La leonessa di Francia.

di _Agrifoglio_
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Annibale-attraversa-le-Alpi
 
Sulle orme di Annibale
 
Castello di Vincennes, fine luglio 1800
 
Il cupo castello di Vincennes aveva sempre avuto un effetto opprimente su di lei che pure non era mai stata una persona facilmente suggestionabile e preda degli stati d’animo. Ciò che era venuta a fare, di certo, non la rendeva felice e, tuttavia, aveva insistito per portare personalmente a termine l’incarico.
La porta si aprì e l’illustre prigioniero apparve al cospetto di lei. L’insopportabile ghigno che, come sempre, gli solcava il volto non le agevolava le cose, ma ella decise di fare finta di niente, per non disonorare la divisa che indossava e per non dargliela vinta.
– Duca d’Orléans, siete libero, potete andare.
– Cosa?! – ribatté, stupito, lui – Mi rimettere in libertà?!
– Avete udito bene, Duca. Il Conte Jules de Polignac è stato ucciso da ignoti e l’accusa di adulterio contro di Voi è caduta. Il processo non si terrà. Siete libero di andare.
Il volto del Duca d’Orléans fu attraversato da un’espressione di stupore così viva e autentica da comunicare la meraviglia a Oscar che, fino a quel momento, lo aveva ritenuto, senza alcuna ombra di dubbio, il mandante del delitto. Subito dopo, però, l’uomo proruppe in un’irritante risata che diede al Comandate la voglia di afferrarlo per il giustacuore e di fargli abbandonare la fortezza dalla finestra anziché dalla porta.
– Per il buon nome della famiglia reale di cui fate parte, non siete stato formalmente accusato di alto tradimento – proseguì Oscar, senza far trasparire la minima emozione – ma resterete confinato nel Palais Royal fino a nuovo ordine della Regina. RicordateVi che le lettere che scambiaste col Conte di Compiègne e col Generale Bonaparte sono integre e ben custodite, pronte a inchiodarVi alle Vostre responsabilità al prossimo passo falso che commetterete. Se sbaglierete ancora, non ci saranno sconti né riguardi per Voi, siamo intesi?!
– Siamo intesi – scandì lui, con voce sardonica – Verreste a bere del cognac con me, per festeggiare la mia liberazione? O preferireste del rosolio? – aggiunse, con atteggiamento provocatorio, accennando al liquore leggero, preferito dalle donne.
– Duca d’Orléans, Vi avverto, non tirate troppo la corda!
– Va bene, niente cognac e niente rosolio, si vede che proprio non Vi vado a genio. Festeggerò da solo. Adesso, però, vogliate scusarmi, devo dare disposizioni ai valletti affinché mi preparino i bagagli.
Si allontanò con passo elegante, facendo risuonare per le volte dell’antica fortezza la sua fastidiosa risata.
 
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Palais Royal, fine luglio 1800
 
Il Duca d’Orléans fece scivolare le dita sul piano della scrivania, soffermandosi a osservare le piccole strisce parallele marroni che si erano formate sulla superficie grigiastra e la lieve patina di polvere che gli era rimasta attaccata ai polpastrelli. Sette mesi di abbandono avevano sortito i loro effetti ed egli detestava la sporcizia.
D’un tratto, l’attenzione di lui fu richiamata da un leggero movimento di una delle tende. Mise, d’istinto, la mano sull’elsa della spada e, con voce perentoria, esclamò:
– Chi va là?
Pochi attimi dopo, la tenda si scostò e ne uscì, con flemma e nonchalance, il Conte di Compiègne.
– Cosa ci fate lì, nascosto come un topo e chi Vi ha fatto entrare? – domandò il Duca.
– Sul mio capo, pendono ancora le accuse di alto tradimento, di sottrazione di documenti di Stato dal Cabinet Doré e di rapimento dei marmocchi de Jarjayes et de Lille. Non ci sono stati sconti per me – aggiunse il Conte, con voce tagliente – e non posso certo farmi vedere in giro. Quanto a chi mi ha fatto entrare, non è difficile rompere i sigilli e accamparsi in un palazzo vuoto – nel pronunciare queste parole, indicò, con gesto elegante e teatrale, alcune ragnatele che pendevano dalla parete – Da qualche parte, del resto, dovevo pur soggiornare.
– Veniamo, adesso, alla terza e più importante domanda: cosa Vi ha spinto a sfidare tanti capi d’accusa e ordini di cattura, a tornare sul suolo francese e a nasconderVi in casa mia?
– Credete che il Conte Jules de Polignac si sia suicidato? – domandò, sarcasticamente, il Conte di Compiègne.
L’espressione del Duca d’Orléans fu attraversata da un lampo chiarificatore. Adesso, tutta la faccenda gli era diventata comprensibile.
– Vostra moglie deve averVi lasciato senza neanche un soldo e, con me chiuso in fortezza, siete finito completamente sul lastrico… E, poiché il Vostro fascino non faceva più presa sulla Contessa di Compiègne, è toccato al povero Jules di Polignac scendere nell’Ade…
– E a Voi è toccata la libertà… per merito mio…
– Per merito Vostro… e cosa volete in cambio di tanta premura?
– Recuperare il mio status, la vita di prima!
– E sia, ma non sarà gratis. Tornate nel Vostro bel palazzo di Venezia o dove più Vi aggrada, purché mettiate un piede nell’Italia del nord. I piani militari e i disegni espansionistici di Bonaparte si sono, adesso, concentrati lì e Voi sarete i miei occhi, le mie orecchie e la mia voce in terra straniera. Ho finanziato io quell’uomo e Voi dovrete sempre ricordargli che egli agisce per me e non per se stesso. Sarò io il Re di Francia e d’Europa ed è a me che Bonaparte dovrà rendere conto.
 
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Parigi, Palazzo di Nancy, fine luglio 1800
 
André attendeva in uno dei salotti di Palazzo Nancy dove un valletto lo aveva fatto accomodare, in attesa che il padrone di casa rientrasse.
Dopo il ritorno dall’Inghilterra, l’uomo aveva riassunto la sua carica di vice Ministro di Giustizia e, in questa qualità, era andato a consegnare alcuni documenti riservati al Duca di Nancy che era il Governatore della Lorena.
Era lì da circa dieci minuti, quando udì una voce allegra e argentina a lui ben nota. Si alzò, quindi, in piedi per accogliere la Viscontessa de Beauharnais che era entrata nella stanza.
– Conte di Lille! Che sorpresa e che piacere ho provato quando il valletto mi ha riferito che eravate qui! – esclamò la bella signora, accomodandosi sul divano, nel posto accanto a quello di lui.
– Madame de Beauharnais, il piacere è tutto mio – rispose André, con un cortese inchino e un lieve imbarazzo.
– Sono ospite, da qualche giorno, della Duchessa, mia cara amica, ma ora ella non c’è e neppure il Duca… Siamo soli, a quanto pare...  – aggiunse, con voce bassa e tono suadente, mentre agitava le ciglia e atteggiava la bocca a un sorriso a labbra chiuse che ne evidenziava le fossette.
– Per quanto si possa essere soli in un palazzo dove lavorano decine di servitori – replicò André, con gentilezza, ma senza galanteria.
In cuor suo, sperava che di quell’incontro nessuno mai avrebbe parlato a Oscar che, quando si trattava della Viscontessa creola, era assolutamente irrazionale.
– Vedo che Vi hanno già offerto del liquore – proseguì lei, sorridendo ancora e arricciando il naso – ma lasciate che dica alla mia Euphémie di servirVi una tazza di caffè della Martinica! Non me ne separo mai! Lo porto con me anche quando sono ospite in casa d’altri!
– Madame, non Vi disturbate, io…
Joséphine de Beauharnais, però, non accettò dinieghi e chiese alla sua cameriera mulatta di portarle un bricco di caffè.
– Conte di Lille, ho saputo che Vostro suocero, il Generale de Jarjayes, dovrebbe giungere nel Regno di Sardegna a settembre.
– Sì, è così – mentì André, ben ricordando il depistaggio da loro attuato poche settimane prima, quando, durante il ricevimento tenutosi in quello stesso palazzo, avevano fatto credere a Madame de Beauharnais, probabile spia di Napoleone, che il Generale de Jarjayes si sarebbe recato in Italia a settembre anziché ad agosto.
– Io, però, è un po’ che non lo vedo – insistette la donna, agitando graziosamente la testa, in modo da far oscillare gli orecchini di perle e i riccioli castani.
– Mio suocero non è un frequentatore del bel mondo, Madame – si schermì André, sempre più imbarazzato.
Proprio allora, giunse Euphémie, sorreggendo con le mani color ambra un vassoio d’argento con sopra un bricco e due tazzine di porcellana. La Viscontessa decise di versare personalmente il liquido scuro nelle due tazze e, mentre sollevava il bricco d’argento, cinguettò gaiamente:
– Sapete, dalle mie parti, in Martinica, il caffè si prepara molto forte…
Dopo averla zuccherata, gli porse la tazzina e, abbassando le palpebre con studiato imbarazzo, sussurrò:
– Si dice che il nostro caffè è nero come il peccato e dolce come un bacio rubato…
Nel pronunciare queste parole, socchiuse gli occhi nocciola e accostò le labbra a quelle di lui.
André, d’istinto, spostò indietro il capo quel tanto che bastava per evitare il contatto, quando, nel salone, entrò il valletto che ce lo aveva introdotto circa mezz’ora prima.
– Signor Conte, il Duca di Nancy si scusa di averVi fatto attendere così a lungo. Purtroppo, lo hanno trattenuto in Parlamento, ma, ora, egli è rientrato e Vi aspetta nel suo studio. Se avrete la compiacenza di seguirmi, Vi farò strada.
– Non c’è alcun problema – lo rassicurò André.
Si alzò dal divano, fece un rispettoso inchino alla Viscontessa e seguì il valletto, ringraziandolo, dentro di sé, per lo scampato pericolo.
 
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Passo del Gran San Bernardo, fine luglio 1800
 
Napoleone ruotò lo sguardo intorno alla valle e, poi, lo spinse giù, verso il Colle del Gran San Bernardo, inspirando l’aria finissima e pungente delle Alpi. Il cielo, a quelle altezze, era di un blu accesissimo e anche l’aria non era la stessa che si respirava a Parigi, in Egitto o nella natia Corsica.
Il freddo, su quelle vette, era intenso e non perdonava in alcun mese dell’anno. D’istinto, infossò il mento nel collo di pelliccia mentre passava in rassegna gli uomini dell’Armata di Riserva che, avvolti in pastrani, coperte e protezioni di fortuna, marciavano sfiniti, aiutando le bestie da soma a trasportare carriaggi e affusti di cannone, mentre erano tormentati dai mille aghi di un gelo che nessun esercizio fisico era in grado di contrastare.
Il Generale corso guardò compiaciuto la lunga fila serpeggiante dei quarantamila uomini, inerpicata sui valichi alpini e, poi, di nuovo, il Colle del Gran San Bernardo. Un’impresa titanica e gloriosa lo attendeva, simile a quella affrontata, duemila anni prima, dal grande Annibale Barca, il condottiero cartaginese da lui sempre ammirato. Ne aveva studiato le gesta a memoria e quasi se lo vedeva davanti mentre sfidava le rocce aguzze e i ghiacciai perenni in groppa al suo cavallo o a Surus, l’elefante siriano. Al pensiero che il glorioso Generale era passato da lì, da quegli stessi valichi, si sentiva attraversare, pervadere e possedere da un’eccitazione intensissima, di quelle che nemmeno Joséphine riusciva a trasmettergli.
Serrò le mani sulle redini e si impose il ritorno alla realtà. Non aveva con sé trentasette elefanti da condurre in Italia attraverso stretti e pericolanti sentieri alpini, ma era, pur sempre, responsabile dei carri e dell’artiglieria pesante e ogni singolo passo era a rischio frana o valanga. Trasportare i cannoni e i loro affusti per i passi di montagna era un’impresa che aveva dell’incredibile e che, tuttavia, doveva portare a termine felicemente, perché ogni singolo pezzo era prezioso e potenzialmente decisivo per il buon esito della seconda Campagna d’Italia. Senza contare, poi, il morale dei soldati che doveva tenere alto ad ogni costo, malgrado il freddo, la fame e gli sforzi sovrumani che avevano già causato numerose perdite, perché un esercito avvilito è un esercito, già in partenza, sconfitto a metà. Non era quello il momento dei sogni di gloria.
La marcia proseguiva e la notte si avvicinava e, con quella, un riposo breve e spesso scomodo per i soldati. Napoleone li rivedeva sfiniti nei bivacchi mentre ingurgitavano con avidità il rancio senza neppure togliersi i guanti sdruciti o le strisce di stoffa lisa che ne facevano le veci o mentre protendevano le mani magre e intirizzite, massacrate dai geloni, verso i fuochi sparsi per l’accampamento. Per lui e per gli ufficiali superiori, invece, un giaciglio in un capanno di legno e una zuppa o uno stufato si trovavano sempre.
Quella notte, però, il reparto nel quale viaggiava Napoleone era giunto in prossimità dell’Ospizio del Gran San Bernardo, un rifugio per viandanti gestito da monaci che avevano come missione di rifocillare i viaggiatori e di soccorrere quanti, finiti vittime di frane, valanghe, briganti o, più semplicemente, della perdita del sentiero o del tempo avverso, trovavano nei religiosi e nei loro valorosi cani l’ultimo baluardo contro la disperazione.
I cani dei monaci, massicci molossidi a pelo lungo, dal fisico possente e dal temperamento mite, erano il risultato di secoli di incroci fra animali, di varia razza o senza razza, allevati dalla gente di montagna. Da loro, sarebbero derivati gli odierni San Bernardo.
Nel branco, vi era anche Barry, un giovane esemplare nato in quello stesso 1800, che sarebbe passato alla storia per il salvataggio di quaranta persone. Andato in pensione dopo dodici anni di onorato servizio, il molosside fu trasferito a Berna, dove morì di vecchiaia all’età di quattordici anni. Il corpo imbalsamato di quell’antenato dei San Bernardo è esposto nel museo della città svizzera.
I monaci ospitarono i soldati, come avevano già fatto, nelle notti precedenti, con i reparti giunti prima e come avrebbero fatto, nei giorni a venire, con chi ancora doveva arrivare e li sfamarono con pane, carne, uova, formaggio e minestra. Li scaldarono con robusti liquori di montagna, col fuoco dei camini e facendoli dormire in mezzo ai loro cani.
I soldati napoleonici, con i loro racconti aventi come protagonisti quei cani forti e generosi, contribuirono alla diffusione della fama della razza.
 
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Cani-San-Bernardo
 
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Forte di Bard, inizio agosto 1800
 
Dopo avere lasciato l’Ospizio del Gran San Bernardo, la marcia dell’Armata di Riserva proseguì per decine di miglia, finché, superata la città di Aosta e costeggiando la Dora Baltea, il reparto in cui viaggiava Napoleone giunse in prossimità di una valle che si stringeva progressivamente. Nel bel mezzo del punto in cui la gola si faceva più angusta, in prossimità del Comune di Bard, sorgeva un forte rupestre dislocato su più livelli che proteggeva la Valle d’Aosta dalle invasioni dei francesi.
Ciò che il Generale Bonaparte vide era sconfortante: alle pendici dell’altura sulla quale sorgeva il forte, molti cadaveri di soldati e alcuni carri e pezzi di artiglieria distrutti ostruivano il sentiero e la parte dell’armata che li aveva preceduti era in stallo.
Nel vedere arrivare il suo Comandante, il Generale Berthier gli corse incontro e, una volta giunto al cospetto di lui, gli fece il saluto militare.
– Riposo, Berthier. Che diavolo sta succedendo? Perché siete fermi?
– Dal forte, ci tengono sotto tiro, Signore. Non appena l’esercito si incolonna e si immette nella gola, quelli ci sparano addosso. Dato il restringimento del sentiero, non c’è modo di evitare il fuoco nemico.
– Esiste un percorso alternativo, Berthier?
– Sì, Generale, il vicino colle di Albard, ma si tratta di un sentiero molo stretto, praticamente una mulattiera e l’artiglieria pesante non ci passa. Se vogliamo portare con noi i cannoni, per forza da lì dobbiamo passare – e, nel parlare, indicò col braccio la strettoia ai piedi del forte di Bard.
– Proveremo a eluderli col favore delle tenebre. Chi è di stanza nel forte?
– Gli austro-piemontesi, Signore, ma, da due settimane, è giunto a dar loro man forte il reggimento del Generale de Jarjayes.
– Ma come! – esclamò, con un moto di stizza, Bonaparte – Non doveva arrivare che a settembre e siamo ad agosto!
– Le informazioni sono queste, Signore – rispose sommessamente il costernatissimo Berthier.
– Questa notte, quando il buio sarà completamente sceso, li attaccheremo da lì – ordinò Napoleone, indicando la strada in salita che si inerpicava sul colle dove sorgeva il forte di Bard – Contemporaneamente, gli altri reparti trasporteranno i carriaggi e l’artiglieria oltre la gola.
– Sì, Generale – rispose Berthier.
Dopo pochi istanti, Napoleone riconobbe un ufficiale fra le truppe e, aggrottando leggermente le sopracciglia, domandò al Generale Berthier:
– Quello è il Tenente de Soisson?
– Sì, Generale, giunto due settimane or sono dall’Egitto. Volete che lo metta al comando di un plotone lungo la deviazione sul colle di Albard? Ha militato sotto la figlia del Generale de Jarjayes e non è opportuno che partecipi all’assedio del forte di Bard…
– E’ più che opportuno, invece, Berthier. Il Tenente de Soisson parteciperà all’assalto della fortezza dove si trova il Generale de Jarjayes. Quale occasione migliore per saggiarne la lealtà?
Quella stessa notte, Napoleone diede ordine a un battaglione di inerpicarsi sull’altura e di aprire il fuoco contro la fortezza. Simultaneamente, altri reparti dell’esercito iniziarono a trasportare nella gola i carri coi rifornimenti, le polveri e le munizioni, gli affusti di cannone e le bocche di fuoco che, per esigenze di snellezza, erano state separate dagli affusti e imballate dentro tronchi d’albero scavati. Secondo gli ordini di Bonaparte, per attutire al massimo i rumori, la strada era stata cosparsa di fieno e le ruote dei carri e degli affusti erano state foderate di stracci.
Il battaglione, del quale faceva parte anche Alain, iniziò a sparare e a cannoneggiare contro il forte che non tardò a rispondere al fuoco.
Ma guarda che brutta situazione mi doveva capitare! – pensò Alain mentre avanzava, imbracciando il fucile – Speriamo bene… Il fatto che il vecchio stia lì non significa che ci debba per forza lasciare le penne o che sarò proprio io a spedirlo al Creatore… Che Dio me la mandi buona!
Le cose sembravano andare secondo i piani del Generale corso, quando la marcia in sordina dell’artiglieria e dei carriaggi lungo la gola fu svelata dall’astuzia della guarnigione del forte. Alcuni fasci di vimini infuocati furono gettati dall’avamposto giù per la rupe. Le sfere di fuoco, simili a pietre incandescenti sputate da un vulcano in eruzione, cadendo dritte nella valle o rimbalzando lungo le pareti rocciose, rischiararono le tenebre, rendendo visibili ai difensori del forte di Bard sia la dislocazione del battaglione assediante sia il lungo serpentone dei convogli che si era immesso nella stretta gola.
– Avanti! Avanti! – gridò Bonaparte – L’effetto sorpresa è andato, dobbiamo puntare sulla velocità!
Mentre parlava, un enorme fascio di vimini infuocato andò a schiantarsi a pochi piedi da lui, rimbalzando minacciosamente e sprigionando, al contatto col suolo, centinaia scintille in ogni direzione. Il cavallo sul quale era seduto si impennò e nitrì vigorosamente e, soltanto con un’enorme prontezza di riflessi e tanta determinazione, Napoleone riuscì a mantenersi saldamente in equilibrio sulla sella.
– Forza, uomini dell’Armata di Riserva! Fate fuoco! Radete al suolo quel dannato forte! Avanti!
Dal forte, continuavano a sparare a mitraglia e a gettare fasci di vimini infuocati mentre le truppe napoleoniche tentavano di avanzare faticosamente sull’altura. I reparti che trasportavano l’artiglieria pesante e i rifornimenti lungo la strettoia stavano giocando la lotteria della vita, perché era molto più probabile essere uccisi da una fucilata o colpiti da un fascio infuocato che riuscire a passare dall’altra parte.
– Avanti coi fucili, sparate! – ordinò il Generale de Jarjayes, indicando il dirupo – L’attacco al forte è un mero diversivo! Queste mura sono solide, bisogna concentrarsi sui convogli giù per la gola! Sparate sui convogli e gettate i vimini infuocati nella strettoia!
Passarono i giorni e il forte non cadeva mentre il progresso dei carriaggi lungo la gola era lento e incerto. I cadaveri dei soldati e le carcasse dei carri e dell’artiglieria crescevano di numero e, di giorno, i soldati ne facevano la conta mentre, di notte, ricominciavano l’assalto alla fortezza e la marcia dei convogli attraverso la strettoia.
La decima notte dell’assedio, il plotone comandato da Alain riuscì a spingersi fin quasi sotto le mura del livello più basso del forte di Bard. I difensori se ne accorsero e intensificarono gli spari. Alain si buttò a terra per schivare una raffica e, subito dopo, scattò di nuovo in piedi per riprendere la corsa, quando si vide rotolare contro, giù per il pendio, un fascio di vimini infuocato. Fece un rapido salto laterale, schivando per un soffio la sfera mortifera che, proseguendo la sua corsa, travolse due soldati.
Alain si rialzò e si avvicinò come un fulmine alla fortezza. Vide la sagoma scura di un uomo che impartiva ordini da un torrione e gli puntò contro il fucile mentre quello faceva lo stesso di rimando. Erano entrambi sul punto di sparare, quando le prime luci dell’alba evidenziarono i loro lineamenti e i due si riconobbero a vicenda. Scrutando il volto severo del Generale de Jarjayes che lo teneva sotto tiro, Alain ebbe un sussulto e deglutì a vuoto. Dopo alcuni istanti, abbassò il fucile e lo stesso fece il Generale. I due rimasero a fissarsi in silenzio per qualche momento, finché non si udì la voce di un Maggiore urlare:
– Albeggia, ritirata!
Alain rivolse il saluto militare al Generale de Jarjayes, si voltò e corse via.
 
Forte-di-Bard
 
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Nessuno, per fortuna, lo aveva visto abbassare il fucile e salutare militarmente un ufficiale nemico, ma il problema rimaneva. Non voleva certo uccidere il padre del suo ex Comandante, soprattutto dopo avere sparato, anni prima, a suo cugino Guillaume Colbert, ma, se fosse capitato, davanti a dei testimoni, un altro episodio come quello avvenuto durante la precedente alba, se la sarebbe vista davvero brutta. Bonaparte non era affatto tenero con i vigliacchi, gli inetti e i traditori che, il più delle volte, faceva fucilare senza neanche averli fatti passare davanti alla Corte Marziale. Tantomeno poteva chiedere di essere spostato ai convogli o sul sentiero di Albard, perché, conoscendo i meccanismi mentali di Napoleone, se era stato destinato all’assedio del forte di Bard, un motivo c’era.
A salvarlo dall’imbarazzo fu la notizia che, quella notte, sarebbe transitato per la gola l’ultimo convoglio insieme al quale sarebbero partiti anche lui e Bonaparte. Il Generale Berthier, invece, avrebbe proseguito l’assedio della fortezza.
La mattina seguente, l’ultimo convoglio, con Napoleone e Alain, era fuori dal tiro della guarnigione ormai da un paio d’ore, quando un corriere giunse accanto al cavallo del Generale corso, annunciandogli:
– Gli austro-piemontesi sono rimasti a presidio del forte di Bard mentre il Generale de Jarjayes e il reggimento da lui comandato ci stanno correndo dietro, per distruggere la nostra artiglieria prima che ci ricongiungiamo al grosso delle truppe che ha preso la strada del colle di Albard!
– Merde! – gridò, senza contenersi, Napoleone – Genieri, salite su quella rupe e provocate una piccola frana!
A lavoro terminato, Bonaparte guardò compiaciuto il sentiero ostruito dai sassi, pensando che il reggimento del Generale de Jarjayes avrebbe impiegato minimo tre o quattro giorni a liberarlo. Contemporaneamente, tuttavia, pensò agli uomini e ai pezzi d’artiglieria persi a Bard e il sorriso gli si spense in volto. Doveva conquistare Torino e doveva farlo alla svelta, con l’esercito e l’artiglieria decimati.
Al quattordicesimo giorno d’assedio, il forte di Bard si arrese al Generale Berthier. Agli assediati furono resi gli onori militari, ma, subito dopo, secondo gli ordini lasciati da Napoleone, “le vilain fort de Bard” fu raso al suolo.
 
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Lago di Viverone, agosto 1800
 
Napoleone scrutava, con occhi di ghiaccio, le sponde del lago di Viverone.
Doveva recuperare lo svantaggio accumulato a Bard e doveva farlo con truppe stanche e decimate e malgrado molti pezzi d’artiglieria fossero stati distrutti. Doveva muoversi velocemente, perché l’esercito piemontese lo stava raggiungendo da sud, il Generale de Jarjayes, a quell’ora, aveva risolto i suoi problemi con la frana e gli stava correndo dietro da ovest e lui non voleva ritrovarsi accerchiato. Doveva agire d’astuzia, perché disponeva soltanto di uomini malridotti, emaciati, sfiniti dalla fatica e provati dal freddo delle Alpi e dal fuoco dell’artiglieria di Bard e lui non poteva permettersi il lusso di nuove perdite. La situazione gli imponeva di sgominare l’avversario piemontese con perdite prossime allo zero.  
Ancora una volta, Annibale sarebbe stato un’ottima fonte d’ispirazione.
– Junot, convocate lo Stato Maggiore a raccolta nei miei alloggi.
Il giorno dopo, i veterani dell’Armata di Riserva erano stati posizionati su un promontorio ubicato sul lato nord occidentale del lago, in un punto ben visibile dall’esercito piemontese che sarebbe sopraggiunto dalla sponda sud occidentale dello specchio d’acqua. Il grosso delle truppe si era nascosto dietro le colline che costeggiavano il lago a occidente mentre qualche reparto si era imboscato in alcune buche più vicine alla riva o sotto la vegetazione. Napoleone aveva preso posto, insieme ai veterani, in un punto del promontorio dal quale avrebbe potuto avere una visione completa delle operazioni militari.
L’esercito piemontese giunse in prossimità dello specchio d’acqua nel tardo pomeriggio, accampandosi nei pressi di un borgo vicino e la prima cosa che videro i soldati fu il battaglione dei veterani francesi che stazionava sul promontorio a nord, sulla riva opposta. Napoleone aveva fatto accendere dei fuochi ad alcune miglia di distanza, per far credere al nemico che il grosso delle truppe fosse accampato molto più lontano.
All’alba del giorno successivo, era calata una nebbia fittissima che non permetteva di vedere a un palmo dal proprio naso. Il Generale dell’esercito piemontese, un uomo arrogante ed eccessivamente sicuro di sé, decise di far marciare ugualmente le truppe sul bacino occidentale del lago per raggiungere il promontorio e il contingente militare che ci stazionava sopra, senza aspettare che la nebbia si alzasse e senza mandare avanti degli esploratori.
Appena le truppe piemontesi si furono incolonnate nel bacino, scattò la trappola.
Un battaglione napoleonico si posizionò all’imbocco della gola meridionale, per impedire ai piemontesi di trovare scampo tornando indietro mentre i veterani controllavano l’uscita settentrionale. Poco dopo, il resto delle truppe francesi uscì fuori dalle colline e dagli altri nascondigli e piombò addosso ai nemici che non si capacitavano dell’accaduto e non ci vedevano a mezzo piede dal loro volto.
Più che una battaglia, fu una mattanza, durata in tutto tre ore. Imbottigliati fra le colline e le acque del lago, i piemontesi non riuscirono a difendersi adeguatamente, perché colti alla sprovvista e perché, marciando incolonnati, non avevano lo spazio sufficiente per maneggiare fucili e baionette. I cannoni erano imballati e inutilizzabili e, del resto, gli intrappolati non avrebbero saputo in quale direzione orientarli.
I francesi spuntavano fuori da ogni dove e le truppe del Re di Sardegna furono sopraffatte da questo nemico invisibile che emergeva dalle coltri di nebbia per rimmergercisi dentro dopo avere colpito.
Alcuni soldati cercavano scampo nel lago, ma chi non affogò fu trafitto dalle baionette in mezzo ai canneti o raggiunto dalle palle di cannone sparate dalle alture mentre le acque si tingevano di rosso. In questo modo, trovò la morte anche l’arrogante Generale piemontese.
Il Generale de Jarjayes giunse a metà mattina, quando la nebbia si era un po’ diradata e, mandati avanti degli esploratori, fu reso edotto dell’accaduto. Le truppe napoleoniche rimaste all’imbocco meridionale del bacino lo tennero impegnato mentre l’Armata di Riserva, finita la mattanza, marciò verso sud dal lato opposto del lago.
Fu così che, con perdite minime, Napoleone sgominò una parte considerevole dell’esercito piemontese ed entrò vittoriosamente a Torino due giorni dopo mentre il Re di Sardegna e la Regina Clotilde, sorella di Luigi XVI, riparavano in Francia.
 
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Versailles, fine settembre 1800
 
– Ti vedo pensierosa, Oscar – osservò André mentre portava in camera di lei un vassoio con un sorbetto al limone e alcuni fichi.
Anche dopo la nobilitazione e il matrimonio, André, quando poteva, provvedeva personalmente a quell’incombenza, in omaggio ai vecchi tempi e perché nessuno si intromettesse in un rituale risalente ai giorni dell’infanzia e dal sapore tanto intimo.
– Mio padre mi ha inviato un resoconto dall’Italia con un corriere speciale, André. Dopo la presa di Torino, Bonaparte si sta rapidamente estendendo in tutta l’Italia del nord. E’ stata, prima, la volta di Pavia, dove è avvenuto un vero e proprio eccidio. Pare che alcuni abitanti della città si siano ribellati all’invasore, reagendo nell’unico modo possibile ed efficace: sono saliti sui tetti delle case e hanno gettato le tegole addosso ai soldati. Bonaparte ha, quindi, ordinato che l’esercito uccidesse tutti gli abitanti dei palazzi dai quali fosse provenuto il lancio anche di una sola tegola e che gli edifici fossero, poi, dati alle fiamme. I morti sono centinaia e mezza città è distrutta…
– Ma è terribile!
– Già… Napoleone ha, inoltre, da pochi giorni, riportato una schiacciante vittoria a Marengo. All’inizio, gli austriaci erano in vantaggio, ma il decisivo intervento del Generale Desaix, che è rimasto ucciso da una fucilata durante la carica, ha capovolto, in poco tempo, le sorti della battaglia.
– L’avanzata di quell’uomo pare inarrestabile. Si diffonde come una pianta infestante…
– In breve, ci troveremo circondati dal Generale corso… Mi sento responsabile per averne, in principio, perorato la causa davanti alla Regina… L’unica speranza, adesso, è che l’Europa si coalizzi contro di lui.
 
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Marengo, fine settembre 1800
 
Alain oscillava svogliatamente il cucchiaio nella sua minestra, con tanti pensieri nella mente e poca voglia di mangiare. La scarsa qualità del rancio militare aveva un ruolo marginale in quell’inappetenza: ci era abituato e, poi, non era mai stato un tipo schizzinoso.
Un senso di malessere lo pervadeva e, con esso, molta scontentezza di sé, una persistente stanchezza e una forte demotivazione. Erano le stesse sensazioni che aveva avvertito in Egitto e in Siria.
La battaglia sul lago di Viverone era stata più simile a una mattanza che a un vero e proprio conflitto militare. Non era mai stato un idealista o un poeta, ma il senso della giustizia non gli era affatto estraneo e il minimo che ci si potesse aspettare da uno scontro armato, che lo rendesse eticamente giustificabile e differente da una comune strage, era che si partisse, almeno potenzialmente, da una situazione in cui ognuno avrebbe potuto vincere o, perlomeno, difendersi. Un simulacro di armi pari, insomma.
Ciò che era successo a Pavia, poi, era del tutto ingiustificabile. Raccapricciante e ingiustificabile. Nelle case dove erano entrati, avevano trovato anche donne e bambini, massacrati per il lancio, dallo stabile, di qualche tegola da parte di chi sa chi. Ne udiva ancora le urla di terrore e le suppliche. Ne vedeva ancora i corpi ammonticchiati nelle vie, dopo che li avevano tirati fuori, esanimi, dalle case. Vedeva ancora le madri che facevano da scudo ai figli. Avvertiva ancora il lezzo nauseabondo dei cadaveri carbonizzanti e gli occhi ancora gli bruciavano per il fumo sprigionato dagli edifici in fiamme. Rivedeva ancora Pavia alle sue spalle, sparire in una massa di fumo nero, mentre loro si allontanavano.
Come monito per tutti gli altri, così che non si ribellassero più al progresso.
Loro, però, erano i liberatori… Questo ragionamento gli pareva di averlo sentito già prima dell’avvento di Bonaparte.







L’attraversamento del colle del Gran San Bernardo e la battaglia di Marengo ebbero luogo fra maggio e giugno del 1800. Nella mia storia, per esigenze di trama, sono spostati a fine luglio, ad agosto e a settembre dello stesso anno. La strage di Pavia, invece, avvenne durante la prima Campagna d’Italia.
Napoleone era veramente un ammiratore di Annibale e, infatti, il celebre dipinto che lo ritrae mentre attraversa le Alpi riporta, scolpito nelle rocce, anche il nome del condottiero cartaginese. La battaglia del lago di Viverone, tuttavia, non è mai stata combattuta da Napoleone. Essa è di mia invenzione ed è una rivisitazione della battaglia del lago Trasimeno che, il 21 giugno 217 A.C., nel corso della seconda guerra punica, vide contrapporti il Console romano Gaio Flaminio Nepote e il Generale cartaginese Annibale Barca.
Il forte di Bard fu effettivamente raso al suolo dai soldati napoleonici e ricostruito da Casa Savoia fra il 1830 e il 1838. Quello della fotografia, naturalmente, è il nuovo e non quello dell’assedio.
Come sempre, ben ritrovati e grazie a chi vorrà leggere e recensire!




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