Constraints, Compromises and
Choices
I rami del gelso al di fuori della finestra crepitano e tremolano stagliando
sulla carta da parati quelle che a Levi appaiono, beffarde, come le dita aguzze
di un’arpia.
Erwin ha acceso il camino da un po’, e la stanza si è già riempita di quello
stesso tepore morbido che la pelle del capitano percepisce come troppo simile a
quello dell’infermeria, e non va bene.
O meglio, non sa dire nemmeno lui se va o non va bene. È tutto estremamente confuso.
Non c’è un singolo centimetro della sua esistenza che in questo momento non
stia urlando, implorando un segnale, qualcosa che gli permetta di muoversi e
scattare fuori da quella porta contro cui, invece, si ostina a restare ritto,
immobile come un dipinto.
“Come ti senti oggi, Levi?”
La sua mancata risposta è ciò che Erwin si aspetta.
Levi lo sa, e gliela serve su un piatto d’argento.
“Se possibile, vorrei evitare di dover chiamare Hange
e ripetere quanto è accaduto di ieri. Concorderai con me che è stato oltremodo…sconveniente.”
Levi si guarda intorno, rifugge lo sguardo e i
pensieri altrove.
“Hai spostato la poltrona,” constata, atono.
“La luce è migliore vicino alla finestra”
“E hai anche fatto le pulizie”
“So quanto ci tieni ad un ambiente pulito”
In una situazione qualunque, il capitano a questo
punto accennerebbe ad un sorriso, proprio come fa Erwin quando si avvicina al
lume sul tavolino di fianco alla poltrona e, con un gesto veloce della mano, fa
oscillare un paio di volte sulla fiamma una piccola ampolla in vetro che Levi,
purtroppo, riconosce.
“Allora,” Il comandante crolla sulla poltrona, il fazzoletto di buona fattura
contro cui sfrega le mani che ha appena sciacquato recano l’elegante ricamo
delle sue iniziali. “Vieni sulle mie gambe.”
Colpisce la stoffa dei suoi pantaloni un paio di volte; il tempo necessario al
cuore di Levi di perdere uno o due battiti.
Erwin non è uno stupido, Levi lo sa. Non si aspetta
che si pieghi così docilmente al suo ordine, anche se il modo in cui
scosta il mento di lato e stira gli angoli delle labbra vorrebbero far credere
il contrario.
“Come ho già detto, preferirei evitare di dover chiamare Han—”
“Fanculo, ho capito!”
Lo interrompe, nauseato. Il pomello della porta contro
cui poggia la sua schiena, all’improvviso, prende a spingere in un modo troppo
simile al quello con cui hanno spinto le mani della quattrocchi di merda il
giorno prima, e il puzzo del cuoio del lettino contro cui è stato immobilizzato
gli sembra di sentirlo esplodere davvero nelle narici, riportandogli in bocca
le stesse imprecazioni che un ritorno di bile, allora, aveva censurato.
“Non innervosirti, non ne hai ragione” dice Erwin, e diavolo, quand’è che gli
si è avvicinato così tanto da ritrovarsi le sue mani intorno ai fianchi? “Se saprai mantenere la calma, non ci
metteremo che una manciata di minuti.”
Levi non sa se è
volontario o involontario, il modo di Erwin di rimandare anche nella cadenza la
frase del giorno prima di quell’essere anomalo che tutti lì dentro si ostinano
a considerare un grande erudito della scienza moderna.
Ciò che sa, è che i peletti delle sue braccia si tendono come spade, unendosi
al grido uniforme dei suoi sensi verso quell’ordine che non arriva, che tarda–
che ha volutamente deciso di ignorare.
Erwin porta le mani sulla cintura dei suoi pantaloni,
e lui non gli urla, non ringhia, non si scosta neanche. Immobile, lascia che il
comandante armeggi con fibbie e bottoni, che cedono e cadono sotto le dita con
una semplicità che non avrebbe mai detto.
Ed è il caos. È alto tradimento.
Il suo corpo va in tilt, e si rivolta.
“Togli i pantaloni e stenditi. L’ho anche riscaldato un poco, lo renderà meno sgradevole.”
“Non potrei—” Levi preme il dorso della mano contro la
bocca, finge di non star ricacciando la nausea da dove è venuta, focalizza la
sua attenzione in un punto lontano. “Non potrei distendermi sul tuo divano,
invece?”
Erwin valuta la proposta, poi scuote la testa. “Forse in futuro, quando avrai
dimostrato di essere più collaborativo. Per oggi, preferirei averti qui sulle
mie gambe.”
Gli orli della sua camicia ricadono morbidi su quei
centimetri di pelle nuda che i suoi pantaloni slacciati non riescono più a
contenere. Levi fa l’errore di abbassare gli occhi e prenderne atto.
“Perché mi fai questo, Erwin?”
“Perché voglio il tuo bene, Levi”
È il modo in cui lo guarda; in cui solleva quegli
occhi blu, sinceri e autoritari, che lo spiazza.
Entrano in contatto con qualcosa di estremamente vulnerabile che Levi cela da
sempre dentro di sé e di cui non riesce a sbarazzarsi.
E a quel punto, sente che gli concederebbe di tutto,
davvero – di tutto. Anche quella mano sul bacino spigoloso, che preme
piano ma decisa, permettendo all’altra di raggiungere il suo torace, e cingerlo
guidandone i movimenti a piacimento.
“Cristo, non riesco davvero a crederci—” è il suo modo di dire addio alla
volontà, che sente fuoriuscire dalle sue carni nel momento in cui si lascia
curvare da Erwin sulle sue gambe tiepide con una gentilezza così paradossalmente
assolutista, da capire di non avere più alcuna voce in capitolo.
“Ho visto anche io l’entità delle tue ferite, ieri. Non posso permetterti di
trascurarle.”
“Che diavolo stai dicendo, razza di idiota. Lo hai visto anche tu, sono
solo caduto su di un ramo durante una esercitazione!” protesta, ed Erwin
rafforza la stretta intorno al costato, le dita che raggiungono la sua spalla
tamburellano come a volerlo richiamare anche a qualcos’altro, oltre che alla
calma.
“Rilassati,” ordina, perché è certo possa sentirlo anche lui, il modo vergognoso
con cui il suo cuore ha preso a battergli contro le cosce, “Le tue ferite sono
serie, lo ha detto anche Hange.”
“E tu ti fidi davvero di tutte le cazzate che escono
dalla fogna di quella quattrocchi di merda?!” sbotta.
Il palmo sulla sua schiena, Levi è certo che lo stia
strofinando un po’ anche in segno di scuse per il modo in cui gli sta cingendo
con una sola mano i polsi, forse nell’insensato timore possa essere lì lì per puntellare i gomiti e balzare in piedi.
“Le sue intuizioni in ambito medico si sono sempre
rivelate adeguate, e lo sai anche tu. Il fatto che tu oggi sia qui ne è la
prova.”
Levi sa che non può discutere oltre. Non dal momento
in cui permette alla mano di Erwin di spostarsi dalla schiena ai bordi dei suoi
pantaloni, insinuandosi sotto i lembi della camicia sfatta.
Quello è un punto di non ritorno, pensa. E non sbaglia.
Se avesse voluto davvero fermarlo, avrebbe dovuto farlo prima, ma non lo ha
fatto.
Lo sente, mentre Erwin afferra il tessuto e la sua
pazienza in punta di dita, e gli piace credere che un briciolo di esitazione
sia comunque albergata in lui quando, in apparenza senza indugi, lo priva della
biancheria e insieme ad essa, di qualcosa che non conosce, ma la cui assenza
gli infiamma ora in petto e in gola.
Strozza un grugnito, stringe le spalle più per la
delusione di essersi lasciato sfuggire quella debolezza che per ciò che sta
avvenendo dietro di sé. Ed Erwin se ne accorge.
Perché Erwin sa.
“Shhhh, stai calmo—"
“Maledizione,” sbriciola Levi tra i denti.
Inclina la testa, lascia che la fronte ciondoli un po’oltre le gambe di Erwin,
prima che questo gli raccolga i polsi al petto e li cinga con il suo braccio,
che torna ad ancorarsi alla stoffa sudata della sua scapola.
“Stai calmo, Levi—” ripete, forse un po’ più autoritario di quanto vorrebbe.
Erwin modera subito il tono, lo tira a sé, avvicinandolo al suo ventre più di
quanto già non lo sia.
“Davvero, non c’è ragione di essere così tesi. Non è un trattamento doloroso.”
Levi sarebbe d’altro avviso, o per lo meno, potrebbe
trovare due o tre punti a cui appellarsi, se solo rivangare ciò che è avvenuto
il giorno prima non gli procurasse una umiliazione maggiore di quanto non lo
faccia adesso il tacere e sopportare.
Sente Erwin divaricare le gambe, ricercando un modo
per accomodare meglio il suo corpo su di sé.
“Va tutto bene? Stai comodo?”
E spera che l’occhiata tagliente che gli ha appena
rivolto possa in qualche modo dargli un’idea delle dimensioni titaniche
dell’idiozia che ha appena sparato.
Lo sente deglutire. “In effetti, forse non era una
domanda da fare—”
Almeno, la soddisfazione di vederlo per qualche
istante in difficoltà, se la prende.
Sulle gambe di Erwin però, il suo corpo ci entra tutto, e ci entra bene.
Levi è costretto a riconoscere
che neppure le tra le fauci di un gigante ha mai percepito il suo corpo così
piccolo come lo percepisce adesso, e questa ambivalenza tra il terrore e
qualcos’altro che non ha nome, e che lo fa restare immobile lì dov’è, lo
destabilizza.
Erwin gli ripiega gli orli della camicia sulla
schiena, e Levi può sentire l’aria brodosa della camera pesargli sulle natiche
esposte prima ancora che pantaloni e mutande vengano fatti scivolare ancora più
giù, sino alle caviglie.
Il silenzio che segue, è una battaglia interiore che
Levi può intuire ma non può udire, né tanto meno prendervi parte.
“Non avrei dovuto stringerti in quel modo ieri– mi
dispiace davvero…”
Levi tace.
Non ha avuto voglia di guardare lo stato dei suoi lividi, ma ora li immagina
come mazzi di fiori secchi, dai colori cupi e brulicanti di insetti.
“È stata Hange.” gli getta in pasto.
“No,” sospira Erwin, mesto “sono stato io.”
Levi insacca le spalle adesso libere di muoversi, le
rilassa e le sgranchisce un po’, perché la mano che prima le bloccavano, adesso
è sulla sua nuca, a tracciare con dei movimenti del pollice nuove forme di
perdono, e quel punto, poco importa se con l’altra sta sondando quei bozzi
tumefatti che, pochi minuti prima, non avrebbe permesso neanche ad uno specchio
di guardare.
Erwin ha dei pantaloni appena lavati; diversi da quelli che ha indossato per
tutto il giorno.
Levi riconosce l’odore del suo sapone solo adesso che per la prima volta osa
arrivare sino in fondo al respiro che tira con la fronte affondata tra le trame
della sua stoffa.
“Ok, passeremo un po’ di unguento anche su questi, dopo—”
Ed è quel dopo che rovina tutto.
Quello che stona con qualsiasi altra favoletta della
buona notte si sta raccontando per non pensare troppo al fatto di essere
carponi e con il culo alla mercé del comandante del corpo di ricerca,
come un moccioso disobbediente in attesa di una punizione.
Erwin si rigira i polsi delle maniche sul braccio, fa
schioccare la lingua nel palato sopprimendo un ulteriore commento forse troppo
inopportuno, prima di tornare a fermare la sua schiena con un braccio.
Perché è chiaro che sta succedendo qualcosa: di sicuro, Erwin lo ha percepito
dal modo in cui si è irrigidito nel momento in cui ha inarcato il piede
sollevando un po’ il ginocchio che sorregge la sua metà inferiore, e diavolo…
Diavolo.
“Buono, adesso.”
Levi freme, stringe gli occhi quando avverte le dita e
la voce del comandante premere l’interno della sua natica intirizzita e
separarla dall’altra.
“Merda—” soffoca in un bisbiglio umido contro la
sua coscia e che ben presto avrà più di un alone.
Per qualche istante, nella stanza non sembra esserci
nessuno. Il silenzio si è abbattuto su di loro come una pestilenza, e se non
fosse per lo scoppiettio della legna del camino che di tanto in tanto si fa
vivo, a Levi sembrerebbe quasi di far parte adesso di un altro mondo, forse una
dimensione onirica fatta di sudore freddo, muscoli tesi e cuori che cambiano di
continuo il loro posto.
Trema, quando Erwin sposta la sua mano ruvida
nell’altra natica, scostandola e osservando ancora qualcosa che Levi non
capisce come possa trovare interessante.
Una sorta di gemito lascia la sua gola quando il suo tocco risveglia un
fastidio sopito e si agita piano sotto il braccio di Erwin che lo trattiene
nella posizione dovuta.
“Dovresti davvero lasciare che Hange ti esamini come
si deve e valuti l’evoluzione di queste ferite, Levi…”
“Preferirei ingoiare la lingua piuttosto che farmi
frugare di nuovo il culo da lei.”
La rabbia gli fa vibrare tutto il corpo a partire dalle spalle che Erwin si
ostina a fermare.
Levi sa che ad Erwin basterebbe un solo schiocco di dita per avere lì Hange e
permetterle di fare ciò che reputa giusto (e il concetto di giusto di
Erwin, in questo caso, si discosterebbe spaventosamente dal suo) e il pensiero
è sufficiente per sentire i polmoni implorare più aria di quanto il torace
capovolto riesca a immagazzinare.
“Non c’è traccia dell’unguento. Non ci sono neanche le
bende che Hange ti aveva detto di tenere almeno sino alla nuova medicazione, e
inoltre, non ricordo di aver visto un tale arrossamento sulle ferite, ieri…”
“Perdonami se ho avvertito la necessità di cagare e poi, nel rispetto delle
elementari norme di civile convivenza, io abbia deciso di lavarmi.” raschiando
bene con la spugna in crine per eliminare ogni singola, appiccicosa traccia
delle dita di quella quattrocchi di merda, dovrebbe aggiungere, ma
sarebbero dettagli superflui.
Erwin non gli rammenta le raccomandazioni di Hange di
tornare da lei per una nuova medicazione in caso fosse andato in bagno, sa che
sarebbe tutto inutile. Del resto, quella ficcanaso del cazzo lo aveva
cinguettato fastidiosamente mentre lui schizzava fuori dall’infermeria
sacrificando parti di indumenti e di dignità in nome di una libertà
riconquistata quando le mani che lo avevano immobilizzato allentarono la presa,
e no.
Levi sa che non è davvero così stupido da farlo.
“Va bene, non agitarti—”
“Non voglio essere di nuovo toccato da quella psicopatica.”
Viene fuori quasi come una supplica, e il disgusto gli infiamma le gote più di
quanto non lo faccia già.
“Ho detto va bene, Levi. Non chiamerò Hange. Ce la
caveremo insieme, io e te.”
E quell’io e te, fosse anche la bugia del secolo,
è capace di edificare un intero mondo.
Avverte il bacino di Erwin ruotare, piegarsi e
allungarsi; Levi solleva la testa appena in tempo per non perdersi il bel
fazzoletto ricamato venire immerso nel bacile accanto al bracciolo della
poltrona, per poi distogliere in fretta lo sguardo quando incrocia quello
sereno di Erwin.
Aspira rumorosamente tra i denti nel sentire di nuovo
il suo tocco sulle sue natiche, rabbrividisce quando l’acqua contenuta nel
fazzoletto, tiepida ma che il suo corpo registra come gelida, si posa sulla sua
pelle scorticata.
“È un po' fredda, lo so. Ma ti ci abituerai subito."
E Levi vorrebbe davvero che Erwin sbagliasse qualcosa, che facesse un passo
falso, che pronunciasse una parola sbagliata anche solo di un pochino. Quel
tanto che gli permettesse di riprendere le redini del proprio corpo, delle
proprie emozioni e sensazioni, e mandarlo finalmente a fanculo.
Ma Erwin è in una botte di ferro chiamata perfezione e qualunque
speranza di ribellione alberghi nel suo corpo, smette di esistere di fronte
quel concetto di cui Erwin stesso ne è l’emblema.
“Tutto ciò—tutto ciò è disgustoso.” mormora a occhi
stretti, senza troppa forza nella voce.
“Riconosco possa essere fastidioso, ma disgustoso? Mi sembra un’esagerazione.
Non c’è niente di cui disgustoso nell’occuparmi delle ferite di un mio subordinato—”
“Piantala, non parlarne come se tutto questo fosse normale.”
O come se lui fosse un qualunque ‘subordinato’.
“A me sembra perfettamente normale…”
Tampona un’area dove, forse, ci è andato un po’ più pesante di quanto non abbia
fatto altrove con quella sua spugna in crine. Levi sobbalza, sfiletta il
respiro tra gli incisivi.
“Normale? E dimmi, ti capita spesso di tenere i tuoi subordinati
sulle gambe come marmocchi in attesa di una sculacciata? È così che punisci le
reclute disobbedienti, forse?”
Erwin ride sommesso “In effetti, potrei unire l’utile
al dilettevole e punirti per aver nascosto ferite simili per giorni,
prima che Nifa notasse qualcosa di strano nel tuo
modo di camminare e lo riferisse ad Hange.”
“Nifa? Dunque è stata Nifa?”
volta la testa di scatto. Erwin non si scompone.
“È la pupilla di Hange, dopotutto. Sta apprendendo da
lei.”
“È morta. Quella smidollata di merda è morta.” giura,
fissando i piedi del tavolino.
Grugnisce quando il fazzoletto, fresco di nuova acqua, va piano, con cautela
a sfiorare i bordi del suo orifizio lacerato. Non è pronto a quel contatto, a quella violazione.
Contrae le anche, tenta istintivamente di sottrarsi a quel tocco, ma non può. Perché
è lesto Erwin a bloccargli il bacino contro la sua coscia, non deve neanche
stringere troppo perché si immobilizzi da sé come un animale braccato, come se
quella parte del corpo non appartenesse più solo a lui.
“Non agitarti,” dice, severo “ho quasi fatto,”
Erwin intinge di nuovo un lembo del fazzoletto, e le
iniziali del suo nome grattano ruvide la pelle scorticata come a sancirne
l’appartenenza. Mentre lo sente tamponare lento tutt’intorno, Levi serra le
labbra, inarca la schiena, e rinuncia a qualcosa che credeva esclusivamente
suo.
“Fatto. Ho finito.”
Levi giurerebbe stia mentendo, ma in realtà non è
così, o quasi.
Erwin mette via in fretta il suo fazzoletto, e Levi decide di crederci un po’ a
quella bugia. Ma la verità, è che per quanto Erwin abbia tentato di camuffare
il suono all’interno del suo pugno, il pop del tappetto dell’ampolla di
vetro sopra la sua testa lo sente distintamente, e a quel singolare odore di
erbe ammuffite che ieri aveva permeato ogni singolo centimetro del suo incubo,
il suo corpo reagisce nell’unico modo in cui è in grado di reagire: vibrando e
raggrinzendosi.
“So che ieri non è stato bello, e so anche che mi stai
odiando per questo; ma possiamo provare insieme a renderlo meno traumatico.”
Levi non ha neanche il coraggio di rispondergli come
la situazione meriterebbe. Brandelli
di un lamento si innalzano nell’aria come piccole cariche pronte a brillare, e
per evitare il peggio, Levi sposta la testa, serra gli occhi, si ritrova adesso
a boccheggiare contro l’ampio inguine di Erwin.
“È ancora tiepido,” Erwin immerge due dita nel
flaconcino, ne tasta la consistenza densa e vischiosa e Levi lo sbircia con la
coda dell’occhio, lo vede filare tra l’indice e il medio come fosse qualcosa
generato dal suo corpo, e cazzo – cazzo.
“Prova anche solo a sfiorarmi con quella roba e sei
morto”, pronuncia senza convinzione, forse perché si accorge già nel momento in
cui la sua lingua lo articola che in realtà, è solo un lascito del passato; un
souvenir di quella quattrocchi di merda pervertita, e che adesso non ha
alcun senso.
Tuttavia, Erwin non lo sa, o forse sì – ma ad ogni
modo, il sorriso bonario che si forma sulle sue labbra, Levi ha l’impressione
che Erwin glielo avrebbe donato in ogni caso.
“Levi,” morbido, la sua lingua sfiora il suo nome come fosse la cosa più dolce
all’interno delle tre mura.
“Tu ti fidi di me, non è così?”
E di fronte a questa domanda, Levi può solo ammutolire, affondando le unghie
nei pugni che Erwin gli accarezza e in cui trascina con sé piccoli lembi dei
suoi pantaloni.
Erwin rotea il bacino, dando finalmente un senso ai
rotoli di bende appostati sul tavolino.
“Mi ero ripromesso di legare i tuoi polsi per
sicurezza, in caso non fossi rimasto fermo, ma credo non sarà necessario – non
è così?”
Erwin posa il palmo della mano sulla sua fronte dove
il sudore freddo ha già dato una risposta per conto suo. Finge casualità nel
tastarla. Poi, lascia che scivoli verso la mascella, sollevandogli infine il
mento che guida affinché incroci il suo sguardo.
“Non è così, Levi?” e Levi, Dio lo perdoni, chiude gli occhi e annuisce.
“Bene,” Erwin gli permette di rannicchiarsi ancora, di
scomparire tra i suoi muscoli infiniti, e non ha nulla da ridire nemmeno quando
sussulta nel sentire di nuovo quel ginocchio mutare angolazione.
“Se non ti rilasserai rischierei di farti male, e non
voglio—”
La mano che si posa ferma sul suo osso sacro a stabilizzarne l’equilibrio, Levi,
è certo abbia già sentito il modo in cui sta tremando.
“E allora lascia perdere e fammi rialzare—” lo dice solo perché sa che Erwin
non lo farebbe mai.
Erwin soffia dalle narici, divertito “Sai anche tu che non è possibile—”
“Perché lo ha detto la quattrocchi di merda?”
“Perché lo ha detto il tuo corpo.”
E Cristo. Cristo, se è vero.
Lascia che un braccio si tenda verso il ginocchio di Erwin quando sente
entrambe le mani di quest’ultimo tentare di aprirgli le natiche, e a quel
punto, qualunque cosa abbia avuto intenzione di fare, Erwin la interrompe.
“Devi stare fermo, Levi” lo avverte, ancora una volta. “Puoi farlo per me?”
Erwin raccoglie le braccia le struscia un paio di
volte con le nocche e con la voce, prima di portargliele sotto al petto e
lasciare che i suoi gomiti sporgano in fuori come due alucce vibranti.
“Adesso buono—” scandisce ancora, e le mani di Levi, strette in pugno ci
mettono un solo istante ad aprirsi e piazzarsi sulla bocca per evitare che il
cuore gli schizzi fuori quando, cazzo – è davvero il dito di Erwin
quello che sta premendo contro le sue natiche volgarmente allargate?
“Ho bisogno che tu ti rilassi e che stia completamente immobile, Levi. Farò
piano, sarò delicato.”
Sarebbe paradossale se non lo fosse: aveva
raccomandato di esserlo anche a quella stronza del cazzo, nonostante
impiegasse il peso delle sue braccia per bloccargli le anche e le spalle contro
il lettino.
‘Ehi, Hange—' la
voce titubante di Erwin gli rimbomba ancora nelle orecchie; ricorda
anche il modo in cui si era schiarito la gola, ‘fai – fai piano. Sii
delicata. Mi raccomando.’
‘Tranquillo, Erwin – non passerebbe
neanche uno spillo da quel buco, e io non ho intenzione di fare nulla finché
non smetterà di irrigidirsi in questo modo. Oggi non ho nessun impegno
particolare, possiamo stare qui per tutto il giorno. Sentito, Levi? Io ho tutto
il tempo che vuoi, ma vogliamo che Erwin rimanga qui a tenerti fermo come un
bambino capriccioso ancora a lungo, anziché lasciare che si dedichi ai suoi
doveri? Eh?”
“Respira,” Erwin interrompe il flusso dei suoi ricordi
poco prima che diventino intollerabili, ed è un sollievo, anche se la realtà in
cui torna vede l’indice del comandante, ricoperto di schifo bavoso tracciare
dei cerchi intorno al buco del suo culo ferito.
Erwin gli posa una
mano sopra le natiche.
Quelle
di Levi, invece, non si muovono. Sono ancora lì, sotto al mento, dove bende
invisibili le legano proprio sul punto in cui uccide i lamenti prima che
fuoriescano.
Rimangono lì anche quando quella falange, ricolma di abbondante pomata,
comincia a premere attraverso la stretta apertura del suo ano, perché Erwin gli
ha detto di tenerle lì, ed è quello che Levi fa.
Perché gliel’ha detto Erwin.
Lo penetra piano, con gentilezza ma severità.
Dal momento in cui Erwin ha deciso che quel dito sarebbe entrato, sarebbe
entrato. Fine.
Poco importa se superare la resistenza dei suoi muscoli lacerati sia equivalso per
lui ad una serie di fremiti e gemiti.
Erwin li coglie tutti, si assume ogni responsabilità per ognuno di loro; quella
mano che ne accarezza piano la schiena ad ogni respiro mozzato ne è la prova.
“Ti sto facendo male, non è così? Mi dispiace –
resisti solo un altro po’, abbiamo quasi finito.”
Ieri, la quattrocchi di merda con le sue dita lunghe
e appuntite è stata veloce, fredda ed efficace, è vero, ma se ma se esistesse qualcuno al mondo
dalla quale sarebbe disposto a subire una tale umiliazione ancora una
volta, che il cielo ne abbia pietà, le sue labbra sarebbero capaci di
scandire solo ed esclusivamente un nome.
“Er…Erwin—”
“Shhhh—” consola, il rumore viscoso del dito
che abbandona il suo corpo è dissacrante quanto l’irritante sensazione di vuoto
che lascia, “Solo un altro po’— alcune lacerazioni hanno ripreso a sanguinare,
proprio come ieri—”
Levi ha ormai perso cognizione di quanta bava abbia
lasciato sui pantaloni di Erwin tutte le volte che ha soffocato qualcosa su di
essi.
“Non sembra niente di grave,” corregge, forse perché sente qualcosa delle
imprecazioni che disperde nel fiato incerto, “ma dobbiamo sistemarle per bene,
se non vogliamo che sia Hange a doversene occupare,” il dito che raschia contro
il vetro del barattolo è il preludio ad una nuova profanazione alla
quale Levi non è pronto, e vibra.
“Vieni qui,” è un istante. Erwin cambia posizione,
scioglie la croce atrofizzata delle braccia sotto il suo petto, si impossessa
di un gomito che, con naturalezza, porta a dispiegarsi intorno alla sua vita.
“Stringimi pure, se il dolore dovesse diventare insopportabile—”
E Levi lo fa, si
storce; non capisce neanche lui in che modo le sue parti del corpo siano
disperse su quelle di Erwin. Per un attimo, gli sembra come essere intrappolato
all’interno della pancia di un gigante addormentato.
Le punte dei piedi non toccano più le assi del parquet, la vista è oscurata
dall’addome di Erwin che si sostituisce ad un mondo di cui Levi non sente la
mancanza, e anche l’aria che respira, ormai ha solo ed esclusivamente l’odore
della colonia sporcata dal sudore che ritrova ovunque, ovunque, intorno
a sé, e va bene. Va incredibilmente bene.
Va bene nel momento in cui i suoi polpastrelli sondano disperate il fianco del
comandante, e ne assorbono un certo grado di umidità e calore attraverso le
pieghe della camicia.
Al secondo ingresso del dito dentro di sé,
quel calore, Levi, ha l’impressione di sentirlo aumentare.
Strozza
un singulto: questa volta fa più male.
Se il primo dito esplorava solamente, questo fa sul serio. Questo, cura.
Curano anche gli ‘sshhh’ di Erwin in
risposta a quei sussulti che non riesce a smorzare quando il dito ruota e si
sofferma sulle lacerazioni più profonde. Levi sente le proprie guance rigarsi,
il respiro arrestarsi un paio di volte nell’intento di sopportare.
“Un’ultima volta—” annuncia, impietoso, “Prometto che
è l’ultima, per oggi—”
E non sa neanche lui perché non riesca a protestare
così come sta facendo il suo corpo, che gli fa vibrare ogni singolo centimetro
e lo riempie di respiri anomali.
La discrepanza tra ciò che il suo corpo vuole e ciò che realmente fa, è
qualcosa che Levi non vuole investigare.
“Non è facile, lo so – ma tu sei stato così bravo,
Levi—"
‘Così bravo.’
“Puoi sopportarmi un’ultima volta, non è così?”
Il sì, Levi lo sancisce con un cenno del capo
contro il ventre di Erwin, perché è lì che la sua mano libera lo ha portato, e
il modo in cui si mette ad accarezzargli i capelli bagnati della nuca, lascia
pochi spazi ad una risposta differente.
Erwin attende che Levi riprenda fiato, prima di grattare ancora il fondo
dell’ampolla e raccogliere l’ultimo tassello di quel piccolo mondo doloroso
messo su insieme.
Il nuovo ingresso del suo indice, Levi lo sopporta in silenzio, con occhi e
labbra serrate, quasi volesse convincersi di non sentirlo.
Si irrigidisce e sobbalza solo nel momento in cui Erwin va a sfiorare proprio
quelle lacerazioni che più hanno da ridire mentre cammina.
“Abbiamo finito,” prima ancora delle sue orecchie, quell’annuncio Levi lo sente
nell’abisso che ha al posto stomaco. Il capitano allenta la presa dai fianchi
quando lo sente uscire, sfiata contro il ventre di Erwin che non si era neanche
accorto di star stringendo adesso con entrambe le braccia.
Non si azzarda ad alzarsi, però. Qualcosa gli dice che
non può ancora farlo.
Il suo corpo ha subito un colpo di stato, un autentico cambio di potere, e non
è ancora ora per una restaurazione.
Erwin riprende l’unguento, lo sente avvicinarsi pericolosamente alla zona che ha
promesso di non penetrare più, e Levi si irrigidisce; per un attimo pensa abbia
mentito, ma non è così.
Erwin un uomo giusto. È corretto.
Levi arrossisce, si vergogna anche solo di quei cinque secondi in cui ha osato
dubitarne.
“Ne passo un po’ anche qui, sulle lesioni esterne,
come ha fatto Hange ieri—”
Hange però, rinvigorita dalla sua pioggia di insulti,
si è limitata a stendere l’unguento ed applicare le garze in fretta. Non ha
accarezzato, massaggiato, lisciato l’interno delle sue natiche sino al completo
assorbimento del medicamento, né si preoccupata più di tanto di quei punti
pressati dalle dita di Erwin, e che presto sarebbero diventati dei lividi
violacei.
Ma del resto, neanche lui ieri se ne era stato
docilmente sulle gambe di Erwin, privo di fiato, indumenti e volontà.
“Finito tutto,” annuncia ancora, “questa volta, sul
serio.”
C’è qualcosa di strano nel modo in cui il suo corpo
reagisce a quell’ultima garza che Erwin applica poco più sotto del normale.
Sfiora accidentalmente angoli del suo corpo che sino ad ora non sono entrati
nel suo raggio di azione, e trasaliscono entrambi.
Levi più per le scuse di Erwin e il senso di abbandono che ne segue, che per
altro.
“A mio parere, penso sia andata meglio rispetto a
ieri, non trovi?” domanda senza
aspettarsi davvero una risposta, mentre con un garbo tutto suo, gli riporta la
biancheria e i pantaloni ove li aveva trovati.
“Segui i consigli che ti ha dato ieri Hange: niente
movimenti bruschi in questi giorni. Sei esonerato da qualsiasi obbligo militare
sino alla completa guarigione. Parlerò con il cuoco, farò in modo che ti vengano
serviti degli alimenti adeguati alla tua condizione.”
La mano sul fianco è un chiaro segno che può
rialzarsi, ma non lo fa. Attende che sia Erwin a premere il suo palmo contro il
torace in una silente esortazione a lasciare quel grembo sulla quale sembra
essere disteso da secoli.
Levi torna in piedi con lentezza, come se qualsiasi muscolo del suo corpo
andasse in crisi dal momento in cui gli si chiede di tornare a fare il proprio
dovere e sorreggere il suo corpo.
In qualche modo, questa necessità arriva sino ad Erwin, che completa la
vestizione senza che Levi gli dica nulla, né faccia nulla per impedirlo.
“Riesci a camminare?” chiede distrattamente Erwin risciacquando le mani.
“Certo che ci riesco—”
Erwin torna a sedersi, lo fissa per un attimo, poi annuisce.
“Ad ogni modo, per questa sera ti riaccompagnerò io
nel tuo alloggio. Hai subito un trattamento delicato, non voglio che ti
sforzi—”
Gli ha permesso ben altro, Levi lo sa.
Sarebbe davvero il colmo se improvvisamente cominciasse a fare storie perché
Erwin ha deciso di raccoglierlo tra le sue braccia e sollevarlo.
“Ho un paio di documenti da revisionare e un rapporto da terminare – più tardi
ti porterò la cena in camera, tu adesso riposati.”
Levi non dice niente. Sfinito e indolenzito, si limita
a poggiare la fronte contro la sua spalla ed espirare profondamente a occhi
chiusi la colonia mista a sudore di cui ha già nostalgia.
*
“Tu devi essere completamente fuori di testa, Erwin—”
È l’originale bentornato che Hange gli porge al suo
ritorno.
Erwin guarda per un paio istanti il volto imbruttito della
scienziata come se lo vedesse per la prima volta.
Poi, ricorda.
“Ciao, Hange—”
Supera le braccia conserte e lo sguardo inquisitore con cui la sua sottoposta
sembra volerlo sventrare.
Ne sente lo spaventoso peso, non riesce a tacere.
“È andato tutto bene. Non preoccuparti.”
“Tutto bene—?” sbotta lei, voltandosi di scatto,
“Tutto bene!?” ribolle ancora, furiosa.
“Erwin, Levi stava sanguinando! Spiegami come ti è venuto in mente di non chiamarmi!”
“Lo avrei fatto se la situazione fosse degenerata, ma
il sangue si è arrestato subito. È stata mia premura accertarmene
scrupolosamente.”
Hange si toglie gli occhiali; massaggia la base del
suo naso come Erwin le ha già visto fare ogni qualvolta abbia cercato una
risposta lucida in un ammasso di insensatezze.
“Erwin, non erano questi gli accordi.”
“Hange—”
“No, non provare a farmi cambiare idea, comandante! Ti
ricordo che la salute dei soldati è anche una mia responsabilità, e lo è
per tuo volere!”
Erwin smette di rassettare la stanza (o per lo meno,
di fingersi impegnato a farlo).
Si volta, la guarda: è sinceramente preoccupata.
“Avevamo concordato che avresti portato avanti il
trattamento da solo soltanto se non avessi notato dei cambiamenti o, come in
questo caso, dei peggioramenti, rispetto a ieri. In caso contrario, mi avresti
chiamata, a prescindere dal volere di Levi. Altrimenti, a quale scopo farmi
restare per un’ora chiusa nella tua sala da bagno a supervisionare l’intera
vicenda da una maledetta toppa?”
“Hai ragione,” ammette Erwin con una serenità che
proprio non si addice né alla situazione, né alla sfacciata insubordinazione
della sua caposquadra.
Si avvicina, le stringe brevemente una spalla “Ti devo le mie scusa, Hange. Ho
sbagliato, e me ne assumo ogni responsabilità.”
“…ma?” lo anticipa Hange, sollevando un sopracciglio.
“…ma Levi si è fatto medicare. È stato docile e collaborativo, e la considero
una vittoria. Avrei tradito la sua fiducia se ti avessi chiamata.”
Come se non lo avesse già fatto nel momento in cui ha permesso ad Hange di
spiare ogni cosa, sussurra una fastidiosa vocina dentro di sé, ma è qualcosa
che combatterà arroccandosi dietro l’intramontabile ‘l’ho fatto per il suo
bene’.
La scienziata sospira, rilassa i muscoli del volto,
sembra improvvisamente baciata dal lume della comprensione.
“Hai tradito la mia, però.”
“Sono certo saprò riconquistarla.”
“Voglio visitare Levi, Erwin.” schiocca.
Erwin tace.
Doveva aspettarselo.
“Proverò a parlargliene con calma domani.”
“Voglio visitarlo questa sera.” scandisce la scienziata tassativa,
incrocia gambe e braccia sullo stipite della porta.
“Per oggi credo sia il caso di dargli una tregua. Ha già dato.”
“Allora questa notte!” incalza ancora, un bagliore di
eccitazione le illumina lo sguardo dietro le lenti.
“Hange…”
“Potremmo fargli un agguato notturno,
mentre dorme! Ho un sedativo blandissimo che mi permetterebbe di—”
Erwin tossisce, si schiarisce la voce di fronte l’immagine che la sua mente mette
insieme.
“Ti ringrazio davvero per le tue attenzioni e premure,
Hange. Sono certo riusciremo a trovare un punto di dialogo con Levi anche senza
agguati notturni, domani.”
“Ma domani potrebbe essere troppo tardi!”
“Non lo sarà.” Erwin ruota gli occhi, risponde svogliatamente. Di fatto, ha già
smesso di ascoltarla.
“Potrebbe già avere un’infezione estesa, o
un’emorragia interna, o…chissà cosa!”
avanza, gesticolando teatrale.
“Sono certo avremo modo di scoprirlo anche domani,”
“Potrai tenerlo sulle ginocchia come hai fatto oggi, mi è sembrato molto più a
suo agio, e anche tu non sei stato da men—”
“Grazie mille, Hange,” la interrompe, un formicolio
gli punzecchia e riscalda le gote, “puoi andare.”
Accompagna in corridoio e chiude, con tutto il riguardo ancora possibile in una
simile situazione, la porta in faccia alla caposquadra che proprio non cede.
Rimane con sé stesso, con le sue anche contro la porta quasi a temere un
ritorno della loquace scienziata di cui sente ancora il ciarlare e il
blaterale attraverso la porta per un paio di secondi, prima di avvertire i suoi
passi che finalmente, la portano lontano.
Erwin solleva gli occhi di fronte a sé, guarda la stanza con il fuoco ancora
acceso e il camino a fare da sottofondo stonato al silenzio.
Ripensa al fatto che quella è l’immagine che Levi ha visto nel momento in cui entrava
e accettava silente il compromesso trovato.
‘O io, o Hange – scegli, Levi.’ riecheggia nella sua mente, trascinando
con sé un prurito strano, qualcosa che si abbatte lì, proprio sui punti che
hanno sorretto il peso di Levi per tutto il tempo.
Erwin trasalisce, ma solo per un istante. È quanto è disposto a concedersi per
ricordare a sé stesso di essere, dopotutto, ancora un essere umano.
Stira con i palmi i suoi pantaloni sgualciti, porta le mani al viso per
ristabilirne l’ordine.
Quando torna alle sue carte sulla scrivania, è già tranquillo.
La corazza del Comandante Smith è al suo posto.
Fine
____
Note: NON BETATA. Credo
sia il lavoro più ambiguo che io abbia mai scritto sino ad ora.
Non ho niente da dire, se non un drammatico MI DISPIACEH!
Lavoro scritto per la “Kinky,
but not really”
Challenge del gruppo Hurt/Comfort
Italia. Veniteci a trovare!
Grazie per la lettura!