Ciao bellissim*,
Spero possiate perdonarmi l’assenza, e
di trovarvi pronti per il capitolo di settimana prossima ;3 (giuro è già pronto
non odiatemi)
Riassunto delle puntate precedenti: L e
Sophie discutono perché L è un invadente e preoccupato maniaco del controllo, e
perché Sophie piuttosto che chiedere una mano si taglierebbe entrambe le sue.
La videosorveglianza di casa Yagami è lenta come un turno in un cinema vuoto
(trust me on this), così L “scagiona” le famiglie Yagami e Kitamura. Infine, a
Londra Neville è impegnato (e stressato) in una missione top-secret, Draco
origlia anche l’impossibile, Robards non la racconta giusta.
Buona lettura babies <3
Sulla
difensiva
12
gennaio 2004
Neville
Paciock non era un fan della birra, non lo era mai stato.
Non a
sedici anni, quando a Natale suo zio lo aveva costretto a un lungo
interrogatorio sulla sua (inesistente) ragazza e l’unica via di fuga era il
boccale di birra che continuava a riempirsi. Quando aveva visto Neville correre
in bagno con una mano sulla bocca e il viso pallido, sua nonna Augusta aveva
iniziato a strillare come un’aquila e a rifilare scappellotti al figlio.
Non lo
era nemmeno a diciannove anni, quando assieme a un gruppo scelto di ex-compagni
di classe aveva festeggiato il fidanzamento di Luna Lovegood e Rolf Scamander.
Luna aveva offerto a tutti quello che assicurava essere un rarissimo filtro di
antica fattura norrena, trovato in un mercatino norvegese. Neville non sapeva nulla
di filtri magici norreni, ma sapeva che quella roba sembrava proprio birra: si
era svegliato con le tempie pulsanti e un saporaccio in bocca che era sicuro lo
avrebbe fatto vomitare. Di nuovo.
Non lo
era decisamente quando, a ventun anni, si era lasciato trascinare
dall’entusiasmo di Sophie e Ron per aver risolto il suo primo caso: il pub che
avevano scoperto giusto a un paio di isolati dal Ministero era ghermito di
colleghi festosi, e Sophie aveva strillato a tutti di allinearsi al bancone per
una gara a chi beveva più in fretta. Neville non aveva vomitato, però Harry
aveva dovuto svegliarlo dopo che si era addormentato su un tavolino, per
suggerirgli di tornare a casa. Possibilmente a piedi, aveva aggiunto. Il
mago aveva annuito, e sarebbe andato tutto bene se non avesse incrociato Hannah
Abbott sulla via del ritorno. Ecco, allora aveva vomitato.
Da
quella volta, Neville si era ripromesso di mantenere le debita distanza da
quella stramaledetta bevanda.
Per
questo quando le chiese una bionda media, Hannah sbarrò gli occhi e lasciò
perdere il drink che stava preparando. Le bottiglie colorate rimasero sospese a
mezz’aria, ancora intente a preparare un cocktail dai toni violetti mentre una
nube di zucchero filato si sfilava da una scatola di plastica e correva a
ornare l’orlo del bicchiere da Martini.
In
fondo al bancone del Tre Manici di Scopa, Neville era seduto al solito
sgabello dove aspettava che Hannah finisse il turno, e lei si sporse per prendere
le mani del ragazzo tra le sue. «Neville, stai… va tutto bene?».
Il mago
le offrì un sorriso tirato, scorrendo i pollici sul dorso delle mani fredde e
paffute in modo rassicurante. «Non ti preoccupare, sono solo un po’ stanco»
Lei
aggrottò le sopracciglia bionde. «Beh, ma… birra?»
Neville
replicò con una risata spenta, sfilando una mano dalle sue per sfregarsi la
nuca. «Beccato… sono, ecco, un po’ stressato per il lavoro».
Hannah,
pensierosa, si scostò lentamente dal bancone per spillare la birra che le aveva
chiesto l’Auror: avrebbe potuto insistere, probabilmente anche a rischio di
gettare Neville in una crisi ancora più nera, ma non lo ritenne necessario. Se
c’era una cosa che aveva imparato lavorando lì, pensò mentre lasciava la birra
al ragazzo, era che i clienti al bancone parlavano sempre con i baristi.
Specialmente
dopo il primo giro.
Fu infatti
una decina di minuti più tardi, mentre strofinava con decisione uno straccio sul
legno graffiato del bancone, che Hannah sentì Neville chiamarla con voce
tentennante. La bionda accennò un sorrisetto vittorioso.
«Sì,
Nev?» gli chiese dolcemente, guardandolo da sopra una spalla.
Lui la
fissò per qualche secondo, arrossendo appena, poi iniziò a farfugliare furiosamente:
«Ecco, vedi, ehm… so che… sono un po’… è strano ultimamente, vedi, il-
cioè, non potrei… però, insomma, voglio essere sincero con te e… ecco, io, io
vorrei…»
Il
volto del giovane divenne rapidamente paonazzo mentre affogava nelle sue stesse
parole, e Hannah, intenerita, decise di andargli in contro prima che finisse in
apnea. «Neville?» lo interruppe, un largo sorriso in volto e una mano sul
fianco. «Lo so che non puoi parlarmi del lavoro»
«Lo
sai?!» sbottò il mago, sobbalzando sul posto e facendo traboccare la sua ancora
intatta seconda birra. «Oh, acc-»
«Tergeo»
lo anticipò la ragazza, con un allegro colpo di bacchetta.
Neville
alzò gli occhi su di lei, mentre strizzava nervosamente la cravatta zuppa di
birra.
«Insomma,
non… non sei arrabbiata?»
«Perché
dovrei? Stai lavorando sodo, e qualsiasi cosa sia deve essere importante… sono
tanto fiera di te» replicò la strega, non senza che le si imporporassero le
guance.
In quel
momento, qualcuno si schiarì seccamente la voce dall’altro capo del bancone.
Due paia di occhi si spalancarono di botto. «Scusi, il mio collega ha ordinato
un… ah, Paciock! Abbott! Che piacere trovarvi qui» li salutò una strega
dall’aria autorevole, vestita di smeraldo dalle vesti lunghe e austere alla
punta del cappello, la cui larga tesa cadeva quasi fino all’alto colletto
abbottonato.
«P-Professoressa
McGranitt!»
«Preside!»
La
donna sorrise, ma non si perse in chiacchiere di circostanza: Minerva McGranitt
non era proprio una donna da chiacchiere di circostanza. «Sono venuta a
prendere l’ordinazione del professor Vitius, una qualche sciocchezza con dello
zucchero filato…» spiegò con tono di riprovazione, accennando al piccolo mago
che li salutava da un tavolo in fondo al locale.
«Oh,
certo!» si ricordò Hannah di botto, scattando come una molla per recuperare il
drink che aveva abbandonato prima. «Scusi l’attesa, mi è completamente passato
di mente!»
La
McGranitt liquidò le scuse con un cenno della mano, poi gli occhi felini si
posarono pensierosamente su Neville, ancora fermo a guardarla con la cravatta
che gli penzolava da una mano. «Sai, Paciock, è una fortuna averti incontrato
proprio qui. Mi risparmi un po’ di pergamena».
L’Auror
la guardò con la stessa confusione con cui, anni prima, cercava di seguire le
lezioni di Trasfigurazione della strega. Lei parve rendersene conto, perché
scosse impercettibilmente il capo. «Con permesso, signorina Abbott, le rubo il
signor Paciock per qualche minuto»
«Oh,
certo» replicò la ragazza, scrollando le spalle.
Ridacchiò
all’espressione tradita di Neville, mentre la Preside della Scuola di Magia e
Stregoneria di Hogwarts lo trascinava al tavolino in fondo al locale. Alle loro
spalle, un bicchiere orlato di zucchero filato volteggiava allegramente tra i
cappelli a punta degli avventori.
«Quindi,
Paciock, sento che te la cavi bene al Ministero»
«Uh,
ehm, s-sì, credo» farfugliò nervosamente Neville, mentre il suo ex-Professore
di Incantesimi gli faceva spazio sulla panca di legno ad angolo.
«Coraggio,
coraggio, Paciock! Tua nonna non fa che decantare le tue lodi!» trillò allegramente
il Professor Vitius, prendendo il suo coloratissimo drink dalle mani della
McGranitt.
«P-parla
con mia nonna?!» sputacchiò l’Auror, atterrito.
Vitius
sventolò una mano. «L’ho incrociata un paio di volte a Diagon Alley»
«Oh…
non era da Fortebraccio, vero?» chiese sospettoso il ragazzo, sfregandosi la
nuca.
«Oh sì,
c’era metà prezzo!»
«Nonna non
dovrebbe mangiare gelato…»
Prima
che il vecchio professore potesse replicare, annuendo comprensivo nel suo
bicchiere, la McGranitt sospirò seccamente. «Filius, se non ti dispiace vorrei
discutere con Paciock della cattedra»
«Cattedra?»
«Oh, la
cattedra!» confermò allegramente Vitius, dandogli qualche colpetto sul gomito
con fare incoraggiante. Francamente, Neville non aveva mai visto il minuto e
raggrinzito professore così pimpante, ma i drink di Hannah facevano
quell’effetto.
La
Preside, da contro, sembrava avere il contegno autorevole e composto di sempre:
gli occhi attenti e il leggero sorrisetto di chi ne sapeva più di chiunque
altro nella stanza, Minerva McGranitt era ancora in grado di far sudare per l’ansia
il suo ex-studente.
Tuttavia,
la parola cattedra spiazzò Neville abbastanza da smettere di farlo
sentire sotto esame.
«Andrò
dritta al sodo, Paciock: vorrei che venissi a insegnare Erbologia a Hogwarts.»
A
Neville schizzarono gli occhi dalle orbite. «C-cos- Erbologia?! Io non-
la Professoressa Sprite insegna Erbologia!»
«Sì,
Paciock, questo lo so» fu la replica della McGranitt.
«La
Professoressa Sprite va in pensione!» spiegò invece Vitius, offrendo alla
collega un brandello di zucchero filato.
«No,
Vitius, grazie.»
«In pensione?!»
A quel
punto, Neville era convinto di non aver fatto altro che farfugliare e ripetere
ciò che gli veniva detto per tutta la sera, e il crescente pulsare alle tempie
regalatogli dalla birra non aiutava. Tuttavia, l’Auror era troppo
inquieto per curarsene, al prospetto che la Professoressa Sprite, l’insegnante
che più di tutti l’aveva sostenuto e che insegnava quella che era stata la sua
materia preferita, stesse per abbandonare Hogwarts.
La
McGranitt annuì in modo sbrigativo. «Esatto, e ti pregherei di non farne parola
con nessuno: la Professoressa preferisce portare a termine l’anno scolastico
senza troppi drammi»
«Capisco
ma… va-insomma, sta bene?» chiese, apprensivo.
«Oh,
sì! Pomona vuole realizzare il suo sogno e andare a studiare le piante magiche
in Amazzonia» lo informò divertito Vitius, allungandogli dello zucchero filato.
Neville
accettò con un sorriso. Dopo aver deglutito la nuvoletta violacea, si sentì
vagamente rilassato per la prima volta in quella serata sull’orlo della crisi
di nervi. «Amazzonia, eh? Sembra davvero interessante!»
«Pomona
non sta più nella pelle, a quanto pare progetta questa ricerca da decenni»
«Sa,
ora che mi ci fa pensare, ricordo che la Professoressa ci avesse parlato di
alcune specie di felci che si dica crescano solo-»
«Signori»
sbottò nuovamente la McGranitt, che li osservava a braccia conserte, «per
quanto sia… deliziata di poter chiacchierare amabilmente, potremmo finire il discorso?»
Entrambi
i maghi ammutolirono, annuendo precipitosamente. La Preside scoccò loro
un’ultima occhiata di avvertimento, prima di proseguire. «Bene… Paciock, sono più
che conscia della tua posizione al Ministero e non voglio farti alcuna
pressione, ma vorrei comunque che pensassi alla mia proposta».
La
brevemente ritrovata serenità di Neville sparì in un lampo, quando il mago capì
finalmente che non si trattava di uno scherzo. Non che si aspettasse scherzi
da parte della McGranitt, però... «Insomma, s-sono onorato, non mi
fraintenda ma… io?» chiese incerto.
«Certo
che sì, Paciock: hai sempre amato la materia, hai accumulato un’esperienza
lavorativa non indifferente negli ultimi anni, e Pomona sarebbe semplicemente
entusiasta se tu accettassi» replicò convinta la strega.
«Io non
so… non so assolutamente cosa dire» disse Neville con voce mesta, ed era vero:
non si sarebbe mai aspettato di ricevere un’offerta del genere, non aveva mai
nemmeno preso in considerazione l’idea di poter insegnare Erbologia a
Hogwarts! Anche solo pensare di prendere un incarico del genere era… era
quasi folle, specialmente quando…
Neville
deglutì, sentendosi improvvisamente in colpa.
Kira
stava mietendo vittime come se nulla fosse, alcuni tra i suoi migliori amici
erano impegnati in quell’indagine, e Robards gli aveva affibbiato una missione
di vitale importanza: non poteva seriamente pensare di… di andarsene.
«Paciock?»
Il ragazzo levò gli occhi sulla McGranitt, che gli sorrideva dolcemente. «Non
voglio una risposta ora, desidero solo che tu abbia tempo in abbondanza per
prendere in esame quest’ipotesi. Se poi ne vorrai parlare più
approfonditamente, le porte di Hogwarts sono sempre aperte».
Il
ragazzo sorrise leggermente a quelle parole, rilasciando un sospiro profondo.
«Io… grazie, Professoressa.»
La
strega, come da copione, si schernì prontamente. «Sciocchezze, Paciock».
***
Se durante i primi dell’anno Sophie
si era comportata in modo strano, schivo, totalmente atipico per la sua
esuberante persona, sembrava che il problema fosse sparito dopo la
chiacchierata con il Sovrintendente Yagami: quel chiarimento pareva aver
spazzato via ogni problema, e la dinamica della squadra si era rapidamente fatta
più sincera e affiatata.
Il Sovrintendente aveva assistito ai
rapidi progressi con un sorriso.
L aveva
preso atto del cambiamento senza fiatare, senza farsi cogliere a fissare la
strega, senza dare adito alle insinuazioni di Watari o ai suoi stessi, ricorrenti,
inutili pensieri.
Perché
ci pensava.
Pensava
al loro diverbio, a cosa tenesse sveglia la ragazza, al modo in cui lo evitava
con fare risentito. Pensava a tutti quei piccoli dettagli che nessun altro
notava, al modo in cui il suo volto si fosse fatto impercettibilmente più
smunto, al suo piluccare inutilmente pranzi e cene quando l’aveva vista
attaccare ogni piatto con appetito fin dal suo arrivo.
Il
detective si diceva nervosamente di concentrarsi solo su Kira, sugli sviluppi
che erano la priorità assoluta, su quanto e come si potesse avvicinare al
sospettato che più aveva catturato la sua attenzione.
Se lo
diceva e poi a notte fonda, quando era solo e poteva fingere con sé stesso di
non star perdendo tempo, tirava fuori il fascicolo su Sophie. Ripercorreva la
sua vita, ciò che sapeva già: le scarne informazioni su dove abitasse, chi
frequentasse, le deviazioni dal suo lavoro o dalle case dei suoi amici, il
curriculum considerevole, la carriera scolastica buona, sì, ma dopotutto poco
interessante per ciò che voleva sapere.
E ce lo
perdeva, quel tempo, si inerpicava tra un dettaglio e l’altro, cercando le
connessioni che quel fascicolo non offriva, ipotizzando le risposte che l’Auror
non gli voleva dare, continuando a dirsi che quella era parte integrante
dell’indagine sul caso Kira.
Lavoro,
puro e semplice.
Coerenza,
perché lui non era certo uno che potesse dirsi scostante,
né nelle abitudini, né nelle intenzioni.
La sua
abitudine, era indagare.
La sua
intenzione, era sapere.
Puro
e semplice.
In ogni
caso, quale che fosse la scusa, non aveva perso di vista la ragazza.
Perciò,
con la coda dell’occhio, aveva visto Sophie storcere la bocca, mentre il resto
della squadra discuteva inutilmente su nuove piste.
L’aveva
vista tenere lo sguardo fisso su di lui, anche mentre la ignorava per
riflettere accuratamente sul da farsi, isolandosi nella sua stessa testa. La
ignorava perché non aveva bisogno di guardarla per capire che non aveva preso
sul serio quell’interruzione della sorveglianza di casa Yagami, né tantomeno le
sue parole. Per questo non si stupì granché quando, dopo che gli agenti
giapponesi si furono congedati, lei non diede segno di volersi barricare in
camera.
«Ryuzaki?»
Lui
rispose con un mugugno poco coinvolto, senza alzare gli occhi su di lei mentre
proseguiva con il suo filo di pensieri.
La
sentì sospirare, un leggero sibilo di irritazione per la sua mancanza di
attenzione. «Fai avvicinare me a Light Yagami».
Gli
occhi di L saettarono su di lei, repentini, e nel modo in cui Sophie inarcò appena
le sopracciglia vide un guizzo di vittoria. Oh, sei brava, non è vero?
La
studiò accuratamente, bevendo ogni dettaglio: la fronte aggrottata, gli occhi
aperti e decisi, privi della solita allegria che le colorava le guance o le
curvava la bocca verso l’alto; la bocca insolitamente pallida, premuta fra i
denti in un vezzo di nervosismo che aveva notato più volte.
Le
spalle rigide e le maniche attorcigliate attorno alle dita, Sophie aveva forse
preso un atteggiamento più spontaneo con gli altri agenti, ma per contrappeso
era diventata fredda con lui, e visibilmente arrabbiata.
No,
non arrabbiata, si corresse mentalmente il ragazzo,
mentre posava una tazza di tè piena sul tavolino. Sulla difensiva.
Glissò
su quella… inquietudine, su quel senso di dispiacere. Contrarietà,
preferiva definirla.
Si
sfregò un piede sull’altro, concentrandosi su quanto gli avesse appena detto la
rossa.
«Perché
dovrei farti avvicinare a Light Yagami?»
Lei
nascose malamente la stizza che le contrasse il volto, ma perlomeno non alzò
gli occhi al cielo.
«Perché
quella del cinque percento è una balla» sancì seccamente.
«Lo è?»
chiese con voce interessata il detective, il pollice premuto a un angolo della
bocca.
Quello
era ormai un gioco che avevano fatto più volte, e la conferma fu il tono aspro
con cui la strega sbottò: «Già, lo è».
Voleva
tagliare corto, voleva evitare quel loro piccolo botta e risposta, quello che
solitamente le faceva sfuggire un sorriso.
Sulla
difensiva.
Sophie
si lasciò cadere sul divano, avvicinando una tazza vuota e riempendola di acqua
bollente con la bacchetta. «Puoi anche far credere loro che hai mollato l’osso
su Light, ma sappiamo benissimo che non è così».
Appellò
un filtro dalla cucina, lasciandolo cadere nella
tazza.
L
sapeva che quello era un vano tentativo di deflettere il suo sguardo, di
evitare di guardarlo con aria di sfida, un modo per tenere occupate quelle mani
nervose, mentre gli esponeva una teoria su cui non aveva alcuna base solida.
A parte
il fatto, beh, di avere ragione.
Sì,
sei decisamente brava, pensò. Fino a qualche tempo
prima, il detective provava una sorta di vago sospetto, un lampo di irritazione
nel constatare quanto Sophie fosse percettiva e abile nel vedere oltre le sue
recite. D’altronde la colpa era sua, che ancora la sottovalutava.
Quel
nervosismo, però, era mutato in un misto di ammirazione ed eccitazione per
quella ragazza dall’acume fuori dall’ordinario. Era raro che incontrasse
qualcuno che stesse al suo passo, che capisse le sue strategie, seguisse i suoi
ragionamenti spontaneamente: era raro qualcuno che giocasse al suo stello
livello.
Su
quello, e solo su quello, poteva dare ragione a Watari.
«… So
che vuoi avvicinarlo, e che per buona misura farai lo stesso con la figlia più
grande di Kitamura, perché non puoi permetterti di essere parziale o di non
verificare ogni possibilità… ma è Light quello su cui non sei convinto.» Sophie
parlò fissando l’acqua, e anche il detective si ritrovò a osservare come si
colorasse in ampie spirali, correnti rossastre nello sfondo bianco della
porcellana.
«L’unico
modo per provarlo, tolto il confronto diretto – che persino Matsuda ha capito
essere controproducente – è indurlo a scoprirsi… scoprendoci a nostra volta, è
l’unico modo» concluse la strega, rimuovendo il filtro, aggiungendo del latte
freddo e accomodandosi contro lo schienale del divano.
Normalmente
l’avrebbe vista rannicchiarsi sulla seduta come se fosse nel salotto di casa
sua, e non nella suite cinque stelle di una città straniera, immersa fino al
collo nel più grave caso investigativo del mondo.
In quel
momento, però, Sophie stava composta, perché stava prendendo quel tè solo per
tenere le mani occupate, per sembrare distaccata, per tagliare corto.
«Allora?»
L era
vagamente compiaciuto di averla costretta ad alzare lo sguardo su di lui, anche
se non vi trovò la familiare scintilla di intesa a cui si era abituato. Quel
particolare gli fece scattare qualcosa, spinse la sua rapida mente a
riconsiderare la tattica elusiva adottata fin dall’inizio con la ragazza, senza
risposte dirette e senza troppe verità.
Prese
una decisione in un battito di ciglia.
«Ho
intenzione di sfruttare il test di ammissione».
L’affermazione
prese Sophie in contropiede, ma la vide ricomporre in fretta un’espressione
corrucciata. «Quello dell’Accademia di Tokyo?»
«Quello
dell’Accademia di Tokyo… ovviamente, è solo un modo per accedere alla cerimonia
di apertura».
«Ma… la
cerimonia di apertura… qui le scuole non iniziano ad aprile?!» sbottò la
strega, sinceramente confusa.
«Esattamente»
«È-è tantissimo
tempo!»
«Due
mesi e ventiquattro-»
«Ryuzaki!»
L
trattenne un sorrisetto, notando come l’espressione greve della rossa fosse
scivolata in qualcosa di molto simile al suo solito broncio. «Il primo test,
quello scritto, si terrà il diciassette» le illustrò, riprendendo la tazza
abbandonata di poco prima. «Ce ne saranno altri due pratici, duello e pozioni».
«Quindi?
Lascerai che sia io ad avvicinarmi?» chiese ostinatamente la ragazza.
Stavolta
fu lui a guardare altrove, mentre rifletteva. «Qualche settimana fa, avevo
detto che avremmo dovuto osservare una certa… prudenza»
«Sì,
beh, niente che un pizzico di Polisucco o una buona trasfigurazione non possa
risolvere» chiosò Sophie, e lui sapeva che quel broncio poteva solo che
essersi accentuato.
«In
ogni caso…»
«Chi
allora? Aizawa? Mogi? Ti prego, non dirmi Matsuda» lo interruppe ancora
l’Auror, impaziente, non riuscendo a trattenere un’ombra di ironia.
Il
silenzio si dilatò lentamente nella stanza, fino ad assumere i connotati di una
risposta. L fu lento ad alzare lo sguardo su di lei, perché si
rendeva conto che non avrebbe reagito bene.
Infatti,
Sophie socchiuse le palpebre e, gradualmente, si sporse dalla poltrona.
Quando
parlò, la sua voce era ridotta a un sibilo minaccioso.
«No, aspetta, fammi capire. Tu
hai passato gli ultimi vent’anni a fingere di non esistere, c’è gente seriamente
convinta che tu sia un vampiro, e ho visto Robards sull'orlo delle
lacrime perché ti sei rifiutato di apparire davanti al Wizengamot per quattordici
volte. Ora lanci minacce in diretta televisiva, prendi il tè delle cinque
con sei Auror e vuoi presentarti al primo sospettato?! Il prossimo passo
qual è? Invitare Kira a prendere parte alle indagini e diventare amici del
cuore?!»
La tirata, di volume sempre più alto,
lasciò la rossa praticamente a un passo dall’alzarsi, probabilmente non con
buone intenzioni. Il detective, ovviamente, lo considerò un ulteriore motivo
per stuzzicarla: «Beh, all’incirca… sì, quello sarebbe il piano a lungo
termine. Acuta come sempre».
Sophie
era allibita, e un lampo omicida le attraversò gli occhi, ma non colse la sua
provocazione.
«…
Ryuzaki, non puoi in alcun modo affermare che sia più pericoloso esporre
me rispetto a te, nemmeno tu mentiresti in maniera tanto spudorata»
disse in tono misurato, anche se era evidente che stesse facendo di tutto per
mantenere la calma, dando fondo a ogni grammo della serietà e della pazienza
che possedeva… entrambe in scarsa quantità, purtroppo.
«Quindi,
fai andare me» concluse infatti in un qualcosa di molto simile a un ringhio.
Sophie lo guardava a braccia incrociate, il mento alzato e le spalle
dritte, il ritratto della decisione.
L capì
che era inutile proseguire coi suoi tentativi di farla cedere alle emozioni, e
tornò a sorbire il tè ormai freddo.
Fece
una smorfia, scocciato.
Dannazione.
Un
dettaglio, però, lo incuriosiva.
«Perché
credi che sia fermo su Light Yagami?»
Il
cipiglio minaccioso di Sophie parve ammorbidirsi, mentre si stringeva nelle
spalle. «Beh… perché anch’io ho una brutta sensazione su di lui»
«Io non
ho sensazioni su Light Yagami» contestò immediatamente L.
«Hai
capito cosa intendo!» lo rimbeccò lei, «coincidenze, istinto, esperienza, super-deduzioni-perché-io-sono-Ryuzaki-il-più-grande-detective-della-Terra,
chiamalo come diamine ti pare, ma anche io credo ci sia qualcosa che non
va».
«… Il
più grande detective della Terra?» ripeté lentamente il mago, un sorrisetto
provocatorio sulle labbra.
Lei lo
fulminò con un’occhiataccia e scattò in piedi, lisciando le pieghe della lunga
gonna che portava quel giorno sotto al maglione d’ordinanza. Una parte della
mente del detective registrò che quella era la prima volta che le vedeva
indossare una gonna. Un’altra parte registrò il fatto di star registrando una
cosa del genere.
«Bene,
fammi sapere cosa ne pensi, ma non ho intenzione di aspettare oltre domani»
sentenziò la strega, dandogli le spalle prima che potesse risponderle.
La
guardò finché non scomparve dietro la porta della sua stanza, la gonna scura
che le roteava attorno ad accentuare la stizza di ogni suo passo.
L,
forse per la prima volta nella sua vita, si passò una mano sul volto con aria
frustrata.
***
13 gennaio 2004
Il
giorno successivo, Neville si svegliò con un leggero malessere, totalmente
imputabile alla birra, e la testa beatamente fra le nuvole, totalmente
imputabile alla McGranitt.
Con
occhi fissi e un’espressione stranita, seguì distrattamente la sua routine
mattutina, sebbene con risultati meno che ottimali: masticò meccanicamente
toast bruciati, si lavò i denti senza dentifricio, abbottonò una veste da mago
tutta storta, e avrebbe lasciato la bacchetta a casa se non avesse avuto un
cartello appeso sul caminetto, che gli ricordava quotidianamente (e a gran
voce):“Prendi la bacchetta, scimunito di un nipote! Sei un mago, o ti sei
scordato anche questo?!”.
Sua
nonna faceva sempre i regali più dolci.
In ogni
caso, ci mise ben tre tentativi per arrivare al Ministero in
Metropolvere, troppo sovrappensiero per azzeccare il nome della sua destinazione. Quando,
al terzo tentativo, finì in un emporio chiamato Erbologia di Prima Classe, il
ragazzo si sforzò di uscire dal mulinello di pensieri che era diventato la sua
testa.
Peccato
che si scoprì totalmente incapace di farlo: aveva trascorso la sera precedente
a discutere di quella proposta con Hannah, cercando disperatamente consiglio in
quella situazione assurda.
La
proposta della McGranitt era stata totalmente inaspettata e, francamente, fin
troppo ben coordinata con un momento della sua carriera che lo stava quasi
facendo dubitare che quel mestiere facesse per lui. Si sentiva in imbarazzo
solo a pensarlo, ma il caso Kira e la missione affidatagli da Robards si
stavano dimostrando sempre più stressanti e Neville, francamente, si stava
trovando troppo spesso a desiderare che tutta quella faccenda non fosse affar
suo.
Non era
Harry, che viveva di quel continuo cercare e frugare il mondo in cerca di
risposte e verità; non era Ron, che affrontava con spavalderia ogni situazione
che capitava loro; non era Draco, che si crogiolava nella sfida di superare
ogni criminale che cercasse di sfuggirgli; sicuramente, non era Sophie, che
faceva letteralmente del suo lavoro la sua vita.
Tutte
quelle considerazioni lo lasciavano interdetto e, tra l’altro, con una grande
acidità di stomaco.
Si
sfregò la zona incriminata pensando che, dopotutto, forse in quel caso non
valeva dire che pensarci non gli costasse niente…
«Paciock!
Merlino, mi stai ascoltando, amico?!»
Neville
sobbalzò, rendendosi conto in quel momento di aver già raggiunto i cancelli dell’Atrium
e che Tod, probabilmente, stava cercando di attirare la sua attenzione da
un bel pezzo. Il ragazzo si scusò e cercò di concentrarsi sulla Guardia, che
aveva il volto arrossato per l’agitazione; inoltre, i piccoli occhi chiari
saettavano attorno a loro in modo frenetico, come per assicurarsi che nessuno
li sentisse.
«Er-
scusa Tod, stavo… che cosa mi stavi dicendo?» farfugliò stancamente l’Auror,
passandosi una mano sul volto. Si dovette bloccare a metà del gesto, però,
quando Tod si ripeté, sussurrando a fil di voce e sporgendosi in avanti oltre
il vecchio ripiano di legno.
«L’ho
trovata, Paciock, ho trovato la spia!»