Il ballo dei narcisi

di Mary Black
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Ascian

una cosa o una persona senza ombra


Gellert si reca a casa Silente tutti i pomeriggi.
Non pensava che sarebbe mai successo: trovare un’anima affine, un compagno del suo stesso genio, un alleato. Il Destino, beffardo, gli ha servito su un piatto d’argento quel ragazzo dai capelli ramati e gli occhi freddi che condivide il suo sogno di grandezza – trovare i Doni, rovesciare la propria vita, costruire un impero sulle rovine di una società guastata dal marciume.
Gli è impossibile separarsi da lui e dal loro progetto – poco importano gli sguardi che il suo compagno gli lancia quando crede di non essere osservato, poco importano i brividi che gli increspano la pelle ogni volta in cui lo sfiora, Gellert sfoggia il suo sorriso metà lascivia metà tortura e gli passa le dita lungo il collo solo per vederlo sussultare.
A Gellert è sempre piaciuto giocare, e Albus è la perfezione – ma il Destino ha offerto allo straniero dagli occhi verdi una coppa avvelenata, e il tarlo ha uno sguardo spento e mani magre piene di fiori.
Non ha più visto la ragazzina da quel giorno sfolgorante di sole.
Ogni pomeriggio si guarda attorno, un po’ per caso, un po’ perché non riesce a farne a meno. La porta della veranda che affaccia sul giardino sul retro è sempre schiusa, ma ogni giorno Albus lo conduce al piano di sopra senza mai voltarsi, così Gellert lo segue, sufficientemente ammaliato dalla sua voce candida da lasciarsi distrarre. È facilissimo lasciarsi incantare dal nuovo vicino, dai suoi occhi azzurrissimi, penetranti come un fuso dietro gli occhiali a mezzaluna, come dalla sua intelligenza che è quasi altrettanto pungente – lo straniero ride fino a sfinirsi ogni volta in cui lui gli tiene testa, ogni volta in cui le loro idee gemelle collidono e si fondono (dove sei stato per tutto questo tempo dove dove mai più ti nasconderai da me).
Ogni tanto incontrano Aberforth lungo le scale, con i suoi capelli rossi sempre arruffati e l’aria di sfida, e Gellert sfoggia il suo sorriso più ambiguo, tutto fossette e commiserazione. Disprezza quel ragazzino perennemente imbronciato, ma adora già suo fratello quel tanto che basta per lasciar correre – non sarebbe stato così anche soltanto qualche mese prima, quando a Durmstrang la sua antipatia si pagava a caro prezzo.
La casa è silenziosa, chiusa in un’eterna penombra. Qualche lama di luce macula il pavimento, evidenzia la polvere che volteggia nell’aria. Sembra di stare dentro un mausoleo, tant’è tombale l’atmosfera che si respira lì dentro.
La bambina spezzata sembra non esistere neanche. Non un lamento, non un gemito.
Ma lui sa che lei è lì, la bambina senza macchia dal volto inespressivo, niente ombre nei suoi occhi color dei fiordalisi, e resistere è estenuante, estenuante (come lo è sognarla ogni notte).

È un giorno come tanti quando Gellert scende le scale col consueto brio e nemmeno s’avvicina alla porta d’ingresso, ma si lascia scivolare lungo il salone e più in là, oltre l’uscio schiuso della veranda. Albus freme, la sua voce articola un mormorio indistinto che suona come una protesta – le rimostranze gli muoiono sulle labbra quando lo straniero dagli occhi verdi si volta e si lascia sfuggire una risata impenitente, lo sguardo perso nel suo.
Gellert sorride ad Albus e oltrepassa la porta che dà sul retro. Sbuca nel giardino e la bambina spezzata è lì. Senza ombre nel sole del tramonto, i riccioli luminosi, narcisi in rovina tutt’intorno a lei.

Quando scorge lo straniero dalla voce di miele, Ariana s’illumina, ride – il suo volto inespressivo è acceso da una gioia selvaggia, e sembra quasi vera, sembra quasi viva.
“Ciao, Ariana” mormora Gellert, lasciandosi cadere seduto vicino a lei, “Volevo farti un saluto. Ti ricordi di me?”
Lei lo fissa per attimi interminabili.
Tutto s’immobilizza, il mondo stesso pare torcersi e paralizzarsi: Aberforth ha smesso di dare da mangiare alla sua capra per osservare la scena; Albus sosta sul limitare della porta come se avesse paura di incespicare in un cumulo di rovi, e il sorriso di Gellert è sempre più ampio, sempre più luminoso, doloroso da guardare come il sole che si riflette in uno specchio.
Ma poi Ariana annuisce, bella d’una bellezza svaporata, sbiadita, niente ombre nei suoi occhi azzurri – e Albus freme, perché lei sembra quasi lì con loro, e Aberforth ringhia, folle di delusione e gelosia e dolore, e Gellert ride della sua risata irrefrenabile e, con uno schiocco di dita, fa sbocciare cento narcisi bianchi attorno a lei.
Ariana è felice. Sorride e inizia a massacrare i fiori, Gellert resta a guardarla finché il sole non tramonta dietro le siepi.



Note dell’Autrice
Eccomi qui, come promesso, col secondo capitolo! Intanto voglio ringraziare tutti i lettori per il sostegno, sono davvero felice che la storia vi piaccia.
Qualche precisazione: è una storia estremamente introspettiva, soprattutto i primi tre capitoli girano soprattutto intorno alle caratterizzazioni dei personaggi. È una scelta voluta, ma anche un po’ obbligata, considerando il Canon (sostanzialmente, in quell’estate Albus e Gellert si limitano a parlare e progettare, non succede molto di attivo, o almeno io l’ho sempre immaginata così). In questo capitolo, ho voluto introdurre il rapporto tra Albus e Gellert, e mettere le basi del rapporto tra Gellert e Ariana (che, lo preciso qua visto che nel testo non l’ho mai specificato, ha 14 anni, secondo la mia idea).
Bene, spero che la storia vi piaccia, fatemi sapere cosa ne pensate!

Mary





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