Con
passo rapido e deciso, Mecha mi guida attraverso il cimitero.
Il
cuore mi martella le costole e, a stento, riesco a imporre a me
stesso l’autocontrollo.
Devo
vedere la tomba di mio figlio e porre fine a questo tormento.
Il
nostro percorso termina davanti ad una croce semplice, priva di foto
e nome.
– E’
qui. – sussurra.
Poi,
si allontana e mi lascia da solo.
Il
mio sguardo si fissa sul legno e il vuoto dilania il mio cuore.
Il
piccolo Juan Carlitos è sepolto qui.
E’
morto lontano dalle braccia mie e di Maria.
Abbiamo
perduto il nostro tesoro.
E
la colpa è mia.
Non
sono riuscito a ritrovarlo in tempo.
A
stento, riesco a rimanere in piedi. Vorrei urlare la mia
disperazione, ma la voce si perde in gola.
Mi
sembra di avere delle pietre in petto, che mi ostacolano il respiro.
Qualche
istante dopo, Mecha ritorna, con un vaso colmo di acqua.
Con
gesti gentili e attenti, colloca le gerbere rosa nel recipiente e le
sistema a poca distanza dalla tomba.
I
suoi movimenti sono quelli di una madre gentile e premurosa.
La
tenerezza delle sue mani strazia il mio cuore e da’ certezza
alla morte di Juan Carlitos.
Ormai,
non è una possibilità remota, ma una realtà
dura, inesorabile, da cui non posso sfuggire.
E
una domanda, crudele, si ripete nella mia mente.
Come
potrò comunicare a Maria il risultato delle mie indagini?
Non
voglio che lei soffra ancora. Non lo merita.
Poco
dopo, Mecha si gira verso di me e il suo sguardo, serio, racconta più
di mille parole.
Sono
gli occhi di una madre a cui è stato sottratto il figlio da
una sorte crudele.
Non
è la madre naturale di Juan Carlitos, ma lo ha amato e
cresciuto nei limiti delle sue possibilità.
Tale
pensiero non è una consolazione per il mio animo afflitto.
Ci
allontaniamo. Ormai, non abbiamo più nulla da fare qui.
La
accompagno alle baracche e, dopo un breve saluto, metto in moto
l’auto .
A
stento, mi trattengo dal premere il piede sull’acceleratore.
Voglio andare via da questo posto.
Mi
sembra di vedere il volto del mio bambino, distorto dalla sofferenza.
E
né io né Maria abbiamo potuto assisterlo.
Fitte
di rimorso trapassano il mio petto e devo frenare più volte,
per non uscire fuori strada. In questo momento, guidare è
un’impresa pericolosa.
Non
ho la necessaria lucidità per vedere la strada e le lacrime
minacciano di bagnarmi le guance.
Forse,
non sarebbe una tragedia una mia eventuale morte.
Scuoto
la testa. Devo tornare a casa.
Ho
bisogno di vedere un ambiente a me noto, per evitare di impazzire.
Non
so come, riesco ad arrivare a casa mia.
Parcheggio
e, per alcuni istanti, resto immobile, le mani strette attorno al
volante e il petto scosso da respiri affannosi.
Poi,
scendo dalla macchina e mi dirigo verso il mio studio.
Tra
i miei strumenti, potrò piangere le mie lacrime.
– Juan
Carlos, perché sei così triste? – mi chiede mia
sorella Jenny, preoccupata.
Un
nuovo, orribile peso si abbatte sulle mie spalle. Perché
doveva essere lei ad accogliermi al mio ritorno?
Non
mi è stato concesso il tempo di piangere da solo.
Non
le rispondo ed entro nel mio studio. Non posso dirle nulla, non ora.
Mi
appoggio con le mani al mio tavolo da lavoro e resto immobile.
Il
mio corpo è scosso da tremiti e le lacrime velano i miei
occhi.
– Ti
prego, dimmelo… Che cos’hai? – domanda Jenny, la
voce sempre più angosciata.
Sento
la sua mano appoggiarsi sulla mia spalla e il mio cuore si frantuma.
Ho
bisogno di sentire il tocco amichevole di una persona a me cara.
E,
disperato, piango tutte le mie lacrime tra le sue braccia.
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