu! Fermati!» si voltò di scatto verso la
direzione da cui
proveniva quel grido. Un uomo tozzo e dall’aria minacciosa la
stava
indicando a qualche metro di distanza, la fronte imperlata di sudore
per lo sforzo dell’inseguimento.
“Merda!”
era il proprietario della bancarella da cui aveva trafugato la
frutta, probabilmente l’aveva vista sgattaiolare tra la gente
ed
era riuscito a seguirla fin lì.
Iniziò
a correre lungo la strada imprecando
mentalmente,
con l’uomo che
la inseguiva come se raggiungerla fosse una questione di vita o di
morte. Percorse un centinaio di metri in linea retta, correndo sul
marmo bianco e rischiando di scivolare ad ogni passo prima di
riuscire a trovare un vicolo abbastanza largo in cui infilarsi.
Muoversi nel dedalo di vicoli di quella città era
un’impresa quasi
impossibile.
Corse
nel vicolo con la testa rivolta all’indietro per assicurarsi
che
l’uomo non l’avesse seguita ma andò a
sbattere contro qualcosa e
si ritrovò seduta a terra, con una fitta alla testa che
presto
sarebbe diventata un bernoccolo.
Si
massaggiò la fronte per qualche secondo, stordita
dall’impatto,
prima riaprire gli occhi e mettere a fuoco quello che stava di fronte
a lei. Due uomini, uno seduto a terra nelle sue stesse condizioni e
uno in piedi che cercava di tirare il braccio del compagno per farlo
rialzare. Entrambi vestiti con una stupida tutona bianca nonostante
il caldo e dei cappelli che ne coprivano in parte il volto.
«Ma
che diavolo...» una fitta alla gamba la riportò al
mondo reale, si
portò una mano alla caviglia fasciata con un pezzo di stoffa
di
recupero; il taglio che si era procurata qualche giorno prima stava
iniziando a darle noia per lo sforzo della corsa, pulsava
fastidiosamente e un dolore
sordo iniziava ad irradiarsi verso il ginocchio. Non si scompose,
stava scappando e probabilmente vista la violenza
dell’impatto
anche i due tizi erano di fretta.
«Ehi
voi! Lo sappiamo che siete qui!» la voce proveniva da
un’altra
stradina, alle spalle dei due tizi. Non ci pensò due volte,
si mise
in piedi e afferrò l’altro braccio del tizio steso
a terra,
aiutando il suo amico a rimetterlo in piedi e correndo li
trascinò
entrambi in un altro vicolo poco distante. Sulla faccia dei due era
dipinta la stessa faccia confusa della ragazza, ma scappare aveva la
priorità, alle domande ci avrebbero pensato dopo.
Corsero
tutti e tre per una decina di minuti imboccando vicoli e saltando
muretti. Ogni passo era una fitta e se non fosse stato per
l’adrenalina non si sarebbe retta in piedi. Salirono
le scalette esterne di un edificio fino a raggiungere il tetto
piatto, se gli inseguitori non li avevano visti salire non li
avrebbero mai cercati lì sopra. O almeno così
speravano.
Si
accovacciarono appoggiati al parapetto, convinti che dal basso li
avrebbe nascosti a dovere. Rimasero zitti per qualche minuto, ognuno
intento a riprendere fiato. Il
tizio che poco prima l’aveva buttata
a terra si
era sdraiato
mentre l’altro si era accovacciato con la testa tra le
ginocchia.
La giovane decise di approfittare di quel momento di distrazione per
controllarsi la ferita.
Tolse
piano la benda ormai
sporca
di sangue, il
taglio era all’esterno della caviglia destra, poco
più corto di
una spanna e non troppo profondo. Niente di troppo grave, si sarebbe
detta, se non fosse stato per l’aspetto. La pelle intorno
alla
ferita era rossa e gonfia, la sentiva calda anche senza il bisogno di
toccarla. Nonostante fosse passato qualche giorno non accennava a
rimarginarsi e anzi, l’interno si stava colorando di nero,
salvo
per quei punti da cui il sangue usciva mischiato ad un poco invitante
liquido purulento giallastro e maleodorante. Distolse lo sguardo per
paura di vomitare, lo stomaco debole era sempre stato un suo difetto.
Si rimise
la fascia senza
guardare ma ogni movimento le costò uno sforzo non
indifferente per
sopportare il dolore. Tornò ad appoggiarsi al parapetto con
gli
occhi chiusi cercando di non pensare a quello che aveva appena visto.
I
due uomini scoppiarono a ridere quasi contemporaneamente riportandola
alla realtà. «Beh? Che c’è di
tanto divertente?» nonostante
l’aria stizzita faticava a nascondere una punta di
divertimento
nella voce.
«No
niente» rispose il tizio seduto «solo che
è stato davvero forte..
e poi non capita tutti i giorni di essere salvati da una bella
ragazza» disse rivolgendole un sorriso sornione, imitato dal
compagno.
Questa
volta fu lei a scoppiare a ridere. Ok, quei due erano strani. Adesso
ne era davvero sicura. Ma non le dispiacevano così tanto, li
avrebbe
quasi definiti simpatici se non fosse stato per la situazione
assurda.
«Comunque
piacere, io sono Shachi» il tipo seduto le fece un cenno con
la
mano.
«E
io sono Penguin» il tipo sdraiato si mise a sedere. Entrambi
continuavano a sorriderle con fare gentile. Per quanto fosse
diffidente quei due le ispirarono fiducia.
«Morgan,
piacere mio» aprì lo zaino e ne tirò
fuori le due pesche, anche se
si erano un po’ ammaccate durante la corsa le
lanciò ai due, che
la ringraziarono con un gesto del capo. Lei si mise a mangiare la
banana.
«Da
chi stavate scappando?» glielo chiese con la bocca piena,
nonostante
fosse una bella ragazza le buone maniere non erano proprio cosa per
lei.
«Niente
di che, un gruppo di Marines» le disse Penguin con fare
distratto.
Un
pezzo di banana le andò per traverso.
«Come
Marines?!» disse portandosi una mano alla bocca cercando di
non
tossire troppo. Shachi
la
guardò come se fosse impazzita «Beh
sì… siamo pirati, anzi,
Pirati Heart» disse battendosi una mano sul petto, sopra lo
stemma
della loro ciurma, annuendo con aria fiera.
Non
che non le piacessero i pirati, anzi, più volte aveva
scroccato
pasti e passaggi, ma aveva sempre preferito mantenere una certa
distanza. Aveva già abbastanza casini per conto suo, senza
bisogno
che gliene procurassero altri.
Pirati
Heart. Quel nome non le piaceva per niente. Negli anni era diventata
una buona ascoltatrice, aveva imparato a captare informazioni
importanti anche da conversazioni che ai più apparivano come
semplici chiacchiere da taverna. Le venne in mente un nome.
“Trafalgar
Law”,
o come lo chiamavano
tutti “Il chirurgo della morte”. Non proprio la
persona più
simpatica con cui avere a che fare o peggio, con cui avere grane. Una
delle Undici Supernove, un uomo spietato che non esitava a ridurre a
brandelli chiunque gli si parasse davanti. Su di lui si diceva di
tutto, alcuni dicevano che avesse raso al suolo un’intera
isola
solo per divertimento, altri ancora dicevano che nella sua
imbarcazione tenesse i cadaveri di tutti i pirati che aveva ucciso,
si diceva addirittura che fosse l’incarnazione stessa del
Diavolo.
Beh,
certo, probabilmente erano solo voci e questo la giovane lo sapeva
bene, ma se di lui dicevano queste cose un fondo di verità
doveva
pur esserci, no? Il presunto figlio del Diavolo non doveva certo
essere un gran simpaticone.
Guardò
Shachi e Penguin, loro però sembravano gentili e non avevano
ancora
tentato di ucciderla o derubarla, ma pur sempre pirati erano.
«Beh,
è stato un piacere conoscervi» disse la ragazza
alzandosi «ma
credo di dover andare» si lanciò zaino e spada
sulle spalle. Non le
piaceva trattare così le persone, o giudicarle senza motivo,
ma
davvero non aveva voglia di altri guai. E se quei due stavano
scappando dai Marines i guai l’avrebbero presto raggiunta. Si
avvicinò zoppicando al parapetto cercando
di nascondere la smorfia di dolore e
guardando bene che i loro inseguitori se ne fossero andati si
preparò mentalmente al salto di tre piani che la attendeva.
«Aspetta!»
Shachi si era alzato in piedi e la stava guardando con aria severa.
Morgan si irrigidì, ora che sapeva chi erano non
poté fare a meno
di provare paura. «Con quella gamba non andrai
lontano»
«Ma
come…» la ragazza lo guardò stupita,
quando si era tolta la benda
non la stava guardando, ne era sicura.
«E’
infetta, setticemia, ne sono quasi sicuro. A vederla così
non ti
rimane molto, tra un paio di giorni non potrai più camminare
e poi…
beh, lo sai» un brivido freddo le percorse la schiena. Lui
che ne
poteva sapere? Non l’aveva vista davvero.
«Ci
hai salvato la vita portandoci qui» Penguin le si
avvicinò
sorridendo «permettici di ricambiare il favore, il nostro
capitano è
un medico e saprà aiutarti»
«So
benissimo chi è il vostro capitano» lo disse in
tono serio,
guardando negli occhi prima l’uno e poi l’altro
«Non
fraintendetemi, voi mi sembrate a posto, ma sto benissimo
così.
Posso cavarmela»
«A
maggior ragione che sai chi è dovresti seguirci. Pensaci,
tra poco
inizierà a salirti la febbre e allora non potrai
più fare niente,
sarai troppo debole anche per mangiare.»
l’argomentazione reggeva,
Shachi si fece ancora più serio «E poi siamo
pirati e i pirati
ripagano sempre un debito. Soprattutto se è un debito di
vita»
«E
per cosa? Per essere gettata in mare e morire affogata subito dopo?
No grazie» aveva visto e sentito troppe cose per fidarsi di
un
gruppo di pirati, insistere non sarebbe servito.
«Fai
come vuoi» Penguin si abbassò il cappello sul viso
e si voltò
nella direzione opposta a Morgan, Shachi con lui
«E’ un peccato,
ci sarebbe piaciuta un po’ di compagnia femminile a
bordo»
Di
tutto il discorso che, avrebbe voluto ricordargli, verteva sulla sua
morte, quella era la cosa che pareva rammaricarli di più.
«In
ogni caso, se dovessi cambiare idea ci trovi al porto» Shachi
guardò
in direzione del sole, ormai alto all’orizzonte
«Tra mezz’ora
salpiamo».
«Grazie
ancora» la guardarono e portandosi una mano alla fronte quei
due si
congedarono definitivamente.
Li
guardò saltare giù dal tetto, seguendoli con lo
sguardo mentre si
infilavano in un vicolo per poi sparire tra gli edifici. Si
accasciò
di nuovo contro quel maledetto parapetto. In quel momento si
pentì
di averli salvati.
Migliaia
di pensieri le affollarono la testa. Non era stupida, sapeva
benissimo che la ferita era molto più grave di quanto non
volesse
ammettere. Di medicina ne capiva ben poco, ma di sicuro non voleva
mettersi nelle mani di uno che si faceva chiamare “Il
chirurgo
della morte”. E poi chi poteva assicurarle che
l’avrebbe aiutata?
Aveva salvato i suoi uomini, non lui, il debito lo avevano loro, non
il capitano.
Eppure
qualcosa dentro di lei le diceva che sarebbe
stata una
stupida a non
accettare quella proposta. La gamba le faceva un male cane e avrebbe
potuto scroccare un passaggio fino alla prossima isola, magari
qualche pasto caldo e magari, perché no, un po’ di
compagnia
maschile. Oppure l’avrebbero gettata in mare, o fatta a
fette, o
una qualsiasi altra cosa poco divertente a cui sicuramente non voleva
pensare.
«Oh
ma dai!» sbuffò passandosi le mani tra i capelli.
Il suo campo di
studio era la mente umana, pur essendo un lupo solitario aveva
passato quasi tutta la vita a studiarla nelle sue più
sottili
sfaccettature, cercando un modo per aiutare sé stessa e gli
altri.
Eppure ora che doveva scegliere cosa fare non riusciva ad essere
razionale, il flusso di pensieri che le attraversava la mente
sembrava un fiume in piena.
Quante
volte le era capitato prima? Sicuramente una, forse altre due volte.
In ogni caso erano passati anni. Ma di decisioni nel frattempo ne
aveva prese e non era certo stato così difficile. Era
semplice,
testa o croce, si limitava a scegliere senza pensare troppo alle
conseguenze in base a quello che le faceva comodo al momento. Per
quanto si ritenesse una persona razionale l’istinto
l’aveva
sempre guidata, magari non nel posto giusto, ma da qualche parte
l’aveva portata. Eppure ora che c’era di mezzo la
sua vita stava
cadendo nel panico.
Alzò
la testa chiudendo gli occhi, sapeva riconoscere i segnali di un
attacco di panico. Respiri lenti e profondi, erano la soluzione
migliore. Cercò
di pensarci
razionalmente, prima
non si era accorta dell’uomo che la stava seguendo né
dei due che le correvano in contro e non si era accorta nemmeno
che Shachi le aveva visto la ferita. Stava iniziando a perdere colpi,
questo dovette ammetterlo e forse starsene in giro così non
era una
grande idea, se non l’avesse uccisa l’infezione
sarebbe morta per
qualche distrazione.
Per
come la vedeva, qualsiasi cosa avesse scelto avrebbe potuta
ucciderla. La ferita ci avrebbe messo più tempo e
probabilmente
sarebbe stata una morte lenta e penosa. Infilarsi nella bocca di uno
squalo sarebbe stato sicuramente doloroso, ma magari ci avrebbe
impiegato meno tempo.
Non
era sicura di voler morire su quell’isola, non era sicura di
niente.
Razionalmente
avrebbe potuto cercare un medico sull’isola e magari
cavarsela
ancora per un po’. L’ istinto le diceva di seguire
quei due
soggetti assurdi e rischiare, non che credesse nel destino, ma si
erano trovati nel posto giusto al momento giusto, quante
probabilità
potevano esserci che le capitasse una cosa del genere? Una su un
milione forse? No,
probabilmente
erano
molte meno.
Sentì
il cuore accelerare i battiti, una strana sensazione le invase la
bocca dello stomaco. Aveva voglia di correre.
“Sai
che vuoi farlo...”
scosse la
testa. Stava impazzendo di sicuro.
“Da
quando ti tiri indietro?” non
si stava tirando indietro. Era solo buonsenso.
“Sono
pirati, avranno sicuramente dell’alcool a bordo”
stava cercando di comprarsi da sola. Che cosa stupida.
“Codarda!”
quello no. Il suo orgoglio non glielo avrebbe permesso. Nessuno
poteva darle della codarda,
meno che meno poteva dirselo da sola. E
in un momento di debolezza per di più!
Si
alzò di scatto, una fitta le invase la gamba. Non era sicura
di
quello che stava facendo e razionalmente sapeva che non aveva senso
ma continuare a rimuginarci ne avrebbe avuto ancora meno.
Mezz’ora,
poi sarebbero salpati senza di lei e sapeva già che avrebbe
rimpianto a vita quella decisione. Sarebbe morta? Sarebbe successo in
ogni caso.
Cercò
di ignorare il dolore e raccolse lo zaino da terra per
l’ennesima
volta.
Scese
in fretta dal tetto, passando dalla stessa scala che aveva usato per
salire. Guardando il sole ad occhio e croce doveva avere ancora una
decina di minuti, il porto non era vicino,
ma se avesse corso forse ce l’avrebbe fatta.
Strinse
i denti e corse in mezzo ai vicoli, la strada più veloce per
raggiungere il porto era la strada principale. Corse sul marmo bianco
più veloce di quanto non avesse mai fatto, i muscoli
le bruciavano per lo sforzo
e
il dolore alla gamba stava diventando insopportabile. Non doveva
arrendersi, ormai era una questione personale. Pirati o no. Il peso
che portava sulla schiena la sbilanciava pericolosamente ad ogni
passo, come se essere zoppa non fosse già un problema, ma
non
avrebbe mai rinunciato a zaino e spada.
Tagliò
la strada ad una vecchietta che la riempì di insulti, ma il
cuore le
batteva nelle orecchie talmente forte che non se ne accorse.
Le
edifici le sfrecciavano accanto come un’unica macchia gialla.
In
lontananza si vedeva la spiaggia, bianca come poche altre. Faceva
caldo, il sudore le appiccicava la frangia alla fronte coprendole gli
occhi.
Si
morse un labbro per non pensare al dolore. La pressione iniziava a
scenderle, la vista iniziava ad offuscarsi.
Inciampò
più volte e dovette metterci tutto il suo impegno per non
cadere.
Faticava a respirare, gola e polmoni le bruciavano. Ormai ne era
sicura, se non ci avessero pensato i pirati o la ferita,
l’avrebbe
uccisa un infarto.
Correva
a testa basta, con gli occhi chiusi per conservare un minimo le
energie e si accorse di essere sulla spiaggia solo quando
sentì la
sabbia sotto i piedi. Le mancava poco, un ultimo sforzo.
Il
molo era a pochi metri, ma della barca neanche l’ombra. Una
strana
sensazione le attraversò lo stomaco. Smise di correre. Le
bastarono
pochi passi per raggiungere la passerella di legno. Davanti a lei
c’era solo l’orizzonte, vuoto e piatto come sempre.
Si
accasciò sulle ginocchia, ogni respiro le costò
uno sforzo immane.
Era arrivata tardi, nonostante la corsa e tutto il resto non ce
l’aveva fatta, aveva fallito di nuovo.
Sentì
le lacrime pungerle gli occhi ma non fecero in tempo a
rigarle le guance. Sentì le energie che abbandonavano il suo
inutile
corpo, l’ultimo pensiero che le attraversò la
mente fu che con
tutti le ipotesi che aveva fatto, quello era decisamente il modo
peggiore per morire. E poi fu tutto buio.
Ciao a tutti, questa è la prima ff a tema One Piece che
scrivo, spero vi piaccia :3 so che come primo capitolo racconta poco
niente ma nei prossimi se tutto va bene vedremo qualcosa in
più XD fatemi sapere cosa ne pensate! <3
P.S: vorrei ringraziare la mia amica S. che mi ha fatto da beta e che
sopporta i miei tfasi notturni. Ti voglio bene <3
P.P.S: trovate la stessa storia su Wattpad, con lo stesso titolo. Sono
sempre io ma la coerenza non ci piace e ho un altro nome xD
|