The world on the right
– II parte
–
“Eccola, è questa.”
Marco rammenta ancora
la volta in cui Moblit gli disse di ricordare a memoria la posizione di ogni singolo
volume della biblioteca scientifica del corpo di ricerca; la febbre gli si era
alzata di colpo in un momento in cui né Jean, né Hange erano lì, convocati
d’urgenza alla capitale dopo una spedizione disastrosa.
Moblit aveva allora raccolto un paio di libri, mischiato qualcosa al volo e
gliela aveva fatta bere in fretta; poi, in attesa che facesse effetto, nervoso,
si era seduto al suo capezzale e si era messo parlare. Forse un po’ troppo, in
realtà. Perché aveva finito per rivelargli di ricordare la posizione anche di
quelli che, come in questo caso, avrebbe fatto meglio a non conoscere.
Il codice alfabetico differente del pesante tomo che Hange fa cascare sulla
scrivania è un segno inequivocabile. Marco schiude la bocca, lo stupore gli
solleva gli zigomi.
“Ma sono dei libri—” l’occhiata di Hange e di Moblit lo frenano dal terminare
la frase con ‘proibiti, provenienti dall’esterno’.
“C’è una ragione per la quale le aspettative di vita dei soldati che vengono
ricoverati all’interno dell’infermeria del corpo di ricerca è sempre così
alta—” spiega, con un’aria di chi non vuole esporsi troppo.
Marco impallidisce, si limita ad un cenno di assenso, poi torna a guardare il
libro.
La scrittura è
intelligibile, ma un’illustrazione mostra un segno simile a quello apparso
sulla natica di Jean.
“Borreliosi,” annuncia Moblit, lancia uno sguardo preoccupato ad Hange, rimane
in attesa.
A quel punto, i tentativi di Marco di esercitare qualsiasi controllo su se
stesso, falliscono ingoiati da un capogiro: “C—che cos’è?”
Del tutto familiare con i caratteri nel testo, Hange ne sintetizza ad alta voce
i contenuti.
“È un’infezione
trasmessa all’essere umano da zecche infette, che si attaccano all’individuo
ospite per nutrirsi del suo sangue.”
Aggiunge un’altra
manciata di dettagli che Marco non ascolta neppure, perché Jean alle sue spalle
ha ripreso a lamentarsi in preda ad un dolore misterioso esplosogli da qualche
parte, e basta quel fiato perché tutto, sopra, sotto, sinistra o destra,
per Marco smette di avere importanza.
“Jean—!” grida, forse
eccessivamente; il vecchio senso di colpa e disperazione torna a brandirlo
proprio in momenti simili, e proprio in momenti simili sente di non avere
assolutamente idea di cosa fare.
Hange rimane china
sul tomo, alienata dalla realtà; Moblit invece lo raggiunge, e le dita che
poggia sul collo e poi sul petto di Jean lo richiamano alla calma.
“Va tutto bene,”
insiste l’assistente, “è stato solo un crampo,”
“Fategli bere dell’acqua,” comanda Hange, senza distogliere lo sguardo dalla
pagina che ha appena voltato.
E Marco si premura a
tirarlo bene quel lenzuolo sulle gambe di Jean, prima di far scivolare il
braccio sotto le sue spalle, sollevarlo contro la propria schiena, e
avvicinargli alle labbra il bicchiere che Moblit gli ha appena versato.
Jean è più o meno
sveglio, anche se rimbambito – e fa tenerezza.
Dal suo petto, ruota gli occhi verso l’altro come a chiedergli ‘cosa diamine
dovrei farci con questo bicchiere?’
“Hai sentito Hange? Coraggio, bevi—”
“Voglio una frittata
di riso,” insiste con tono di stizzito. Soffia, mostrando i denti “non un’altra
iniezione da quella psicopatica. Le piace il mio culo, Marco. Il mio
culo. E dove diamine è la mia frittata di riso?”
Imbarazzato, Marco copre i suoi deliri con una serie di shhh, che si
augura Hange non lo abbia sentito. Non resiste alla tentazione di piegare il
collo e lasciare un bacio tra i capelli radi che ricoprono le tempie di Jean.
È così intontito da non riuscire neanche a riprenderlo per i toni.
“L’avrai, l’avrai non appena starai meglio” – assicura, quasi divertito “ma
prima bevi questo, è importante—"
“Se non berrai, sarò costretta davvero a farti un’altra iniezione, caro Jean
–” cantilena distrattamente Hange, mentre finisce di ricopiare una serie di
informazioni ben precise tratte dal libro, di cui attenta, tiene il segno con
l’indice della mano sinistra. “E te la farò proprio su quel culo di cui
hai una così alta considerazione—"
La frase, unita al crepitio della carta che Hange strappa, fa andare di
traverso l’acqua a Jean, che tossisce un paio di volte contro la sua cassa
toracica, poi, sfinito e lamentoso, poggia la testa sulla sua spalla.
Quella di sinistra, perché forse, nonostante tutto, dentro di sé
qualcosa gli dice di dover stare lì.
“Moblit,” La
scienziata si volta, consegna il foglietto al suo assistente. “Vai in
laboratorio, dì a Nifa di preparare questo composto; aiutala, se necessario–
con un po’ di fortuna, dovremmo avere tutti gli ingredienti già a disposizione.
È importante che sia pronto all’uso entro questa sera.”
Moblit scorre con gli
occhi la lista, poi annuisce e scompare, inghiottito dai tetri corridoi.
La sua uscita di
scena, porta un improvviso, inatteso silenzio.
Hange chiude il
libro, poi gli occhi. Raddrizza la schiena, tira un respiro profondo, simile a
quello che tira anche Marco dopo aver abbandonato il bicchiere vuoto da qualche
parte, e usato il suo braccio per stringere Jean al suo petto, ancora e
ancora.
Jean, dal canto suo, sfrega la testa contro l’incavo della sua spalla.
Solleva il mento, lo guarda per un istante, prima di mormorare qualcosa che
somiglia ad un ‘Dio, quanto ti amo’, seguito dall’ennesima richiesta
bizzarra, un sogghigno leggero, per poi, finalmente, chiudere gli occhi e
tornare a sognare (e sbavare).
“D’accordo,” dice
Hange, percorrendo la breve distanza che la separa dal lettino, “adesso si
comincia davvero a giocare,” annuncia, ma l’espressione sul viso non è
quella che Marco immaginerebbe di vedere in qualcuno che sta per giocare.
Sente il pomo d’Adamo sollevarsi e grattargli la gola arsa mentre deglutisce,
perché non c’è stata una sola volta in cui il rimboccarsi le maniche della
caposquadra non abbia portato a dei risvolti drammatici e Marco quasi
non si accorge che quello in cui cinge Jean non è più un abbraccio: è uno
scudo.
“Giocare?”
“Già,” risponde Hange
senza guardarlo. Si sciacqua le mani, e anche questo, non è un buon segno.
“Una caccia al tesoro!” si atteggia come a voler forzare un entusiasmo e una
leggerezza che questa volta, arranca ad ottenere. “Hai mai preso parte ad una
caccia al tesoro, Marco?”
Marco non capisce
cosa intende, ma importa poco.
Sa che non si aspetta davvero una risposta.
“Hange – mi dica la
verità—“ non è sicuro di dover fare questa domanda; non sa neanche perché
vorrebbe farla in realtà.
A spingerlo, è più la consapevolezza di conoscere bene quella cosa, quel
sentimento di disperazione e di sconfitta che ha vissuto su se stesso tante e
tante volte in quell’anno a questa parte.
“Jean—Jean riuscirà a—?”
Hange sospira; allontana lo sguardo pesante da loro due; probabilmente perché
sa di non essere poi così brava a mentire.
“È un’infezione seria, ne ho sentito parlare tempo fa. Pare abbia colpito uno
degli allevatori più conosciuti di Trost.”
“E com’è andata?”
Hange stringe le spalle; si avvicina alle caviglie di Jean, sembra cercare un
modo per ritardare quanto più possibile la risposta.
“È andata come spesso va a coloro che non hanno la fortuna di essere curati
nell’infermeria del corpo di ricerca.”
Marco china la testa,
scorge appena la linea del viso di Jean sulla sua spalla, il corpo morbido e
caldo abbandonato contro il suo petto, il respiro adesso incredibilmente
regolare – “Io—io non posso perderlo—” piagnucola “Non senza prima aver fatto
pace…”
Sa di essere patetico
mentre lo pronuncia con il viso deformato dalla colpa, ma sa anche che quella
sensazione è ciò che merita.
“Però ehi – qui siamo
nell’infermeria del corpo di ricerca!” Ci tiene a rimarcare Hange, stressando
bene alcune parole chiave, “Abbiamo affrontato infezioni ben peggiori. Ricordi
le tue ricadute? Quante volte hanno rischiato di portarti all’altro mondo? Ma
alla fine? Eccoti qui, ad abbracciare il tuo fidanzato che sta disseminando la
sua bava dappertutto,”
Si china velocemente,
passa la piega di una garza su di un angolo delle labbra di Jean
particolarmente generoso.
“Jean se la caverà.
Moblit e Nifa stanno già lavorando ad un medicamento; farò di tutto affinché
non abbi problemi.” osa temeraria annunciare, e Marco le è grato per quel suo
eccesso di fiducia verso qualcosa che, in fondo, sa di non poter controllare.
Del resto, lo riconosce: è lo stesso che Hange usava con lui ogni qualvolta
sentiva in cuor suo di essere ormai alle porte dell’Inferno, e invece, in
qualche modo, riusciva a convincerlo che non era così.
“Caposquadra Hange,”
“Grazie. Per—per tutto. Per quello che sta facendo per Jean, e anche – per
quello che ha fatto per me. Non ho scordato con quanta premura e quanta
pazienza ha saputo rimettermi in sesto.”
Perché Marco se le
ricorda tutte, le notti in cui Hange è rimasta al suo capezzale insieme a Jean,
a vegliarlo aspettando che la febbre scendesse, o a rendere più sopportabile la
sua spasmodica attesa di una nuova dose di antidolorifici ubriacandolo di
aneddoti più o meno realistici sui giganti.
Si ricorda ogni singolo sospiro della scienziata, e ogni singola volta in cui,
quasi materna, ha accarezzato capelli e guance bagnate, sue e di Jean, senza
mai perdersi d’animo.
Hange solleva gli occhi dalle caviglie di Jean che ha preso ad esaminare, gli
rivolge uno sguardo incerto, poi sorride.
Non dice niente, probabilmente perché qualunque cosa direbbe, suonerebbe come
una stupidaggine; Marco ne è convinto, e le è grato anche di questo.
“Forza, lavati le
mani, iniziamo questa ‘caccia al tesoro’ di cui ti parlavo,” dice, con
un sorriso minaccioso. “Dobbiamo trovare lei.”
“Lei?”
“O loro, a
seconda di quante siano—” si corregge, torna a girare sulla mano una caviglia
di Jean. “È molto probabile che la zecca che ha infettato Jean sia ancora sul
suo corpo. Dobbiamo cercarla, trovarla ed estrarla al più presto.”
Marco rabbrividisce,
il suo volto perde colore. “Quindi Jean in questo momento ha—”
Hange fa un cenno di
assenso con la testa, nel frattempo è già passata ad ispezionare l’altra
caviglia.
“Non possiamo averne la certezza, ma è molto probabile sia così – avanti,
staniamola! Dobbiamo passare in esame ogni centimetro del suo corpo, in
particolare le zone nascoste e coperte da peluria, ma non solo—”
Se la sola idea di un
parassita mortale a piede libero sul corpo di Jean può avergli messo addosso un
certo disagio, l’idea adesso di scandagliare ‘ogni centimetro del suo corpo,
in particolare le zone nascoste e coperte da peluria, ma non solo’ gli fa
sentire i morsi dell’agitazione mangiucchiargli tutto ciò che i titani gli
hanno risparmiato.
“Dai, diamoci da
fare!” incita Hange, e davvero – davvero, Marco si paralizza.
Lo fa nell’esatto istante in cui torna a sentire le labbra di Jean che si
aprono e si chiudono contro il suo petto, in un fruscio ritmico, e che in
qualche modo, gli fa, di colpo, percepire tutta la sua vulnerabilità.
“Jean—” lo scuote un po’, poi ancora un altro po’. Passa una mano sul viso,
inizialmente è una carezza, poi diventa qualcos’altro: un tocco volutamente
fastidioso. “Jean, svegliati—”
Hange solleva gli occhi. Qualunque cosa abbia intenzione di fare sollevando il
ginocchio destro di Jean, la interrompe “Cosa stai facendo, Marco?”
“Jean!” insiste
ancora, rosolato in volto dall’incapacità di fornire una risposta sensata alla
caposquadra.
“Marco, non è necessario svegliarlo. Lascia che dorma, gli farà bene—.”
Avvisa Hange, posando la mano sulla sua, che proprio non vuole più avere sul
suo petto il volto di Jean.
“Non—non posso toccarlo mentre è così—”
“Eh?” Hange strabuzza gli occhi, tira in dentro il mento “Di cosa stai
parlando? Così come?”
“Mentre…mentre
dorme!” grida, forse con più slancio e più trasporto di quanto Hange abbia
mai visto sino ad ora da parte sua.
La scienziata sobbalza; indietreggia turbata, solleva i palmi delle mani
all’altezza delle spalle in segno di resa.
Jean galleggia ancora in un limbo inesplorato, con le palpebre chiuse e la
bocca imbrattata, aperta in una vocale muta, e Marco quella testa la stringe
talmente forte da sentire il riverbero del cuore impazzito rimbalzare contro
una parte non meglio precisata della sua fronte. E brucia.
Di vergogna, ma anche di qualcosa che non ha ancora un nome.
“Va bene,” dice
Hange, ancora confusa dall’inattesa insorgenza. “Va bene, Marco. Non
innervosirti.”
Marco ha ancora l’occhio coperto da una patina tremolante, simile alla condensa
che si crea sui vetri della finestra in questi giorni di pioggia, e questa non
gli permette di vedere bene quello che sta accadendo neanche alla sua sinistra,
che comunque, già da un po’, rincorre frenetico ovunque perché diamine – a
volte deve proprio vederla per intero, la roba immonda che accade intorno a
lui.
Solleva quel che rimane della sua spalla
destra, cerca di schiarirsi la vista strofinando le ciglia contro di essa, ma
non ci arriva.
“Non riesco a svegliarlo—” dice, con voce rotta, giusto perché sente le lacrime
tornare a riaffiorare sui suoi occhi senza una vera e propria motivazione, e ne
ha bisogno una.
Hange si avvicina titubante, allunga prima le dita verso Jean; procede verso il
suo collo quando realizza con uno scambio di sguardi che non l’avrebbe morsa.
“Jean—” chiama lei,
lo afferra piano da sotto le braccia e poi lo scosta; lo fa rotolare lentamente
sul lettino, prima di tastargli ancora la giugulare e poi la fronte. “Jean,
svegliati”
“Jean!” grida ancora Marco, le dita a muoversi frenetiche da un punto all’altro
del suo volto e del torace nudo.
“Sta bene,” rassicura Hange, prima che il panico possa esplodergli in corpo,
così come anche a lui sembra di sentire ticchettare “è solo un effetto
collaterale del farmaco: provoca stordimento e sonnolenza;”
Jean comincia ad aggrottare le sopracciglia e a mugugnare solo dopo che le
nocche di Marco e di Hange hanno battuto talmente tanto su quelle guance da
farle arrossare.
Si guarda intorno, spaesato ed esausto. Cerca di muovere la bocca, prima di
accorgersi che l’azione non è poi così scontata – “Che sta succedendo?”
borbotta infastidito, come se non avesse memoria degli eventi precedenti.
Hange allunga la mano, intinge lievemente la pezzuola nel bacile, ne approfitta
per portargli via il sudore che sembra aver invaso ogni singolo angolo del suo
volto.
“Scusami, Jean – io ti avrei anche lasciato dormire in pace, ma il tuo fidanzatino,
qui, ha qualche problema con il fatto che ti ispezionassimo mentre dormi—”
Sono, probabilmente, troppe informazioni.
Gli occhi di Jean ruzzolano verso sinistra, ricercano oltre le mani con cui
Hange gli cinge le gote.
“Marco?” biascica, debole.
Con la vergogna che è lì lì per mutare in umiliazione, Marco avverte rigagnoli
di sudore colargli sotto la camicia, lungo il torace atrofizzato. Non sa dire
se suo o di Jean, però.
Lo ha tenuto così tanto tempo sul petto che ormai, è come se fosse diventato un
degno sostituto di ciò che gli è stato tolto.
“Sono qui—” lo sfiora, con le parole e con le mani. “Sono qui, Jean—”
“Mi sembra che la
febbre stia scendendo,” il tocco di Hange è di nuovo sulla sua fronte, ma ci
rimane solo alcuni secondi. “È certamente un buon segno,” aggiunge, “ora, se
permetti—” perché è chiaro che non abbia altro tempo da perdere.
Marco annuisce alla scomoda richiesta, lascia che Hange scansi il lenzuolo che
lui stesso ha voluto tirare fino sotto al mento di Jean come un temporaneo
sipario mentre tentava di svegliarlo, e lascia anche che lo sguardo di Jean,
confuso e disorientato, lo fissi.
“Poi qualcuno mi spiegherà perché sono nudo, vero?” fa in tempo a domandare,
prima che la sua voce impastata si interrompa, per le risa isteriche che lo
colgono d’improvviso, poi per la mano che Marco gli preme sulle labbra per
zittirlo.
“Stiamo cercando—”
Hange solleva gli occhi dalle dita dei piedi di cui sta scrutando ed esaminando
fastidiosamente lo spazio tra ognuno; fa scivolare gli occhiali sul naso, il
ghigno tradisce una certa dose di curiosità verso la risposta che darà.
Marco si schiarisce la voce, pensa ad una decina di modi e una decina di
intonazioni in cui potergli dare la notizia.
“Un parassita che si annida sul tuo corpo.” si ferma, porta lo sguardo
distante, perché non è in grado di reggere quello di Jean che si deforma
dall’orrore “una zecca, con la precisione—”
“Una che—che cosa!?” raccogliendo forze che evidentemente non sapeva di avere,
Jean si divincola, balza seduto sul letto.
“Calmo! Devi restare fermo, Jean!” lo blocca Hange. E non è difficile
riportarlo al punto di partenza: lo sconsiderato movimento è sufficiente a
provocargli un capogiro da paura; probabilmente, sarebbe tornato a distendersi
anche senza l’intervento di qualcuno.
“Ho una—una bestia che mi corre addosso?!”
“È quello che stiamo
verificando,” risponde Marco, passandogli la mano tra i capelli – “Ma non
preoccuparti, io e la caposquadra Hange la troveremo e rimuoveremo!”
“Cristo—” Jean lancia
gli occhi al soffitto, impallidisce, e Marco si guarda intorno; perché se
Jean è davvero un passo dal vomitare,
così come sembra, avrà bisogno di un catino, o qualcosa di simile.
Ma non accade.
Marco sente la presa del suo indice sulla manica.
“Vuoi dirmi che è stata una zecca a ridurmi in questo stato?” domanda, e Marco
ci pensa un attimo – è stata davvero solo la zecca?
“Sì, con molte
probabilità è così.” mente, anche un po’ a se stesso.
“È un problema molto
comune, soprattutto per chi, come noi, ha a che fare con i cavalli” aggiunge
Hange, mentendo.
E a quel punto, Jean esala profondo sospiro di resa, o per lo meno, prova a
farlo; perché le mani di Hange che vagano sul suo corpo, evidentemente, non
sono qualcosa che riesce facilmente ad ignorare.
Ancor meno riesce ad
ignorarle quando poggiano su uno dei suoi fianchi e spostano in alto la
striscia di lenzuolo arrotolata che la sua dignità aveva ancora a disposizione.
Lì Marco può vedere i tendini del collo tendersi, le braccia partire verso le
mani della caposquadra che vanno impudiche a sondare zone fin troppo azzardate
e…
“Fermo!” lo blocca, Marco; più con la voce, che con quel ridicolo tentativo
effettuato dal suo unico braccio di ostacolarne i movimenti “Lascia che la
caposquadra lavori—” e solo lui sa quanto sia stato difficile riuscire a
liquidare ciò che Hange sta facendo tra le sue gambe come ‘lavoro’.
Hange è pericolosamente curvata sul pube di Jean, una mano sollevata a
direzionarne il fascio di luce della lampada a olio verso l’aria di interesse,
l’altra a punzecchiare, stuzzicare e smanacciare l’inguine, dove ciuffetti di
peli rossi sembrano acuirsi ancora di più al passaggio di quelle dita fastidiose
e invasive.
“Ma che—che—che cosa sta facendo!?” grida Jean, scandalizzato. Ed è uno di quei
momenti in cui nessuno dei suoi ‘Shhh’ può davvero far qualcosa per
impedirgli di piegare le gambe e sfregare i talloni contro il rivestimento del
lettino, nell’ingenuo tentativo di potersi davvero sottrarre a quel tocco.
“Jean!” rimprovera Hange, secca. Così secca, che, probabilmente, poteva anche
fermarsi lì, ma continua – “È meglio per te che stai fermo, sai? Ci metto un
attimo a chiamare due-tre reclute a immobilizzarti braccia e gambe!”
E per quanto scorbutica possa esser stata, Marco non può che ammettere che sì,
quello era il tono giusto.
Perché Jean adesso è immobile; congelato come una statua di marmo sotto uno
sguardo così tagliente che quello stesso marmo sembra poterlo sbriciolare alla
prossima mossa falsa.
Solo dopo un paio di secondi di assoluto, pesante silenzio e staticità, Hange
sorride allegra, spinge i suoi occhiali in alto sul naso, Jean riprende a
respirare, e l’intero universo insieme a lui.
“Ma che bravo, vedo che hai capito – è proprio così che ti voglio,” miagola,
fastidiosa, “Adesso, apriamo bene queste gambe e fammi vedere se la nostra ospite
si nasconde qui, da bravo—”
E agli occhi di
Marco, è assolutamente incredibile la docilità con cui Jean si lascia
congiungere i talloni e poi allargare le gambe lasciandole ricadere ai lati.
Silenzioso e
rabbuiato in volto, Jean punta gli occhi verso un punto imprecisato del
soffitto; ingoia piano, a labbra strette, quasi temesse il suono scaturito
dalla sua gola possa in qualche modo disturbare il lavoro di Hange.
‘È stata
colpa tua’, lo
pungola una vocina interna. ‘Sei stato tu quello che ha preferito rilegarlo
a destra e lasciare che andasse a dormire nelle scuderie, piuttosto che
perdonarlo’ ma è un pensiero talmente cattivo, talmente crudele anche solo
da formulare mentalmente, che il senso di colpa che ne genera fa partire la
mano di Marco verso il volto di Jean prima ancora che il suo cervello realizzi
di averlo fatto.
“Ehi—”, bisbiglia, e il suo tocco su quella guancia distorta dalla tensione si
ferma per un istante; non va né avanti né indietro. Marco si ferma lì, a
guardarlo dentro gli occhi come non faceva da tempo, mandando a quel paese il
suo orgoglio scarnificato dalla vergogna.
“Lo sai che presto starai bene, vero?” bisbiglia, come una patetica ragazzina
di undici anni; e come una ragazzina di undici anni, Marco sa che Jean annuirebbe
volentieri, perché di fronte a quel sorriso ebete che le sue labbra sanno fare
in momenti simili, difficilmente saprebbe fare altro – ma Hange ha appena
insinuato un dito in parti che il corpo di Jean non apprezzano, e lo vede,
Marco – Jean è a tanto così dall’urlare, ed è per questo che di colpo, la sua
mano balza dalla guancia alle labbra, in un riflesso condizionato.
“Ssshh, non urlare—” gli intima con un filo di voce, “Fossi in te
eviterei di farla arrabbiare ancora…”
Jean freme,
trattenendo il respiro, e quando proprio non ce la fa, mugola un lamento umido
contro la sua mano; Marco capisce che deve proprio impegnarsi, perché Hange,
curvata adesso in un modo ancora più raccapricciante, proprio non sembra
aver finito con la sua ispezione, e diamine – non sa fin quanto le sue
stupidaggini possano tenere la mente di Jean lontano da quella tortura che si
sta consumando sotto ove-un-tempo-vi-era la cintura.
“Sai anche che sono stato un autentico imbecille, e che mi domando come tu
abbia ancora voglia stare con me, vero?” pronuncia, sconnesso – quasi
inavvertitamente.
E forse, sin dall’inizio, quella mano sulla bocca ci è finita proprio in
previsione di quella frase: perché in nessun altro modo Jean ascolterebbe
quelle parole sino in fondo, senza interromperlo o replicare con qualcosa di
stupido che lo avrebbe fatto bruciare di vergogna più di quanto già non faccia
già di suo.
“Cristo, Jean—” ridacchia nervoso “Tutto questo è davvero colpa mia—”
“Sei una zecca?”
L’interruzione di Hange giunge nel modo e nel momento meno atteso. Se non la si
fosse udita chiaramente, chiunque potrebbe dire non sia mai esistita.
Non smette di fare quel che sta facendo, non solleva neanche gli occhi dal
perineo di Jean contro cui alcune delle sue dita stanno indagando in maniera
oltremodo fastidiosa.
“Cosa?”
“Ti ho chiesto se sei una zecca, per caso –“ ripete svogliatamente, trattiene
un ciuffetto di peli pubici da una parte, sonda meglio un punto poco distante.
Marco si guarda intorno confuso. Jean alza lo sguardo su di lui, altrettanto
confuso.
Tempo scaduto.
“Beh, se lo fossi lo avresti già ammesso. Dunque, direi che la risposta è no,”
bofonchia la scienziata; cambia posizione dei gomiti, inclina il bacino di
lato, “E dato che è no, mi domando come faccia ad essere colpa tua.”
Lì, gli occhi li solleva. E Marco si sente più esposto di quanto Jean non lo
sia.
“Dorme—”, si interrompe,
abbassa gli occhi; diamine, da quanto non riesce più a dire una frase per
intero!? “–dorme nelle scuderie da giorni. Da quando abbiamo litigato…”
Jean sgrana gli
occhi.
“Beh, ma non gli hai detto tu di andare a dormire nelle scuderie.” Hange fa
spallucce, poco convinta.
“Però lo sapevo!” insiste, e a quel punto, Jean lotta, cerca di liberare le
labbra dal peso della sua mano, ma Marco non lo permette. “E non ho fatto
niente per impedirlo…”
“Ma non potevi però sapere che sarebbe stato attaccato da una zecca. Tutti
abbiamo dormito nelle scuderie almeno un paio di volte. Il tetto è il posto
migliore, in estate.”
Marco tace un paio di secondi, un po’ vorrebbe crederci, ma qualunque cosa
dirà, sa che è una battaglia persa.
“È comunque colpa
mia; l’ho rilegato a destra…”
“A destra?” Hange solleva un sopracciglio confusa.
“È una stupidaggine;” Marco sorride con il sorriso amaro di chi sa di non poter
essere compreso.
“No, sembra
interessante, invece. Cosa vuoi dire?”
Marco porta il peso sull’altra gamba, si addenta imbarazzato il labbro
inferiore, espande il sorriso –
“È che …la mia destra non esiste. Da quel lato non vedo, non sento – non c’è
niente da quella parte. E ho come l’impressione di aver messo Jean da quel
lato, negli ultimi giorni. Tra le cose che non esistono.”
Hange assorbe il suo
discorso in silenzio, come volesse dar un senso all’insensatezza di quel
concetto che, per la prima volta, pronuncia ad alta voce.
Poi, per niente impressionata, scuote la testa.
“Puoi sempre voltarti.”
“La tua ‘destra’
come la chiami tu, forse non esisterà più così come dici. Ma puoi voltarti.
Tramutarla in sinistra in qualsiasi momento.”
Marco dondola un po’
la testa, si perde nel concetto a cui gli si chiede di aggrapparsi.
“Ah, basta con la filosofia spicciola, non l’ho mai sopportata—” Hange taglia
corto, abbassa gli occhi, lo abbandona ai suoi pensieri tornando da Jean.
Marco fa la stessa
cosa, ma da un’altra parte del suo corpo.
Quando discosta la mano dalla sua bocca, Jean lo grazia. Lo guarda con sguardo
appiccicoso e cupo, lo sguardo di cui Marco ha più timore in assoluto, ma non
dice niente a parte, un blando, appena accennato ‘sei veramente uno stupido’.
“Forza, adesso basta
piangersi addosso. Vieni qui, credo di aver trovato qualcosa—”
È come una manna dal
cielo: Marco non se lo fa ripetere due volte.
Immaginare che la ragione per cui Hange lo abbia chiamato possa essere peggiore
dello stare lì, sotto lo sguardo punitivo di Jean, però, è qualcosa che il suo
cervello processa solo una volta di fronte alla drammatica, glaciale richiesta:
“Sollevagli il pene, per favore.”
Fine
seconda parte
--
NOTE: NON CORRETTA; NON BETATA
Ve lo avevo detto che sarebbe stata imbarazzante e cringe, no? Certo che ve lo
avevo detto. V_V
La terza e ultima parte tra una settimana!
Nel frattempo, veniteci a trovare sul gruppo Hurt/Comfort Italia,
gruppo da cui è nata questa fic (sfida ‘Kinky but not really’)
PS: Questa fic può essere
considerata come un continuo della mia “Never forget we were built to last”, tutt’ora in corso; ma in realtà, è un lavoro indipendente
(grazie al cielo).
Basta tenere conto del fatto che Marco sia
sopravvissuto agli eventi canonici, rimanendone comunque gravemente mutilato.