All'ombra del grande cedro

di ROSA66
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All’ombra del grande cedro
 
 
“My love wears forbidden colours”
Forbidden colours-
David Sylvian-Ryuichi Sakamoto
 
 
Oceano Atlantico, giugno 1857
 
Quella mattina l’aria sulla Queen Mary era frizzante, tanto che solo pochi passeggeri avevano deciso di uscire dalle loro cabine per godere del venticello fresco, tipico delle prime ore del giorno.
La brezza marina penetrava nelle narici fino a invadere i polmoni, mentre le onde, sciabordando davanti alla prua della nave, originavano una cascata continua di schiuma.
A Gwendolyn piaceva chiudere gli occhi e perdersi tra le mille emozioni che il mare le regalava. Adorava sentire su di sé gli spruzzi biancastri dei flutti e quell’odore salmastro che le lasciava addosso un senso di libertà. Da quando si era imbarcata, ogni giorno usciva dalla sua cabina per raggiungere il ponte superiore e godersi lo spettacolo incomparabile della distesa oceanica intorno a sé.
Navigavano senza sosta da settimane, ma lei non avvertiva alcun desiderio di arrivare a destinazione, dove l’attendeva un futuro incerto e non voluto. 
Guardò il cielo immenso che si perdeva nel blu del mare, quasi ne fosse la continuazione, immaginando come sarebbe stato avere le ali e fuggire lontano.
La giovane si strinse la morbida pashmina sulle spalle, nel modo usuale di tenere per sé quei pensieri sconvenienti, come li avrebbero definiti la maggior parte delle nobildonne inglesi di sua conoscenza.
A dir la verità, avrebbero reputato disdicevole anche il solo fatto di uscire dalla cabina senza essere accompagnata da un adeguato chaperon e acconciata di tutto punto.
Gwendolyn sbuffò, scuotendo la testa, mentre pensava a quanto sciocche fossero molte convinzioni dell’alta società inglese cui lei, suo malgrado, apparteneva.
Buon Dio, erano su una nave, che cosa mai avrebbe potuto succederle?
I riccioli biondo scuro erano lasciati liberi, proprio come le piaceva, e si aprivano al soffio leggero del vento mattutino.
«Lalita» quella voce delicata, che avrebbe riconosciuto tra mille, le arrivò da dietro le spalle. Solo lei la chiamava in quel modo affettuoso, rifuggendo dai titoli pomposi e altisonanti che in realtà avrebbe dovuto usare nei suoi confronti.
Lei era Lady Gwendolyn Elisabeth Mary Anne Howard, unica figlia del conte di Sutherland, e tutti si rivolgevano a lei chiamandola Milady.
Tutti tranne Naisha.
 
Gwendolyn si voltò con un gran sorriso, i dolci occhi nocciola a guardare quelli scuri e magnetici della giovane che occupava un posto speciale nella sua vita e nel suo cuore.
«Nash, ti ho svegliato?» disse allungando una mano per stringere quella dell’amica la quale, per tutta risposta, scosse la testa voltandosi verso l’orizzonte.
Il vento accarezzava i loro volti, mentre un pallido sole si affacciava tra le nubi illuminando fiocamente le due giovani.
«Manca ancora molto per arrivare?» sussurrò all’improvviso Naisha senza distogliere gli occhi dall’azzurro del mare. Nella sua voce c’era la nota appena accennata di un timore inespresso, ma presente e reale, su quello che sarebbe successo una volta giunte a destinazione.
Quasi accorgendosi di quella lieve incrinatura, Gwendolyn le strinse ancora di più le dita, forse per infonderle coraggio, forse per chiederne.
Sapeva benissimo che cosa le stesse passando per la mente: l’essere cresciute insieme l’aveva fatte diventare più che sorelle, al punto da essere in grado di leggersi dentro anche solo guardandosi negli occhi.
Gwendolyn avvertiva l’inquietudine di Naisha, perché stavano navigando verso un mondo che non era il suo, e dal quale – era certa – non sarebbe mai stata accettata.
«So a cosa stai pensando, Nash, ma non devi preoccuparti, ci sono io qui con te, e ho tutta l’intenzione di restarci». Il sorriso luminoso che le rivolse era tutto per lei.
 
La loro profonda amicizia era nata diciassette anni prima, e aveva avuto origine da quando il conte, azionista di maggioranza della Compagnia delle Indie Orientali, si era trasferito a Calcutta per seguire più da vicino i suoi affari, portando con sé la bella e giovane moglie.
Ma Aurelie de Lamaire-Dufour era un fiore troppo delicato: sradicata dall’esistenza ovattata di Castle Howard, nel North Yorkshire,  debilitata dal lungo viaggio, mal sopportava il clima indiano e, dopo aver portato avanti con difficoltà una gravidanza non semplice, era morta a poche ore dal parto tra atroci sofferenze. Così Gwendolyn, appena venuta al mondo, era rimasta da sola con un uomo che, attonito, non riusciva a realizzare di avere una neonata da crescere. La scelta di una balia che la allattasse era ricaduta su Chandra, una domestica della loro residenza a Calcutta, che aveva partorito da poco una bambina, Naisha.
Il conte avrebbe preferito di gran lunga che sua figlia fosse affidata a una donna bianca, ma si trovava in India, un’infinità di miglia lontano da Londra, dall’altra parte del mondo civile, e l’alternativa sarebbe stata affrontare mesi di viaggio per mare per riportarla in Inghilterra, con il rischio di metterne a repentaglio la vita.
Dopo una nottata insonne a rimuginare su tutte le varie possibilità, esasperato dal pianto incessante della piccola creatura innocente che non si dava pace, crollò davanti all’inevitabile.
Lord Charles Howard, conte di Sutherland, maledicendo il proprio destino avverso, aveva ingoiato quel boccone amaro, consapevole della propria impotenza, e lasciato che la giovane Chandra attaccasse al proprio seno la piccola Gwendolyn. Guardava con rassegnazione l’immagine della donna dalla pelle scura con in braccio la sua bambina, la manina bianca che si aggrappava alle vesti indiane come a tenerla più vicino, la piccola bocca famelica che suggeva deliziata e appagata quel bianco nettare.
Da quel giorno, il giovane conte di Sutherland iniziò a trascorrere intere giornate chiuso nel suo studio privato a sorseggiare brandy stravecchio – rigorosamente importato dalla Madrepatria – mentre accarezzava con gesti lenti la bandiera inglese custodita con grande cura in uno dei cassetti della sua scrivania, per non dimenticare quale fosse la sua origine in quel posto dimenticato da Dio
 
Così le due bambine furono inseparabili fin dalla nascita. Tra di loro vi era una comunanza di ideali e di sentimenti che neanche un legame di sangue avrebbe potuto creare.
«Tutta colpa di quel latte indegno», diceva sempre Sir Charles, «maledetto il giorno che ho permesso un simile abominio».
Ma sua figlia non l’ascoltava, anzi. Appena suo padre si allontanava, correva dalla sua compagna di scorribande, alla quale confidava tutte le sue ansie e le preoccupazioni, e dalla quale si lasciava consolare.
Insofferente agli obblighi del suo rango, Gwendolyn mal sopportava le imposizioni di Mrs. Collins, la governante, che cercava disperatamente di farla diventare una perfetta nobildonna inglese, mentre suo padre la guardava da lontano, scuotendo la testa con disapprovazione di fronte alle sue ribellioni.
Naisha era sempre lì. L’attendeva con pazienza infinita e silenziosa dedizione, sempre pronta a raccogliere le sue più recondite confessioni in momenti di comprensione sconfinata.
Ogni volta che venivano scoperte a compiere qualche piccola marachella, si difendevano a vicenda, finendo inevitabilmente con l’essere punite tutte e due.
Con il passare del tempo, il legame esistente tra di loro, già molto forte, si mutò in qualcosa di più profondo e intimo fino a quando, durante l’estate dei loro sedici anni, non accadde quello che avrebbe segnato per sempre le loro esistenze.
 
Quell’estate era calda e soffocante, con un’umidità che rendeva difficile anche il solo respirare. Gwendolyn era sfuggita all’ennesimo rimprovero di suo padre e, senza farsi vedere, era uscita in giardino dove lei l’aspettava.
«Eccomi» sussurrò, perché nessuno la sentisse. La bocca di Naisha si aprì in un largo sorriso, scoprendo i denti bianchissimi in splendido contrasto con la pelle scura e con i lucenti capelli corvini.
Le nuvole basse erano gonfie di pioggia: era la stagione dei monsoni, e la terra indiana, surriscaldata dal sole, stava richiamando l’aria carica di umidità proveniente dal mare. Di lì a poco avrebbe iniziato a piovere, lo sapevano bene: attendevano sempre con trepidazione quelle gocce rinfrescanti.
«Vieni, Nash, andiamo». Gwen prese la mano dell’amica e la trascinò lontano, verso il loro cedro, sotto il quale avrebbero potuto sedersi per trovare un briciolo di tranquillità.
Sbuffando, la giovane inglese si lasciò cadere a terra stropicciando il vestito di mussola azzurra che, quella mattina, aveva indossato sopra la crinolina.
«Cosa c’è che non va? È sempre tuo padre a farti arrabbiare?» chiese Naisha guardandola con tutta la tenerezza di cui era capace. Quel giorno, però, nei suoi occhi neri passò un lampo di qualcosa che Gwen non riuscì a decifrare.
Sembrava inquieta e triste al tempo stesso.
Così, contrariamente a quanto faceva di solito, Gwendolyn ebbe un attimo di esitazione ad aprirsi con lei. Poi, però, decise per raccontarle tutto.
«Ho scoperto che mio padre sta intrattenendo una corrispondenza con il Colonnello d’Ambray. Ti rammenti? È stato qui lo scorso inverno…»
Naisha annuì senza dire una parola. Il suo cuore perse un battito.
Ricordava perfettamente il giovane ufficiale che aveva frequentato la loro dimora alcuni mesi prima, i suoi occhi blu come i lapislazzuli che ornavano alcune statue induiste, il suo portamento nobile e, soprattutto, la sua arroganza nel rimarcare la superiorità inglese rispetto agli indigeni.
Deglutì nervosamente distogliendo lo sguardo, fissandolo verso i nuvoloni neri che avanzano sopra di loro.
«E…» disse con un filo di voce, aspettando che l’amica terminasse quella confessione pesante come un macigno.
«… e mio padre gli ha promesso la mia mano».
Fu come se una lama sottile le avesse squarciato il cuore in due.
Lalita, la sua Lalita, si sposava…
Alcune gocce cominciarono a cadere, diventando via via sempre più fitte, infradiciando le vesti e i capelli e mescolandosi con le lacrime che ormai scendevano senza ritegno, mentre i singhiozzi scuotevano il corpo sottile della giovane hindi.
«Nash, ti prego, non piangere…» Gwen si avvicinò all’amica abbracciandola stretta «Ti prego, non fare così… io… io non voglio sposarmi, troverò un modo, vedrai. Io voglio stare solo con te».
A quelle parole, Naisha si sciolse tra le sue braccia, gli occhi ancora umidi di lacrime e pioggia brillavano d’emozione.
L’acqua continuava a scendere incessante, di nuovo quella sensazione di desiderio e timore che, ormai, non potevano più ignorare.
Con una lentezza esasperante, Naisha posò le sue labbra su quelle di Gwen, in un bacio dolcissimo che sembrava aver dilatato il tempo intorno a loro.
«Main tumse pyar karta hoon» le sussurrò nella sua lingua natia, «ti amo», aggiunse sorridendo.
«Ti amo anch’io» disse la giovane inglese, prima di posare nuovamente la bocca sulla sua.
 
Gwendolyn e Naisha scoprirono, così, la bellezza di quell’amore, puro e unico, che le travolse con la potenza di un monsone, anche se sapevano di non avere alcun futuro insieme.
Appartenevano a due società che, pur essendo agli antipodi, emarginavano senza pietà il loro amore proibito. Sarebbe stato uno scandalo senza precedenti che avrebbe fatto tremare le fondamenta della nobiltà britannica.
Per questo motivo, si sforzavano di mantenere la loro storia segreta, anche se Lord Sutherland, vedendole sempre insieme, cercava di tenere occupata la figlia con vari pretesti. L’ultimo, quello di cucire una nuova bandiera del Regno Unito, da esporre in occasione del ventennale dell’incoronazione della Regina Vittoria.
La giovane, però, accampò mille scuse per evitare di portare a termine quel lavoro. A differenza di suo padre, quel pezzo di stoffa blu, bianco e rosso era solo il simbolo della tracotanza inglese nei confronti del popolo indiano, e non provava alcun orgoglio né nel cucirlo, né nell’esibirlo.
Deluso da tale comportamento, Sutherland attese con pazienza l’occasione giusta per ristabilire l’ordine delle cose. 
 
Quando, nel maggio del 1857, scoppiò la rivolta dei Sepoy, l’esercito regolare di indiani creato dagli Inglesi al servizio di Sua Maestà la Regina, il conte iniziò a programmare il loro definitivo rientro in patria in quanto una loro ulteriore permanenza in India sarebbe diventata piuttosto pericolosa.
Forse, allontanando la figlia da quei luoghi, ne avrebbe purificato l’anima dal contagio insano di quella terra che l’aveva resa ribelle e completamente disobbediente all’autorità paterna. Sarebbero tornati alla civiltà, Gwendolyn avrebbe sposato il Colonnello d’Ambray e ripreso il posto che, per diritto di nascita prima e acquisito per matrimonio poi, le spettava nella società inglese.
Niente e nessuno avrebbe ostacolato i suoi progetti.
Sorrise a quel pensiero, mentre con una mano sorseggiava il suo consueto bicchiere di brandy e con l’altra stringeva con forza la bandiera, tirata fuori dal cassetto della scrivania, come se fosse la sua unica ancora di salvezza.   
 
Ma non aveva fatto i conti con la testarda volontà di sua figlia.
Non potendo ribellarsi alla volontà paterna, acconsentì a tornare in patria portando con sé la giovane indiana.
A nulla erano valse le proteste di suo padre Charles, che non condivideva la scelta della giovane di imbarcarsi con la ragazza indiana.
«Sei impazzita, per caso?» aveva sibilato esasperato l’uomo, battendo con violenza la mano aperta sulla scrivania dello studio, «cosa penseranno tutti, vedendola arrivare al tuo fianco?»
«Non mi interessa, padre. O Naisha viene con noi, o non parto.»
«Tu non ti rendi conto, Gwen, non puoi portare quella… quella ragazza in Inghilterra! Lei è diversa da noi, da te…»
«Siete proprio sicuro che sia lei, quella diversa?» Gwendolyn serrò le labbra in un sorrisetto amaro «Non siamo stati noi ad aver invaso le loro terre? Non li abbiamo ridotti alla stregua degli schiavi?» Il tono della sua voce si alzò di un’ottava mentre la pelle chiara era infiammata dalla rabbia.
«Noi abbiamo portato la civiltà e la cultura in questo posto di selvaggi! La nostra Regina…»
«La nostra Regina Vittoria se ne sta a Buckingham Palace, lontana mille miglia da qui e non ha la minima idea di quello che succede in India! Noi inglesi siamo piombati in questi territori con la forza e con la scusa della civiltà abbiamo distrutto la loro! Come fate a non capirlo, padre?» Gli occhi di Gwendolyn erano ridotti a due fessure. Stava cercando di far ragionare suo padre, ma si era resa conto che ogni sforzo sarebbe stato vano di fronte alla cocciuta ostinazione del genitore, così simile alla sua.
«Naisha verrà con me. E…» esclamò la giovane con quella determinazione che suo padre conosceva molto bene.
«… Dio salvi la Regina» aggiunse con un sorrisetto ironico prima di uscire dallo studio senza salutarlo.
Conservatore fin nel midollo, Charles non condivideva le vedute tolleranti della figlia, ma davanti alla caparbietà di Gwendolyn, dovette cedere: Naisha si sarebbe imbarcata con loro.   
 
Così, alla fine di quello stesso mese, le due giovani furono costrette a dire addio a quel mondo, affascinante e misterioso, nel quale erano vissute fino ad allora. Non si sarebbero più sedute all’ombra del maestoso e profumato cedro, custode del loro primo bacio; non avrebbero più sentito quel misto di fragranze che proveniva dal giardino, tra incantevoli frangipane e immense Bouganvillee.
Avrebbero dovuto salutare per sempre i due magnifici pavoni, simboli di quel paese dai mille contrasti e che, con la loro bellezza, rappresentavano lo sfarzo e la regalità. Ma ciò di cui avrebbero sentito maggiormente la mancanza era il vociare caotico di quella gente, semplice e vera, nei mercati dove si vendeva di tutto e nei quali si confondevano i profumi persistenti delle spezie e quelli dei fiori dai colori vivaci.
La notte prima di partire non riposarono: era troppa l’ansia per quello che sarebbe successo una volta arrivate in Inghilterra. Così, mentre una lacrima solitaria solcava la guancia di Naisha, rimasero distese sotto il loro cedro, abbracciate strette, in silenzio, a guardare l’immenso tappeto di stelle sopra di loro.
  
Più passava il tempo, e più si avvicinava, inesorabile, il momento in cui sarebbero sbarcate a Southampton. Naisha diventava ogni minuto sempre più nervosa: sarebbe stata da sola, in una terra straniera, lontana dal suo mondo, mentre la sua Lalita sarebbe stata costretta a sposare un uomo scelto da suo padre, allontanandosi per sempre da lei.
In mille occasioni Gwendolyn l’aveva rassicurata che avrebbe trovato la maniera per evitare il matrimonio, anche a costo di rifiutare apertamente il suo pretendente, ma a Naisha non bastava.
Aveva paura di perderla.
Si alzò dal letto in preda all’ansia e, dopo aver camminato avanti e indietro nella sua stanza per diverse volte, si infilò il sari di seta verde con un’idea precisa in mente.
Doveva vederla.
Cercando di fare il meno rumore possibile uscì nel corridoio e, non vedendo nessuno nei paraggi, raggiunse velocemente la porta di Gwendolyn.
Sospirando, bussò.
Diede tre colpi forti e due colpi leggeri. Era il loro segnale da quando erano bambine.
«Entra». La voce di Gwen le arrivò come un dolce miele, come un balsamo rigenerante per curare la ferita del suo cuore. Aprì piano la porta.
Lei era lì, distesa sul letto con i riccioli sparsi sul cuscino, e le sorrideva. Le indicò il posto accanto a lei, in un chiaro invito a raggiungerla.
Naisha non se lo fece ripetere due volte, volando letteralmente tra le sue braccia. Era quello il suo porto sicuro, la sua casa, la sua famiglia, il suo mondo.
Ma, come a volte succede, l’amore ci fa diventare imprudenti.
E Naisha aveva solo accostato la porta, dimenticandosi di chiuderla.
 
Il conte di Sutherland, passando davanti alla cabina di Gwendolyn, si accorse dell’uscio appoggiato e, volendo darle la buonanotte – in uno slancio di affetto paterno – lo aprì completamente.
Non riusciva a credere a ciò che vide. Forse era il brandy ad avergli annacquato il cervello, alterandogli la vista, o forse il cibo di cattiva qualità servito sulla nave doveva avergli fatto male. Perché lo spettacolo che gli si presentò davanti agli occhi aveva dell’inverosimile.
L’orrore che provò davanti a quella visione non poteva essere espresso a parole. Sua figlia, la sua unica figlia, era distesa nuda nel suo letto, coperta a malapena dal lenzuolo, e stava baciando appassionatamente Naisha.
Sapeva quanto Gwendolyn fosse affezionata alla sua inseparabile compagna, fin da piccola, ma non pensava si fosse spinta fino a quel punto.
In un attimo vide crollare tutte le sue certezze.
La nobiltà secolare dei Sutherland, l’orgoglio della famiglia, l’obbedienza alla Casa Reale inglese, il rispetto dei suoi Pari, svanirono come bolle al sole.
Con un urlo, le due ragazze si staccarono dall’abbraccio erotico al quale si erano abbandonate, tirandosi addosso il lenzuolo per coprire le loro nudità.
«Padre, lasciate che vi spieghi. Io e Naisha…» iniziò imbarazzata Gwen mentre cercava di spiegare la situazione. Non aveva paura per sé, quanto per la sua compagna, che intanto fissava l’uomo con gli occhi spalancati e atterriti.
«Taci, sgualdrina!»
 Le sua mani tremavano dalla rabbia. «Tu», puntò l’indice contro Naisha, «è tutta colpa tua!»
L’urlo improvviso che uscì dalla sua gola non aveva nulla di umano.
«Tu, maledetta!» I suoi occhi erano iniettati di rosso mentre avanzava nella stanza fino a raggiungere il letto.
Da quel momento, la sua parte razionale si spense, lasciando il posto alla rabbia più cieca contro quella giovane donna che aveva rovinato per sempre le loro esistenze.
Afferrata Naisha per un braccio, la strattonò con violenza costringendola ad alzarsi. «Vi prego, Milord, vi prego, Gwen non c’entra nulla… È tutta colpa mia» balbettò nel vano tentativo di concentrare la collera dell’uomo su di lei.
Aveva sempre difeso la sua Lalita, e l’avrebbe disperatamente fatto anche in quel momento. Il conte, però, non ascoltava né le grida della figlia, che intanto si era alzata per salvare la sua compagna dalla furia cieca del padre, né le scuse di quella ragazza che spinse contro il muro con brutalità.
Le sue mani si mossero da sole, stringendosi attorno all’esile collo con tutta la forza che possedeva, mentre Gwendolyn, inorridita dal gesto del padre e urlando a squarciagola, gli si gettava addosso tempestandolo di pugni e calci.
Ma ogni tentativo fu vano.
Come un fiore che, troppo delicato per poter sopravvivere all’inverno, si lascia bruciare e muore, così Naisha lasciò in silenzio quel mondo nel quale aveva vissuto attimi di felicità intensa e travolgente. 
Impazzito, l’uomo non si staccò neanche quando l’ultimo alito di vita lasciò il corpo di Naisha.
Quando la giovane indiana cadde a terra, Sutherland si guardò le mani.
Aveva ucciso. L’aveva fatto per l’onore della sua famiglia e della sua patria, perché la loro nobile gente non venisse insozzata da esseri quegli esseri inferiori.
Gwen si portò le mani davanti alla bocca, inorridita.
Non poteva crederci, non era vero. Nash, la sua Nash, giaceva a terra priva di vita, la  giovane esistenza spezzata dalla follia di quel pazzo che si definiva suo padre, gli occhi sbarrati e la bocca ancora aperta dall’ultimo, disperato tentativo di incamerare aria.
Gwen cominciò a tremare scossa dai singhiozzi.
«Cosa avete fatto! Cosa avete fatto!», urlò, «L’avete uccisa… siete un mostro!»
Le si inginocchiò vicino e la prese tra le braccia, con tutta la delicatezza possibile.
«Nash, Nash, rispondimi, ti scongiuro!» Se la premette addosso, stringendola forte, «non lasciarmi, non lasciarmi… ti prego» singhiozzò tra le lacrime.
Suo padre era ancora lì, in piedi, incapace di proferire parola di fronte alla disperazione della figlia.
«Maledetto voi e tutta l’Inghilterra! Io… io non mi sposerò mai. E se non posso più avere Naisha…» diede un ultimo sguardo alla sua giovane amante, immobile tra le sue braccia «… preferisco morire ».
L’adagiò dolcemente sul pavimento e, adocchiato un piccolo tagliacarte d’argento poggiato sullo scrittoio, lo afferrò e, rivolgendolo contro sé stessa, lo spinse con tutta la forza che aveva nel suo stomaco.
Un dolore lancinante, che non aveva mai provato in vita sua, le squarciò le viscere, mentre il suo sangue iniziò a sgorgare inarrestabile, inzuppandole la camicia da notte e fluendo a terra.
Barcollando, tornò vicino a Naisha: era bellissima anche nella morte. Le prese una mano e se la portò alla bocca, baciandola. Sentiva freddo, tanto freddo, mentre la vista si appannava sempre di più.
La giovane lady aveva fatto la sua scelta.
Se non poteva vivere senza la sua Nash, non sarebbe vissuta affatto.
Chiuse gli occhi.
L’ultima immagine che rivide nella sua mente, fu quella di due bambine sorridenti sotto un grande cedro.
 
 
 
Nota dell’autrice:
Questa storia partecipa al contest “Evocami col mio nome, ti svelerò i miei segreti – Edizione speciale Setsy&Mystery” indetto da Setsy e mystery_koopa sul Forum di EFP.
Il pacchetto scelto è il n. 6, “God Save the Queen”, tra i generi proposti ho scelto lo storico e il femslash. L’oggetto è Union Jack ( la bandiera inglese ),
Prompt 1: Durante il regno di Vittoria come Imperatrice delle Indie (1837-1901) uno o ambedue i vostri personaggi vivono in India, o sono tornati in Inghilterra dopo una lunga permanenza nella colonia
Passiamo ai crediti. La frase iniziale è ripresa dalla canzone “ Forbidden Colours”, colonna sonora del film “ Merry Christmas Mr. Lawrence”, nella versione italiana “Furyo”.
I personaggi sono originali. I nomi delle Casate dei Sutherland e dei D’Ambray sono realmente esistiti, come esiste Castle Howard.
Nel 1857 è avvenuta realmente la rivolta dei Sepoys, i militari indiani al servizio degli inglesi durante il dominio britannico.
Il nome Naisha significa “ speciale”, mentre i nomi Lalita e Nash sono comunque nomi femminili.
Chiedo scusa se ho scritto qualcosa nella lingua hindi che non corrisponde al vero: ho fatto le mie ricerche come meglio ho potuto.
 
 
 




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