Capitolo ventitrè
CAPITOLO VENTITRE’
“Le lezioni della
delusione, dell’umiliazione e dell’errore
colpiscono più a fondo
di quelle di mille maestri”.
Johann Heinrich Fussli.
Se credevo che non
potesse andare sempre tutto male, be’, mi sbagliavo. Perché nella vita non c’è
mai limite al peggio.
in da quando sono
tornato per qualche minuto all’aria aperta sono stato folgorato da una
spiacevole sensazione, che non si è rivelata errata.
Mi hanno costretto a
sedermi sul sedile posteriore di una volante e mi hanno scaricato davanti alla
clinica. Sì, proprio quella clinica.
L’infermiere che mi ha
aperto la porta l’ultima volta in cui mi sono recato a fare reclamo è stato
colui che mi ha preso in consegna. Non ho nemmeno provato a urlare, né a
ribellarmi; il mio destino è scritto.
Adesso sono qui, seduto
nello studio di Morrow, con la certezza di aver perso tutto. È stato come un
cerchio che si chiude, non potevo sfuggire a questo.
Con rassegnazione,
aspetto che l’uomo mi dia udienza. Nel frattempo, due infermieri silenziosi e
dall’aria nervosa controllano che la camicia di forza non si allenti.
“Buongiorno, agente
speciale” fa il suo esordio il maturo psicoanalista, non appena fa il suo
ingresso nello studio, “anzi, mi scusi! Paziente Barley”.
Ghigna, mentre si siede
davanti a me. Fa cenno con la testa ai due infermieri, li manda via.
Chiudono la porta
dall’esterno, mentre quello che fino a poco tempo fa era un indiziato si
trasforma in inquisitore.
“Piaciuta la sorpresa?”
Resto ancora in
silenzio.
“Dai, su con il morale.
D’altronde, noi della clinica l’abbiamo salvata da un lungo processo in
tribunale, che rigorosamente le avrebbe dato torto”.
“Non credo che sia
finita tanto meglio, dottore” replico, parlando per la prima volta. E lo faccio
con rassegnazione e impotenza. Morrow infatti sorride di nuovo.
Lui, l’uomo di pietra,
eccolo finalmente divertito.
“No, ha ragione” smette
di sorridere e torna serio. “Ha una terapia da affrontare, ora”.
“Con farmaci
sperimentali provenienti da cliniche private di altri Stati?”
Questa volta, lo
psicoanalista si regala una risatina profonda e ispirata.
“Sa che lei è pure
simpatico, se si impegna? È un aspetto del suo carattere che non avevo mai
notato” afferma, poi abbassa la voce con effetto scenico, “comunque, sì, sarà
proprio così”.
“Non penso proprio”
salto su io, sempre più nervoso, “qualcuno verrà a tirarmi fuori da questo buco
di merda prima ancora che voi allunghiate un dito verso di me”.
Morrow torna
imperturbabile, come suo solito.
“Questa è solo una sua
illusione. La sua mente le sta suggerendo ciò sulla base del fatto che ancora spera
di salvarsi, ma come di certo sa, la speranza è l’ultima a morire; fa parte
dell’essere umano”. Breve pausa, mentre giocherella assorto con una penna sulla
scrivania. “Ciò non fa una piega, ma nessuno la salverà. La Stradford, o
signorina, come tanto voi tirapiedi adorate chiamarla, l’ha scaricata senza
pietà, agente. Le ha insegnato dapprima la sua manfrina, poi semplicemente l’ha
cestinata”.
“Era solo una matta,
quella”.
“Oh, sicuro; in questa
storia, i matti sono tanti” Morrow torna a sorridere, sornione, “ma le
garantisco che l’unico a diventare pazzo per davvero sarà lei”.
Resto in silenzio, di
nuovo affondato dalle sue parole cariche di disprezzo e di pessimismo.
“Un’ultima cosa, prima
di iniziare la terapia. Ha presente il paziente Brown? Quell’uomo che era qui,
proprio al suo posto, quando lei è venuto a farci visita l’ultima volta?”
Annuisco.
“Be’, lui era l’uomo
che l’ha preceduta. Non ci crederà, ma abbiamo una ventina di persone che hanno
tentato la sorte, prima del suo tentativo. Se ha presente quel bel plico di
testimonianze e di indagini che le sono stati gentilmente recapitati dalla mia
ex infermiera, ricorderà tanti nomi. Quei nomi può trovarli nella lista dei
nostri attuali pazienti”.
E così dicendo, ghigna.
Avverto all’improvviso tutta la tensione della situazione, uscendo da quella
strana sensazione di impotenza.
Quindi questo pazzo mi
aveva fato vedere quell’uomo…?
“Le ho appunto fatto
vedere Brown per mostrarle in anteprima quello che le accadrà. Ora così ha già
un’idea ben precisa di come si ridurrà, anche se credo fermamente che per lei
sarà molto peggio”. Do uno strattone deciso alla camicia di forza, che però mi
contiene egregiamente.
“Le dico questo solo
per rassicurarla, in un certo senso; quella che ora l’ha condannata ha messo
nei guai tanti altri, tutta carne da macello. La signorina Stradford è una dama
ricchissima e dalle grandi ambizioni, ha sacrificato molte persone. Persone
come lei, mio caro ex agente, tutte di estrazione povera. Persone che non
potevano difendersi dalla forza della sua saccoccia piena di denaro sonante,
condannate per sempre all’infelicità” sospira, ora, teatralmente, “ma
d’altronde cosa ci dobbiamo aspettare, da una donna che ha sacrificato il suo
stesso padre, pur di riuscire a creare una forzatura nella nostra clinica, e
riuscire così a ficcanasare?”
Sussulto.
“Suo… padre…?”. Ma che
cazzo sta dicendo, questo? Qui siamo proprio fuori di testa. Morrow è un pazzo,
un pallone gonfiato che non sa quello che dice.
Devo scappare da qui…
devo…
“Suo padre, sì,
quell’onorevole senatore per cui sta combattendo tanto. Crede che un
personaggio illustre e ricco sfondato fosse destinato a questo umile posto,
nonostante avesse avuto una crisi di nervi considerevole e improvvisa? E,
soprattutto, che questa improvvisa crisi sia frutto del caso? E, ancor più
importante, perché è giunto qui così tanto frettolosamente?”
“Perché?” trovo il
coraggio di chiedere, e per un solo istante mi dimentico di quel che sta per
accadere. Non avverto più la spada di Damocle sul mio collo, tagliente e
affilata, perché mi sento finalmente sulla pista giusta per scoprire tutto
quello per cui ho combattuto, fino a meritarmi questa condanna. Fino a perdere
tutto, dalla famiglia alla dignità.
“Perché sua figlia
voleva che noi l’ammazzassimo non appena fossimo riusciti a scoprire quel che
sapeva sul nostro conto” torna a ghignare il mio interlocutore, soddisfatto
della mia domanda, “sua figlia d’altronde sogna di acquistare diverse industrie
farmaceutiche strettamente legate alla nostra clinica. Questo le garantirebbe
il monopolio di una buona parte del redditizio traffico mondiale dei farmaci.
Per farci crollare ha lasciato che lo uccidessimo, così da fare la parte della
giovane orfanella al cospetto dell’opinione pubblica, quella il cui padre è
stato torturato prima di morire con un farmaco sperimentale in circolo nel
sistema cardiovascolare. Senza contare il ricco patrimonio economico che,
grazie al suo decesso, ha ereditato. E noi siamo stati gli unici ad averla
accontentata…”.
“Perché l’avete ucciso,
allora?” è il mio turno di chiedere. “Mi crede scemo anche lei, vero? La
Stradford conta di farvi crollare diventando ancora più ricca e facendovi
uccidere il padre, intessendo trame per riuscire a far svolgere una indagine
pubblica per screditarvi e far crollare il sistema, per poi impossessarsene
lei? Mi faccia il piacere”.
“L’abbiamo ucciso perché
ci faceva piacere. A noi servono cavie umane e una vale l’altra. E… non mi
ponga domande alle quali ho già risposto”.
Morrow batte la mano
destra sulla scrivania e si scompone, come se si stesse per alzare in piedi.
“Se tutto questo è
vero, vi distruggerà. In qualche modo, tutto il marcio che si nasconde nella
vostra schifosa lotta emergerà”. Scrolla le spalle.
“Guardi, noi
quell’anziano prima di ucciderlo l’abbiamo pure sottoposto a un breve ma
efficace interrogatorio, per scoprire cosa e quanto sapeva, sia lui e sia la
figlia. Siamo certi che, nonostante i soldi, la signorina non abbia i mezzi
adeguati per scalfirci minimamente; per ogni amico importante che ha, noi ne
abbiamo dieci ancora più influenti. Quindi potete mettervi tutti l’animo in pace,
e d’altronde lei stessa non ha nobili intenti. E lei, carissimo paziente
Barley, presto potrà riposare in pace”.
Do un altro strattone
alla camicia di forza, che sembra di ferro.
“Non penso proprio”
mormoro, con una risolutezza sorprendente.
“Be’, come meglio
crede, però le dico già che la prima seduta della terapia appositamente
studiata per il suo caso prevede un passaggio molto infido. Magari le farà
bene, e starà molto meglio, ma forse potrà anche farle male!”
Cerco di alzarmi in
piedi. Voglio fuggire, questo posto orribile è come l’inferno.
Morrow capisce le mie
intenzioni e mi si avvicina, costringendomi a rimettermi seduto e composto con
la forza. Proprio come l’avevo visto fare con Brown. Chissà se spintonerà anche
me, tra poco…
“Paziente Barley, tra
pochi minuti credo che sarà tutto finito. La sua coscienza sarà in pace” dice,
candidamente, allungando poi un braccio per suonare il campanellino posizionato
sulla scrivania; il segnale per l’infermiere.
“Vorrei solo che
sapesse che lei in questo conflitto è l’unico innocente, in fondo, l’unica
vittima del sistema; per questo ho ritenuto opportuno un ultimo atto di
clemenza, raccontandole come stanno realmente le cose. Mi dispiace, davvero, mi
dispiace” ferma con forza il mio ennesimo strattone, spingendomi contro la
parete retrostante, “credevo fosse giusto spendere qualche parola per spiegarle
la situazione e metterla in chiaro, immaginando la sua confusione”.
Smette di parlarmi
appena l’infermiere nerboruto fa irruzione nello studio.
“Presto, portatelo
nell’ambulatorio uno. Subito. Stendetelo sul lettino e fissatelo per bene, tra
poco vi raggiungo con tutto l’occorrente” ordina poi perentorio anche all’altro
personaggio in camice che si avventa su di me come un avvoltoio.
I due inservienti mi
afferrano saldamente e mi spintonano, ormai in lacrime e impotente, verso
quella che pare l’ultima parte del mio triste calvario.
Mi hanno saldamente
legato mani e piedi, dopo che mi hanno tolto la camicia di forza. Mi hanno
tagliato i vestiti con un cutter e poi me li hanno letteralmente strappati di
dosso, lasciandomi solo con le mutande.
Per mettermi a tacere
mi hanno infilato un aggeggio in bocca, sembra una palla di gomma, che mi
soffoca se provo a lamentarmi.
Sono immobile e in
silenzio, solo le lacrime a imbrattare il mio viso e a impiastricciare i miei
poveri occhi.
Quando arriva Morrow,
si sofferma ad appoggiare una siringa piena di liquido prima di avvicinarsi a
me e di strapparmi l’oggetto dalla bocca.
Riprendo fiato,
urlando.
Lui si china su di me e
mi sferra un sonoro e doloroso ceffone.
“Gliel’ho detto, mi
dispiace; per favore, stia calmo e non peggiori la situazione” dice, poi
scambia giusto due rapide parole con un altro figuro a me ignoto, appena giunto
nell’ambulatorio. “Questo è il dottor Mallox, ex primario di neurologia
dell’ospedale pubblico di New York. Sarà lui a portare avanti questa prima,
importante seduta”.
Mugugno e urlo di nuovo
con tutta la forza che mi rimane, lui però non fa una piega.
“Arrivederci a mai più,
ex agente speciale Barley” mi dice, prima di lasciare l’ambulatorio. Nel
frattempo, l’omaccione avvicina al lettino un macchinario strano, sembra una
radio, appoggiato su un tavolino con le ruote. A suo fianco, quelle che
sembrano cuffie.
“L’elettroshock…”
mugugno, atterrito.
Mallox indossa la
mascherina chirurgica e non posso notare la sua espressione.
“Sì, certo” si limita
ad affermare.
“Io… cazzo, mi liberi!
Sa che… sono una vittima, io non posso…”.
Mi mette la cuffia
sulle tempie, poi avverto la sua pressione sui due lobi opposti del cranio.
“Per questa seduta, per
tranquillizzarla, vediamo di fare un piccolo intervento sui suoi neuroni e sul
suo sistema nervoso” dice il medico senza nemmeno darmi un minimo d’ascolto.
“Per favore, mi liberi,
cazzo! Non faccia una stronzata, mi avrà per sempre sulla coscienza…!”
“I miei studi sono più
importanti della sua umile vita” sono sicuro che stia sorridendo, mentre mi
dice questo, “non mi è mai stato concesso fino ad ora di portarli avanti. Pensi
positivo; i risultati di questo intervento le permetteranno di essere un
esempio e i suoi sviluppi saranno utili per la medicina mondiale; aiuteranno a
breve tante persone pazze come lei”.
Ok, anche questo è
totalmente fuori. Sudo freddo, urlo, strepito, prego, piango; niente spezza la
follia di questi uomini che ormai mi hanno condannato.
Entrambi gli infermieri
si affacciano su di me e riempiono il mio campo visivo, mentre quello che mi ha
accolto mi inietta qualcosa nel sangue, pungendomi nell’avambraccio destro.
“Presto il suo cervello
le darà pace. Avverte ancora tutta quella confusione, provocata dalla realtà
che la sua mente distorce?” mi chiede.
“Non sono pazzo!”
grido.
Di fronte al mio
ennesimo urlo, stringe gli strumenti attorno al mio cranio e si prepara alla
prima scossa, costringendomi a mordere l’aggeggio utile a evitare la perdita
della lingua. L’ultima cosa che vedo è il bianco accecante delle pareti di
questo laboratorio, dove tutto è diabolico.
La scossa giunge
repentina, mi getta all’improvviso nel buio più completo, poi… mi spengo,
semplicemente. Per sempre.
Che fine del cazzo, vero? Povero James Barley. Certo che
avrei anche potuto dargli un lieto fine, però immaginando ora questa trama non
avrei potuto fare molto di meglio.
Nemmeno il mio James era innocente, poiché si è fidato
troppo, e nella vita non bisogna mai fidarsi di nessuno. Fidarsi è bene, ma non
fidarsi è meglio, recita un famigerato detto popolare.
Nel frattempo cammino nel buio della campagna, la gente dorme
ed io sono fuggito di soppiatto di casa, come se fossi ancora un adolescente in
preda a chissà quale crisi ormonale. L’ultimo sogno ha distrutto il mio morale
e questa vita monotona mi ha sfinito, spero che tutto si concluda in fretta.
Alla fine giungo al mio obiettivo con il sudore che già cola
lungo la mia schiena, nonostante sia notte e sia aprile fa già abbastanza
caldo. Le rotaie della ferrovia sembrano attendermi.
Questa è la mia ultima scelta, quella finale.
Mi sono rotto il cazzo di tutto e di tutti, ormai pure le
storie che immagino finiscono di merda. Tanto vale che anche io faccia la
stessa fine.
Mi accoccolo tra i binari con gli occhi che mi bruciano dalla
stanchezza e dal sonno, stremato e senza più forze fisiche e mentali.
Ehi… ma cosa sto facendo?!
Mi riprendo dopo un po’, non so quanto. Sono ancora in mezzo
a quei binari. Nessun treno è passato, niente di niente, mi avvolge solo il
silenzio della notte.
Probabilmente, e per fortuna, il coronavirus ha fermato tutto
il traffico notturno.
Mi rialzo da terra e passo le mani lungo il mio pigiama, con
il corpo intirizzito e dolorante. È ora di tornare a casa.
Penso all’improvviso ai miei genitori, non sapendo se si sono
accorti o meno della mia fuga. Ai miei animali, alle mie piante che a casa
attendono solo me. Stavo facendo una cazzata perché un coglione non mi fila
nemmeno di un soffio!
Realizzo come stavo per buttare a puttane tutta la mia
giovane vita per la più grande stronzata del mondo. Non me la prendo molto con
me stesso in realtà, sono troppo stanco e provato mentalmente per farlo,
tuttavia riprendo la mia marcia verso casa con uno sguardo diverso rivolto alla
realtà. Ho tutto e non mi manca niente, arriverà anche il resto. G non è niente
per me ed io non sono niente per lui; ci compensiamo, quindi.
Ho delle priorità e dei sogni e non saranno il mio egoismo
infantile o il virus a portarmeli via. La mia vita… è unica.
Unica.
Un unico, importante, prezioso dono che va oltre tutto quello
che posso ricevere dal prossimo, perché non posso pretendere di essere amato da
altri quando io stesso non mi rispetto e mi umilio fino ad avere incubi e pensare al suicidio.
Mentre cammino verso casa, solo nel bel mezzo di un grande
campo di foraggio appena tagliato, avverto il primo e tenue canto dei grilli e
delle raganelle, con la mente che non si ferma più, fino a comprendere come
questo, proprio questo qui, sia per me un nuovo punto d’inizio.
So che quando ho iniziato a narrare queste stronzate ho
pensato e immortalato le medesime parole, ma questa volta davvero, ho capito.
Ho appreso la lezione.
Da domattina, giuro, sarò un Alex migliore.
Appena rientro in casa, ritrovo i miei genitori in piedi in
cucina, con la luce accesa.
“Oddio, Alex, cosa hai combinato?! Dove sei stato?” domanda
subito mia madre, in apprensione. Anche mio padre lo è.
“Avevo solo bisogno di un po’ di aria fresca” rispondo.
I loro sguardi interrogativi e turbati non si distolgono da
me, almeno fin quando non abbraccio prima mamma e poi il babbo. Non l’ho mai
fatto prima d’ora. Tra noi, solo freddezza e distanza.
Ma, ora, tutto cambia. Lo so, è una notte importante, e
Jovanotti di certo ci canterebbe sopra E’
la notte dei desideri…
Domani chiamerò ancora mio padre con il soprannome di
dinosauro, e tornerò distante da mia madre. Forse no. Forse sì. Ma di certo
avrò una certezza, ovvero quella di saper apprezzare quel che la vita mi ha
dato; ho i miei genitori qui, nonostante i loro mille e più difetti, e tanto
affetto, soprattutto da riservare a me stesso.
Ancora tanto mi attende da vivere e G sarà presto un ricordo,
perché verrà un giorno in cui mi innamorerò e sarò ricambiato con un calore
vero, esemplare… e quel giorno vorrò viverlo, perché quello sarà il mio giorno.
Niente e nessuno potrà portarmelo via, nemmeno me stesso o le
mie paranoie.
Lotterò per questo. Fino in fondo.
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