Capitolo ventidue
CAPITOLO VENTIDUE
“I desideri si avverano
solo nei sogni”.
Mara Destino.
Ora capisco perché è
così importante non lasciare nemmeno i lacci delle scarpe ai carcerati. Vorrei
tanto poterne sfilare uno, già pronto a strangolarmi.
Vorrei solo morire, il
freddo mi entra dentro e non mi lascia vivere.
Mi vergogno e la mia
mente è molto confusa, non ho risposte per quello che mi sta accadendo.
“Basta… per favore,
basta…” mormoro, nel buio.
Vogliono spezzarmi.
Io ho parlato, ho
parlato troppo… ma non a causa mia, è stata quella puttana! È stata quella…
Una manganellata
interrompe il mio flusso di pensieri e di parole disperate.
Mi raccolgono da terra
e mi portano nella stanza degli interrogatori, dove questa volta assieme a Ramsey
è presente l’anziano sceriffo e pure diverse persone vestite distintamente che
non so riconoscere. Perfetti sconosciuti.
Uno di essi si alza e
mi porge la mano.
“Signor Barley,
piacere, sono Aleksandr Groening, il suo avvocato” si presenta.
Piango e le lacrime mi
offuscano sempre di più la vista. Non sto nemmeno a guardarlo, questo perdente,
tanto ho capito che sono fottuto. Non ho nemmeno capito come si chiama.
“Allora, ex agente
speciale Barley, siamo qui riuniti per prepararla alla prima seduta in
tribunale, che vista la gravità dei suoi gesti e delle denunce nei suoi
confronti è stata anticipata a dopodomani” esordisce lo sceriffo, gelido e
tagliente come sempre.
Singhiozzo e non
rispondo, mentre gli agenti che mi sostengono mi costringono a sedermi al
cospetto della commissione.
“Ha qualcosa da
riferire in questa sede, prima del processo pubblico?” torna a chiedermi.
Io?
Piango.
Che risposte dovrei
avere? Cosa devo riferire? Ripeto da settimane che quella è una pazza, che mi
ha rovinato. Nessuno mi crede.
Perché dovrei
continuare a farlo?
“Allora, signor
Barley?” insiste.
Alcuni sospiri
spazientiti mi fanno comprendere che tutto sta per finire. Chi tace acconsente,
come afferma il detto.
È l’ultima mia
occasione prima del processo in tribunale per gridare che la Stradford mi ha
fottuto, e questa consapevolezza mi dà una carica improvvisa.
“Mi ha incastrato” dico
soltanto.
Questa volta sbuffano
solo Ramsey e lo sceriffo, ormai abituati alla solita manfrina.
“Chi, se può ripetere?”
domanda una voce a me sconosciuta.
“La signorina
Stradford” rispondo, senza farmi problemi.
“E come avrebbe potuto,
sentiamo?”
“Mi ha obbligato a eseguire
quello che mi diceva” mi interrompe un singhiozzo, “mi ha costretto a fare
quello che non volevo” un altro singhiozzo frammenta nuovamente il mio
discorso, “ha mandato a mia moglie un video in cui sono successe cose che lei
mi ha obbligato a compiere…” e mi fermo qui, poiché il mio momento di lucidità
si interrompe con altre copiose lacrime e non ho più voglia di dire altro.
So che la vipera tanto
riuscirà sempre a farla franca, che posso farci? È la mia parola contro la sua,
con la sola differenza che lei può modificare ogni evento a suo piacimento, a
suon di mazzette.
“E’ sicuro di quel che
dice?” incalza ancora la voce.
“Sì”.
Tossicchia lo sceriffo,
richiamando l’attenzione su di sé.
“In realtà, il signor
Barley è molto confuso. La signora da lui chiamata in causa ha già esposto
diverse denunce sul suo stato mentale alterato…”.
Non voglio ascoltare
altro. Il bastardo mi sta dando del matto.
È stata lei, lei, quel
demonio a dirglielo.
“Bastardi” sibilo.
Nonostante la mia sia solo una parola sussurrata tra le lacrime, seppur con
grande decisione, cala un silenzio tombale in tutta l’aula. “E’ stata quella
stronza a dire che tutto quello che ho vissuto… tutto questo inferno… è da me
immaginato… cagna bugiarda…”.
“Adesso basta.
Portatelo di nuovo in cella, isolato” sancisce lo sceriffo.
A quel punto, prima che
gli agenti possano afferrarmi di nuovo, balzo in piedi ed esplodo, gridando con
tutta la voce che mi rimane.
“Non sono pazzo, mi ha
rovinato la vita! Mi drogava, mi costringeva a fare quello che voleva! È lei
che ha contattato quei giornalisti e mi ha obbligato a parlare…”.
Non riesco a
concludere, gli agenti mi spingono con forza e mi mozzano il fiato. È finita.
Mi afferrano e mi
bloccano con le braccia dietro la schiena, e ancora una volta sono impotente
mentre mi portano via, facendo di me quel che vogliono.
Che sapore ha, la
giustizia? Questo qui?
Riprendo a piangere
tenendo la testa curva sul petto, a peso morto.
Mi trascinano di nuovo
in quel buio sotterraneo che chiamano luogo di isolamento, per schiarire le
idee, ma in realtà l’effetto in genere è contrario. Su di me, invece, l’effetto
è proprio quello; sono consapevole di essere innocente, assolutamente sì. E non
smetterò mai di gridarlo, anche se tutti attorno a me sono sordi, offuscati dai
soldi di quella pazza.
Non mi arrenderò.
Moglie mia, fossi qui
con me… quanto ti amo…
So che lei non mi vuole
più vedere e testimonierà contro di me, ma non la giudico colpevole contro di
me. Credo che anche questa volta il destino ci abbia avvicinati; nella
malasorte, entrambi siamo manovrati da altri. Alla fine, siamo stati tutti
delle marionette in mano al perfido gioco dei potenti.
Mi rassereno solo pensando
che tutto si sistemerà, e che non può sempre andare tutto male.
Non so quanto tempo è
passato, quando vengono a prendermi.
“Signor Barley,
l’avvisiamo che l’udienza è stata annullata” mi annuncia una voce decisa.
Annuisco senza alzare
lo sguardo.
“Però deve venire con
noi. Avanti, si alzi”.
Non muovo nemmeno la
testa. Questo posto puzza di muffa e mi fa stare male.
Continuo ad aver perso
tutta la voglia di vivere e vorrei solo suicidarmi, ma non ho nulla a
disposizione per rendere realtà questo mio proposito.
Avverto le braccia che
mi tirano in piedi a forza, poiché io non ho quasi più reazione agli stimoli.
“Non faccia così,
suvvia” si raccomanda la voce, quasi cantilenante.
“Lei è fortunato, sa?
Qualcuno si è mosso per lei. Per aiutarla, per farle del bene. Lei è fortunato,
fortunato…”.
Quest’ultima parola,
ripetuta, fa eco e si disperde nel vuoto e silenzioso ambiente circostante,
prima che la luce inondi il mio campo visivo, costringendomi a strizzare le
palpebre per non restare acciecato. Ed ecco, assieme alla luce, la
consapevolezza che qualcosa si è mosso.
Non può andare sempre
tutto male, vero?
Arriva come un fulmine. A ciel sereno.
G.
Ho già detto tutto.
Me lo ritrovo davanti sotto casa, con il fiato corto. Non
capisco.
“Ehi!” esclama, con il suo solito modo di salutare. Io lo
guardo e batto le palpebre più volte; non ci credo.
“Ehi…” ancora lo fisso, gli occhi spalancati, “…ma che ci fai
qui?”.
Sorride. Arriccia le labbra carnose.
“Passavo, volevo farti un saluto”.
Sto per dirgli che in casa ci sono anche i miei, se vuole
salutare pure loro, poi realizzo che siamo in emergenza e che ognuno dovrebbe
stare a casa propria. Come ha fatto ad affrontare un viaggio di trenta
chilometri, attraverso diversi comuni, ed essere ora al mio cospetto?
“Ma scusa un attimo, dove vivi tu non sanno ancora del
coronavirus e delle regole da rispettare…?”.
Ride, divertito.
“Ho la partita Iva, ancora posso sfruttarla per lavorare e
fare qualche piccola sosta dagli amici”.
Resto interdetto, ma capisco che mi cela qualcosa. Una vocina
mi suggerisce di non dirgli di entrare in casa, chissà dove è stato e con chi.
Ma soprattutto non voglio che i miei lo distraggano. È venuto per farmi un
saluto, no? Allora che saluti me.
“Ti va una passeggiata nel parchetto?” mi viene spontaneo
chiedergli, a questo punto, come se fosse la domanda più naturale di questo
mondo.
Lui non perde il sorriso.
“Direi di sì”.
“Basta che non duri troppo, sai, se no sono casini” aggiunge,
sfilando dalla tasca dei jeans un plico di autocertificazioni tutte
accartocciate. È il mio turno di ridere.
“Tranquillo, solo il giusto tempo per fare due chiacchiere e
scambiarci un saluto. Mantenendo la distanza di almeno un metro, naturalmente”.
Ride ancora.
“Ci sto!”
Il bello di avere un parco privato unito al giardino è che
nessuno può romperti il cazzo. Ho imparato, oltre a sistemare libri in modo
metodico, che una corsa all’aria aperta e in solitaria in quello che considero
giardino è rigenerante.
Sono appunto nel mio giardino, no? Nessuno può mandarmi in casa.
Almeno per una volta questo grande spazio verde acquista un
senso pratico, oltre a quello puramente estetico.
Camminiamo l’uno a fianco dell’altro, il cielo che si tinge
di rosso; il tramonto è impellente. Incombe su di noi, come se ci fossimo
calati in un dipinto. L’atmosfera è da favola e quasi non ci credo.
Lui mi guarda e non distoglie gli occhi da me nemmeno per un
istante, è evidente che prova piacere a essere qui.
“Quindi?” mi chiede. Quando non sa cosa dire, dice così. Che
simpatico mattacchione.
“Come va, tutto a posto?” replico io. Sorride, felice. È
contento che la sua sollecitazione abbia avuto risposta. O, meglio, abbia
suscitato una nuova domanda.
“Tutto bene a casa. Anche te, mi sembra”.
“Sì, tutto ok”.
“Bene, dai”.
Cala di nuovo il silenzio.
“I bengalini?”
Sorrido a mia volta.
“Bene anche loro”.
“Hanno proliferato?”
“Oh, no. Non fanno niente”.
“Peccato”.
Cade di nuovo il discorso mentre continuiamo a camminare,
separati da un solo metro, sempre affiancati. La fila di piante le cui gemme rigonfie
stanno sbocciando è quasi conclusa, l’abbiamo percorsa tutta a piedi;
nonostante il parco sia abbastanza vasto, è pur sempre una sorta di
prolungamento del giardino, curato e ordinato.
“Senti, Alex” si fa forza lui, notando che il tempo scorre
inesorabile, “se sono venuto fin qui, è anche per altro”.
“Dimmi tutto” replico, incuriosito.
“Io, be’… volevo vederti. Stare senza te… mi ha fatto male.
Avevo bisogno di venire a vederti”.
“Ah”.
Riesco a dire solo questo. I suoi occhi sono tutto un
balenare di riflessi colorati, con il tramonto che si staglia davanti a noi. Il
silenzio ci avvolge, siamo in aperta campagna, soli con le nostre semplici
parole.
Casa mia è a duecento metri. Il resto è piante, grano, fiori.
“Mi piaci, Alex” afferma. È una di quelle affermazioni che
non ti aspetti… di quelle che sono come fulmini a ciel sereno.
G è stato una testa di cazzo, non si è mai fatto sentire e
ora eccolo qui, che spara parole così pesanti… veri macigni.
“Anche a me, piaci” borbotto.
All’improvviso il metro di distanza fa noi si riduce e le sue
mani afferrano con forza le mie. Le stringe forte. Avverto il suo alito, il
viso ormai a pochi centimetri da me.
“No!”
Il mio no perentorio lo ferma.
“Non possiamo”.
Giustamente.
“Perché no? Siamo soli, qui. Questo momento è nostro. Nessuno
può giudicarci. So che ti piaccio, mi hai sempre fatto la ruota, e il tuo
fascino mi ha intrigato. Ti voglio, Alex; ora, qui, sempre”. Ricordo amaramente
Alice e Mario, assieme alle loro parole. G è sposato come loro e ha una famiglia
che l’aspetta. Non me la sento più di essere il toy boy di turno, il compagno
di scopate quando non ne puoi proprio più.
Lui, come loro, sceglierà sempre la famiglia, come è giusto
che sia.
Eppure, carpe diem; cogli l’attimo! Ora io potrei cogliere G,
le sue labbra, il suo corpo. È tutto qui per me. So che si lascerà fare ogni
cosa, ed io farei altrettanto. Eppure…
“Anche io ti amo, G. Ma non è giusto, sai?” gli spiego,
guardandolo con amarezza. Lui ancora è titubante, le sue labbra fremono, come
se si aspettassero qualcosa.
Ma… quel tremito alla fine si tramuta in una sorta di paura,
come se credesse di aver commesso un passo falso. All’improvviso abbassa lo
sguardo e interrompe l’attimo di silenzio teso.
“Hai ragione” dice, annuendo anche con la testa, con fare
triste, “penso che sia ora di andare, si è fatto tardi”. Si tasta la tasca che
contiene le autocertificazioni a mo’ di scusa, ma sappiamo entrambi che non è
vero.
Mi dà le spalle e torna indietro a passo sostenuto.
A quel punto, ogni mia certezza crolla e mi ritrovo a
rincorrerlo, dicendogli… non so cosa. La mia voce si fa sbiadita, bassa,
incolore, finché nella certezza che lui non mi stia ascoltando inizio a urlare,
cazzo, deve sentirmi, deve ascoltare quel che ho da dire, prima di andarsene…
G però è sempre più lontano, per quanto io cammini spedito,
egli mi distanzia.
Grido finché il respiro mi si smorza in gola e il mondo
attorno a me si fa buio…
…buio come una camera da letto, in piena notte.
“Alex? Tutto bene?” E’ la voce di mia madre che mi sveglia,
vedo la sua sagoma ben piantata nel mezzo della porta della stanza, la luce del
corridoio a delinearne la forma.
“Sì, mamma” annuisco, “tutto a posto. Era solo un incubo”.
Lei se ne va, rassicurata, e poco dopo spegne anche la luce
del corridoio.
Resto solo e all’improvviso, ancora avvolto dal buio, avverto
quanto il mio cuore stia battendo forte nel petto. Realizzo che nemmeno in
sogno sono riuscito a scoparmi G. Tra l’altro era pure un bellissimo sogno,
nitido come pochi. Così bello da tramutarsi presto in un incubo.
Adesso però mi sento impazzire e mi manca il fiato, credo di
avere una crisi di panico. Anche la gola è secca e mi fa male, chissà quanto ho
brontolato nel sonno, prima del grido finale, sperando di non aver detto cose
imbarazzanti.
Questo significa solo una cosa; sto perdendo il senno.
Davvero.
Non mi era mai capitata una cosa così.
In realtà, tra virus corona, quarantena in casa, libri
spostati senza un domani e fisse e incubi riguardanti un irraggiungibile G,
semplicemente impazzisco.
A lui non frega niente di me, come al mondo intero, devo
farmene una ragione. Sono solo una merda. Sono solo un giocattolo sessuale che
tutti gli sposati hanno usato come svago. Sono solo… argh! Non so.
So solo che adesso mi
serve una boccata d’aria fresca, oppure muoio qui… mi alzo dal letto con la
convinzione di andare in giardino, ma… niente, non capisco più nulla. La notte
e il risveglio traumatico hanno la forza di modificare la realtà e di renderla
così grave da risultare insostenibile.
Mi muovo per casa senza quasi accorgermene; desidero cambiare
qualcosa nella mia vita, ora e per sempre, questo è tutto ciò che adesso mi è
chiaro.
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