Il nostro tempo pt.1
• Dire che
sono felicissima è estremamente riduttivo. Questo
perché
poter finalmente (ri)pubblicare questa storia è non solo
un'immensa soddisfazione, ma anche un grande riscatto per la fanfiction
stessa, dato che mesi addietro avevo pubblicato la prima parte e poi
non l'ho più proseguita, quantomeno non qui su EFP, dato che
sul
computer avevo già la seconda parte quasi conclusa.
Soprattutto ci tengo a scusarmi con coloro che avevano recensito il
primo capitolo della “vecchia storia”, sappiate che
ho
salvato tutte le vostre recensioni prima di cancellarla e che le
custodisco nel computer.
•
Non ho nulla da dire a
mia discolpa, semplicemente mesi addietro c'è stato un
periodo
in cui ho iniziato un migliaio di progetti diversi tutti in una volta
ed è andata a finire malissimo, dato che nessuno si
è
salvato. Ma almeno questa storia, secondo me, meritava una seconda
possibilità. Probabilmente mesi addietro non era
ancora il suo
tempo.
•
Andando più nello
specifico, non è cambiato molto rispetto alla prima
pubblicazione. L'unica differenza è che anziché
essere
una mini long di tre capitoli, sarà divisa in due parti
–
in questo primo capitolo, oltre alla parte già pubblicata in
precedenza, c'è anche quella che sarebbe dovuta essere nel
secondo, dedicata interamente al flashback.
Bello perché quando ho ripreso a scriverla ho
pensato: dai
che la rendo direttamente una One Shot,
solo che è saltato fuori uno scritto di almeno 8k parole e
allora no, meglio dividerla in due parti, lol –
però
quantomeno è già completa e revisionata, quindi
ora non
mi resta che pubblicare!
• La trama è sempre la stessa: Kaito e Ryoga che si
ritrovano dopo sette anni di lontananza sia fisica che emotiva, dopo
essersi lasciati in malo modo, senza neanche aver dato una
possibilità al sentimento che stava nascendo tra di loro.
Avranno modo di ritrovarsi dopo essere cresciuti e aver acquisito nuove
consapevolezze e, per quanto riguarda i loro sentimenti, non vi resta
che scoprirlo leggendo.
• Anche la canzone è sempre quella: Without You
dei My
Darkest Days per me è e sarà sempre la canzone di
Kaito e
Ryoga per eccellenza, penso che descriva appieno quella che
è la
loro relazione per come li vedo io come coppia.
Ci saranno diverse parti del testo disseminate lungo la storia, anche
se non saranno propriamente in ordine – spero non vi dia
fastidio
questa mia scelta.
Detto ciò, giuro che non vi tedierò ulteriormente
con queste N.d.A., infatti a fine capitolo non troverete altro!
Vi auguro buona lettura!
Il nostro tempo
Parte
1
If I had my way
I'd
spend every day right by your side
And
I if could stop time
Believe
me I'd try for you and I
1
Non era il nostro tempo. Sette
anni fa. Non lo era affatto.
Quelle parole
(dodici parole, per l'esattezza)
gli riecheggiavano nella mente senza tregua alcuna.
Il suo intero corpo tremava interiormente, facendo vacillare con poco
garbo la dura scorza che lo rivestiva, la quale si era lentamente
inspessita nel corso degli anni. Anni che, in quel momento, parevano
quasi sciogliersi tra le dita come neve baciata dal sole.
Aveva lasciato qualcosa
(qualcuno)
indietro. Un pezzo di anima che voleva assolutamente ritrovare e
riattaccare al suo posto di appartenenza, quello che gli spettava di
diritto.
Vivere con un buco nel cuore e nella memoria per tanto tempo era stato
difficile, a tratti tremendo: i giorni trascorsi a domandarsi come
stesse o cosa stesse facendo si erano rivelati laceranti, un vero e
proprio esercito di spilli agguerriti e avvelenati che vessavano ogni
più piccolo frammento di serenità conquistato con
tanta
fatica.
Kaito ricordava bene quei giorni, avrebbe potuto raccontarli a menadito
tutti, dal primo all'ultimo, senza tralasciare alcun particolare
(in
fin dei conti
erano la reiterazione di un unico giorno e quell'unico giorno gli si
era talmente impresso sottopelle da conoscerlo ormai bene, come un
fidato compagno di viaggi che altro non aveva da fare se non seguirlo
ovunque come una seconda ombra)
e alla fine il risultato sarebbe stato sempre lo stesso: gli mancava.
Non c'era altro da ammettere se non quello: Ryoga gli mancava.
2
La loro storia non era nemmeno iniziata, sette anni addietro. Si erano
conosciuti in quel periodo di vita in cui tutto risultava molto
più delicato e compromettente – e anche molto
più
grande rispetto al normale.
Kaito non poteva ammettere apertamente di essersi innamorato di un
ragazzino di quattordici anni che ancora frequentava la seconda media e
Ryoga non poteva fare altrettanto, confessando a cuore aperto di avere
una cotta
(la
prima cotta,
quella adolescenziale, quella che difficilmente sbiadisce nel tempo e
alcune volte te la porti dentro tutta la vita)
per un ragazzo di diciotto anni in procinto di terminare la terza
superiore per poi, una volta ottenuto il diploma, affacciarsi al mondo
dell'università.
Era tutto dannatamente amplificato. E faceva male. Faceva davvero tanto
male. Con ogni probabilità – anzi no, era una
certezza
assoluta – si erano incontrati e soprattutto si erano
innamorati
nel momento sbagliato. Semplicemente, non era il loro tempo.
(E qualcosa, nei meandri del cuore, scricchiolò appena. Ma
fece rumore. Fece davvero tanto rumore).
3
Kaito avanzava guardando dritto davanti a sé, anche se i
suoi
occhi non erano propriamente attenti e se si fosse trovato qualcuno di
fronte, molto probabilmente ci avrebbe sbattuto contro senza neanche
accorgersene. Ma era solo, in realtà. Era solo, a guidarlo
le
stelle incastonate nel cielo e la luna che lo fissava con cieco
splendore.
Il suono delle onde che placide si infrangevano sulla riva e il profumo
dell'aria salmastra che gli punzecchiava le narici – le quali
negli ultimi sette anni si erano troppo abituate
allo smog cittadino – lo portarono a vagare con la mente
(e con il cuore)
a tutti i momenti trascorsi con Ryoga, fino ad arrivare all'ultimo,
svoltosi davanti la porta di casa sua. Era strano che proprio il mare
lo portasse con la mente a pensare a Ryoga: non ci erano mai andati
insieme, era qualcosa che mancava
in quella che era stata la loro quotidianità
(e
in realtà a loro mancava proprio tutto).
Come un cerchio che si chiudeva. O come un compasso poggiato su un
foglio di carta vergine, pronto a tracciarne uno nuovo, perfetto e
intoccabile.
4
C'erano almeno una decina di battiti cardiaci che non gli sarebbero mai
stati restituiti. Come potesse ancora camminare e respirare e avvertire
la brezza sull'epidermide e tremare interiormente restava un mistero,
ma di una cosa era certo: quei dieci battiti li aveva persi tutti, uno dietro
l'altro, nel momento in cui Ryoga, quel pomeriggio, aveva risposto al
suo messaggio, acconsentendo alla sua richiesta, dicendogli sì, vediamoci questa
sera.
Kaito non lo aveva chiamato. Non voleva udire la sua voce. Non ancora.
Gli sarebbe parsa troppo
lontana e lui necessitava di sentirla da vicino.
Voleva perdersi in quelle labbra sottili che si muovevano mentre
articolavano ogni parola, in quella lingua che sapeva essere tagliente
e dolce al tempo stesso. Voleva perdersi nel sorriso sghembo che tanto
lo rendeva lui, che tanto lo rendeva Ryoga.
(Chissà se sghignazzava ancora in quel modo).
Ryoga che quando aveva quattordici anni si credeva già
grande,
si credeva il padrone del mondo e cercava di imitare gli adulti senza
rendersi conto di essere solo un riflesso sbiadito del giovane uomo che
ancora non era. Non a quei tempi, almeno.
(Non sette anni
fa, quando ancora non era il loro tempo, quando tutto era
compromettente, quando tutto faceva ancora tanto male. Quando i dilemmi
adolescenziali parevano gineprai dai quali era impossibile uscire,
quando ci si attaccava talmente tanto a qualcosa – qualcuno
– da farne il centro del proprio universo e non ci si
schiodava
da lì neanche sotto tortura).
(Quei quattro anni
di differenza parevano un abisso profondo migliaia di chilometri, quasi
potesse arrivare fino al centro del mondo e al contempo una montagna
altissima, che con la punta quasi solleticava il cielo).
A quei tempi, poi, non si sopportavano nemmeno. O meglio, all'inizio
era stato proprio così: per Kaito, Ryoga era un ragazzino
troppo
esagitato che si cacciava costantemente nei guai; per Ryoga, invece,
Kaito era un ragazzo che si credeva chissà chi solo
perché frequentava l'ultimo anno delle superiori e aveva la
patente e poteva fare cose
che a lui erano proibite poiché ancora troppo piccolo.
Erano solo quattro anni, dopotutto. Quattro anni che a quel tempo
pesavano come un macigno di carta vetrata che lacerava la carne, i
tessuti e i sentimenti più intimi.
Si erano avvicinati per puro caso e sempre per puro caso, un giorno, si
erano ritrovati talmente attaccati
da rendersi conto troppo tardi di essersi innamorati l'uno dell'altro.
E il primo amore, quello vero, forse non aveva mai fatto tanto male.
5
If the world ceased to spin
You
could start it again with just one smile
If
the seas turn to sand
With
the wave of your hand it would rain for miles
Kaito ricordava bene il giorno in cui comprese di essersi
innamorato di Ryoga. L'inverno di sette anni addietro era ancora troppo
presto, eppure al contempo era già troppo tardi per far
sbocciare del tutto quel bellissimo sentimento.
Ryoga aveva riso. Semplicemente questo. I capelli gli erano ricaduti
sulla fronte e ai lati della bocca e li aveva scostati, senza smettere
di sghignazzare. Il motivo di tutta quella ilarità era
contornato da bordi sfocati, anche perché Kaito era troppo
impegnato a osservare Ryoga ridere e scoprire un mondo tutto nuovo per
badare a cosa
– o a
chi – avesse scatenato tutta quell'esagitazione.
(Molto
probabilmente Yuma era scivolato. Oppure cercava di tenersi goffamente
in equilibrio sull'immensa lastra di ghiaccio che aveva preso il posto
dell'asfalto).
(Yuma).
(Sì, proprio Yuma).
(Se non fosse stato per lui, Kaito e Ryoga non si sarebbero mai
incontrati).
Mille supernovae gli erano esplose nel cervello e la loro scia si era
diramata in ogni parte del corpo. Nonostante quel giorno facesse
alquanto freddo, Kaito rimembrava senza difficoltà alcuna
tutto
il calore che aveva provato all'altezza del petto. Era forte, ma non
invasivo, anzi: lo avvolgeva e lo faceva sentire
inspiegabilmente bene
(e confuso e agitato e oh cielo, cosa avrebbe dovuto fare?)
e più guardava Ryoga con lo specchio della propria anima,
più si perdeva chissà dove.
Quello era stato, senza ombra di dubbio, il pomeriggio più strano
di tutta la sua vita… ma anche il più bello.
L'afferrare
nuove consapevolezze con dita tremanti era stato, in un primo momento,
alquanto arduo
(ed era inutile
negarlo, il primo amore sapeva essere anche spaventoso,
perché
più splendeva e più le ombre diventavano scure e
spesse e
tremende)
ma al contempo liberatorio.
Anche se, dopo sette anni, aveva capito di non essere più
libero. E forse aveva smesso di esserlo nell'esatto momento in cui
aveva voltato le spalle a Ryoga per l'ultima volta.
6
Kaito ricordava bene anche come si era comportato a riguardo: male.
Non solo dopo aver realizzato l'immensità di quel sentimento
aveva deciso caparbiamente di allontanarsi sia fisicamente che
emotivamente
(e più lo faceva, più Ryoga si avvicinava, forse
senza neanche rendersene conto)
ma gli aveva anche dato il colpo di grazia quella lontana sera di fine
inverno, davanti casa di Ryoga, quando gli aveva detto che si sarebbe
trasferito a Den City per studiare Giurisprudenza. Den City, a ore e
ore di treno da lì, da Heartland City. A centinaia di
chilometri
di distanza dalla persona che aveva iniziato ad amare troppo presto e
al contempo troppo tardi.
Rimembrava bene le sfumature che gli occhi di Ryoga avevano assunto. E
le ricordava così bene perché non vi era
assolutamente
nulla da imprimere nella memoria: il blu scuro aveva lasciato posto al
nero pece, denso e apatico. Nessuna sfumatura faceva capolino in quelle
iridi tanto vuote. Nessun guizzo di luce le irradiava e abbelliva.
Erano la desolazione più assoluta.
Di Ryoga non era rimasto nulla, solo una maschera di pietra muta e
distaccata. Una corazza che invano tentava di proteggerlo dalle
tonnellate di dolore che gli si erano appollaiate sulle spalle,
affondando gli artigli nella tenera carne
(faceva
male, faceva male da morire)
mentre Kaito recitava il suo copione mentale alla lettera, senza
interruzione alcuna, talmente perfetto da risultare falso.
E poi arrivarono. Sei parole soltanto. Sei parole dalla potenza di un
bombardamento aereo.
(«Non
è il nostro tempo, Ryoga»).
(«E allora quando lo sarà?»)
(Nessuna risposta. Nessun segnale).
(Niente. Niente di niente).
7
Kaito si bloccò di colpo. Alzò lo sguardo al
cielo stellato, respirando profondamente.
(Inspirò).
Era in anticipo, dopotutto.
(Ed espirò).
Poteva fermarsi qualche attimo prima di proseguire. Solo, nella
speranza che la mente non vagasse troppo
in là, andando a toccare alcuni nervi scoperti
e il suo cuore pulsante. Le immagini di ciò che lui e Ryoga
(non)
erano stati erano nitide e colme di particolari che a distanza di anni
ancora non aveva smesso di scoprire.
Inspirò ed espirò ancora. E il suo ultimo ricordo
con lui
gli carezzò la pelle, trasportato da una salmastra folata di
vento.
I die every day that you're away
from me
8
Avvertiva il suo respiro
sul collo.
Era caldo e maldestro, come se avesse trovato appiglio tra la stoffa
della sciarpa grigia, intrufolandosi a suo piacimento in mezzo al
tessuto per carezzare l'epidermide scossa dai tremiti. Kaito
maledì se stesso per non essere uscito in macchina, quella
sera.
Certo, all'inizio non l'aveva reputata necessaria, dato che casa sua
non distava molto dal punto di ritrovo; i problemi erano arrivati dopo,
quando Ryoga si era cacciato nei guai – o meglio: era in
procinto
di farlo – per l'ennesima volta.
Lo aveva fermato in
tempo,
stringendogli il polso e facendolo voltare verso di lui. Lo aveva
osservato qualche istante e quelle brevi frazioni di secondo gli erano
bastate per constatare che Ryoga non fosse affatto in forma: era
stanco, probabilmente aveva anche qualche linea di febbre e tutto
quella sera avrebbe dovuto fare tranne che uscire di casa con l'intento
di scatenare un casino.
Erano trascorse tre
settimane da
quando Kaito aveva compreso e realizzato di provare qualcosa per Ryoga.
Tre settimane in cui aveva cercato in ogni modo possibile e
immaginabile di evitarlo sotto tutti i punti di vista, allontanandosi
da lui e dal resto del suo gruppo. In fin dei conti frequentava il
terzo – e ultimo – anno delle superiori e aveva
tantissimo
da studiare, quindi appoggiarsi a quella scusa non era neanche una vera
e propria bugia. Inoltre, si stava anche preparando per il test
d'ammissione all'università, dato che mancava una sola
settimana
e il tempo scivolava sempre più tra le dita.
(Tempo. Test d'ammissione. Università.
Facoltà di Giurisprudenza).
(Non lì. Non a Heartland
City).
(Lontano da Ryoga).
9
All'ennesimo fremito
dovuto al
respiro caldo di Ryoga sul collo, Kaito si ridestò dai suoi
pensieri. Ryoga era molto più leggero di quanto immaginasse
e
non gravava affatto sulla sua schiena. A preoccuparlo maggiormente
erano le sue
(le loro)
sensazioni.
«Come
stai?» domandò mentre avanzava per la lunga via
che
portava a casa di Ryoga. In macchina sarebbero arrivati molto prima
anche se, in tutta onestà, per quanto compromettente
potesse essere, quel momento dedicato a loro e a loro soltanto era
contornato da sfumature meravigliose. Era la prima volta che si
trovavano soli. Forse era davvero il loro momento.
(O forse no. Non ancora).
«Che fai,
ora ti preoccupi?» borbottò Ryoga, il mento
poggiato sulla
sua spalla. «Mi eviti per settimane intere e ora mi stai
addirittura accompagnando a casa» rincarò la dose,
una
punta di acidità nel tono di voce e la presa delle braccia
lievemente allentata.
«Tieniti,
per favore. E ascoltami: è stato Yuma a chiamarmi, ed era
anche
molto preoccupato per te. Ha detto che questa sera, con molta
probabilità, ne avresti combinata un'altra delle tue
e–»
«E così ti sei improvvisato paladino della
giustizia per venire in mio soccorso? Che carino, grazie per avermi prestato
aiuto quando non solo non ne avevo bisogno, ma non te l'avevo neanche
chiesto».
Kaito alzò
gli occhi al cielo
e sospirò. «Si può sapere che ti
prende?»
domandò, un moto di frustrazione nel tono di voce e le mani
che
tremavano appena
(e no, non poteva permetterselo, doveva sorreggerlo).
«Vuoi davvero saperlo?»
Tutto mutò
all'istante. Le
parole di Ryoga non erano più sarcastiche e intrise di
acidità. Erano, invece, velate da una spessa patina di
serietà. Si strinse un po' più forte contro di
lui e
Kaito comprese che qualcosa era in procinto di emergere dagli abissi.
Gli stessi abissi che avevano preso il posto del cielo quella sera:
scuro come un buco nero, privo di stelle e nebulose.
(Nudo, inerme, esposto).
«Sì, voglio saperlo».
10
Fu Ryoga a sospirare,
questa volta.
Si morse il labbro inferiore e poi parlò: «Mia
sorella
frequenta un ragazzo».
Nonostante fosse ben
conscio di aver
appena scoperto solo la punta dell'iceberg, Kaito non riuscì
a
trattenersi: «Non ci vedo nulla di male»
commentò
infatti, guardando sempre dritto davanti a sé. Intravide
l'abitazione di Ryoga pochi istanti prima che quest'ultimo replicasse e
che il mondo gli crollasse addosso.
«Thomas ha diciassette anni».
Kaito si
bloccò. Lì, in
mezzo alla strada, con Ryoga che pareva lo stesse goffamente
abbracciando da dietro. Si irrigidì e deglutì a
fatica,
continuando a guardare dritto davanti a sé, anche se in
realtà non stava più osservando nulla.
(Cosa stava fissando, se non la cruda realtà
dei fatti?)
«Quel tipo
non mi piace. Girano strane voci sul suo conto e non voglio che Rio
soffra per causa sua. Lei ha quattordici anni. Insomma, lui
è… è…»
«Troppo grande per lei» concluse Kaito al posto suo.
Sapeva quanto Ryoga
fosse
visceralmente legato alla gemella. Con ogni probabilità, non
avrebbe accettato neanche un coetaneo come frequentazione per lei.
Certo, Rio era libera di vivere le proprie esperienze e Ryoga non
poteva sindacare più di quel tanto, motivo per il quale
accadeva
spesso che si cacciasse nei guai al solo scopo di proteggerla. La
facciata da “cattivo ragazzo” era una mera leggenda
metropolitana: Ryoga non finiva nei casini per divertimento o
perché gli andava o per mostrare chissà quale
superiorità; lui finiva nei casini quando la preoccupazione
per
Rio raggiungeva picchi esponenziali.
Concludere la frase per
lui fu una
pugnalata al cuore. Qualcosa, nei meandri dell'anima, si
spezzò.
Il mondo era sordo, ma lui no: quel frammento di anima si
staccò
e cadde a terra, frantumandosi in pezzi ancora più piccoli e
lui
lo sentì. Il suono che gli giunse ai timpani era un lamento
intriso di sangue e dolore, un vuoto nel quale si era inabissato senza
più riuscire a riemergere.
(Viveva
nell'illusione di nuotare verso la superficie, quando invece stava
sprofondando sempre più. Ed era orribile, perché
più il tempo passava e più realizzava che non
poteva fare
a meno di lui).
«Troppo grande per
lei»
ripeté in un sussurro, quasi volesse dare una forma concreta
a quel concetto torbido e dilaniante.
«Già.
Quantomeno per il momento. Ma io non posso dirlo» ammise
Ryoga,
sorridendo amaramente. «Sarei ipocrita se lo
facessi». Si
strinse ancora più forte a Kaito, premendo il petto contro
la
sua schiena. «Perché lo stesso vale per me. E sai,
nel mio
caso la persona in questione è anche più grande
di
Thomas. Solo di un anno, ma la differenza c'è».
11
L'aria tardò
ad arrivare ai
polmoni. Kaito deglutì ancora e questa volta
avvertì la
gola pizzicare. Si umettò le labbra, fattesi improvvisamente
secche, articolando parole mute che Ryoga non poteva né
vedere
né sentire.
«È
per questo che hai iniziato a evitarmi, vero? Perché l'hai
capito e non mi vuoi. È così?»
«No, non è così. L'ho fatto per
l'esatto opposto».
Avrebbe potuto mentirgli
spudoratamente e chiuderla lì. Dirgli che sì, si
era
allontanato da lui per quello, perché aveva intuito qualcosa
e
non era affatto interessato a prendersi cura dei suoi sentimenti. La
verità era che Kaito non aveva capito proprio un bel niente
dei
sentimenti di Ryoga, il quale era stato assai abile nel celarli sotto
strati e strati di indifferenza. Un'indifferenza che per Kaito era
stata quasi un'ancora di salvezza, perché se Ryoga non
ricambiava ciò che provava per lui, allora aveva
più
probabilità di dimenticarlo nel minor tempo possibile.
La stessa maschera
impassibile che
Kaito aveva sfoggiato ogniqualvolta si erano incontrati, anche solo di
sfuggita, durante le tre settimane in cui aveva tentato in ogni modo di
allontanarsi da lui.
Non avrebbe mai
immaginato che Ryoga
ricambiasse i suoi sentimenti. Doveva ancora realizzarlo del tutto, ma
quantomeno tornò a respirare. Anche se la situazione si era
fatta mille volte più delicata.
12
«Fammi scendere».
Solo in quel momento
Kaito
realizzò di essersi fermato in mezzo alla strada. Un
venticello
freddo aveva fatto il suo timido ingresso in città,
pizzicando
le gote e portando con sé sospiri impercettibili. E Ryoga
aveva
la febbre, non poteva continuare a stare lì fuori. Mancava
poco
e lo avrebbe riportato a casa. Era quasi finita.
(Come poteva essere finita quando era appena iniziata?)
Ignorando la richiesta
– o
meglio: l'ordine – di Ryoga, Kaito riprese a camminare,
tentando
nel mentre di non sprofondare nel subbuglio emotivo nel quale si era
ritrovato a vorticare senza preavviso alcuno.
«Kaito, fammi scendere».
«No».
(Un dimenarsi debole e traballante).
«Voglio scendere».
«Ho detto di no».
(Un ringhio di frustrazione).
«Tanto tra poco dovrò farlo per
forza…»
«Ecco, quindi vedi di calmarti».
(A quelle parole, Ryoga si agitò ancora di
più).
«Non puoi fare finta di nulla! Ti rendi conto di
ciò che hai detto?»
«Non sto facendo finta di nulla e sì, mi rendo
conto di ciò che ho detto».
«Allora fammi scendere, voltati e diciamocelo in
faccia».
«Ryoga, non possiamo».
«Perché?»
«Perché…»
(Perché non è il nostro tempo).
Nessuna risposta.
13
My heart breaks with every beat
I
can't explain what you do to me
So
just say you'll promise me
Please,
take me if you ever leave
Ryoga poggiò
nuovamente i piedi
a terra quando giunsero dinanzi la porta di casa sua. Era talmente
annichilito che pareva sul punto di svenire da un momento all'altro; al
contempo, però, i suoi occhi erano lucidi non solo a causa
della
febbre, ma anche per il desiderio sconfinato di chiarire una volta per
tutte la loro situazione.
Si strinse forte nel cappotto pesante, ora che non poteva
più
farlo con Kaito, guardandolo intensamente con gli abissi profondi che
aveva al posto delle iridi.
«Voglio sapere perché» riprese il discorso,
intenzionato più che mai a ricevere una risposta.
«Per lo stesso motivo che ti
porta
all'esasperazione non appena scopri che tua sorella ha un appuntamento
con un ragazzo di diciassette anni» rispose Kaito con un tono
di
voce molto più tagliente di quanto lui stesso si aspettasse.
«La situazione è
diversa perché Thomas ci sta, a
differenza tua»
obiettò Ryoga, sempre più intestardito a
riguardo.
Avvampò nel momento in cui realizzò di aver detto
qualcosa di altamente fraintendibile. «Cioè, con
Rio.
Thomas con Rio – anche se non lo approvo».
«Sì, lo avevo
capito» lo
tranquillizzò Kaito. Si umettò le labbra,
passandosi poi
una mano tra i capelli. «Ryoga… non
possiamo».
E Ryoga sussultò. «Voglio capire perché» disse, tirando poi
su col naso.
(No, non stava
affatto bene. Necessitava
di barricarsi sotto le coperte calde il più presto
possibile. E
Kaito non voleva essere la causa di un ulteriore dolore per lui).
«Tra una settimana
sosterrò l'esame per entrare
all'università».
«E diamo per scontato il fatto
che lo supererai. Ancora non capisco quale sia il problema».
Kaito lo ringraziò mentalmente anche se, con ogni
probabilità, Ryoga non lo avrebbe ringraziato a sua volta
con
ciò che stava per dirgli. Qualcosa che Ryoga stava solo fingendo
di non capire perché, Kaito lo aveva notato e anche fin
troppo
bene, stava solo glissando sulla cosa più importante per non
renderla reale.
(Il nocciolo della questione, il nucleo,
l'abisso più scuro e profondo e spaventoso).
«Ryoga…»
«Sì…?»
(Si stava lentamente accartocciando su
se stesso. Così piccolo, perso, solo e spaventato).
«La Facoltà di
Giurisprudenza…»
«Si trova dall'altra parte di
Heartland City, che vuoi che sia?»
«Ryoga, smettila. So che hai
capito».
Ryoga si irrigidì. Deglutì a vuoto una, due, tre
volte, provò a replicare senza però riuscirci.
«Ora ascoltami. E vedi di
fartene una ragione
in fretta, perché non lo ripeterò una seconda
volta: la prossima
settimana sosterrò l'esame per entrare
all'università. Ma
non qui. Andrò a Den City». Sapeva che con quelle
parole
lo stava uccidendo. Poco per volta, come un veleno che agiva lentamente
e martoriava il corpo portando con sé una lenta agonia.
Ryoga sgranò gli occhi, quasi volesse portarli oltre il
limite
consentito. «Come, scusa?» domandò con
un filo di
voce. «Che stronzata è mai
questa?»
E allora Kaito capì. E si diede mentalmente dell'imbecille:
Ryoga non lo sapeva, ignorava che l'università che aveva
scelto
si trovasse in un'altra città – la quale era anche
molto
lontana da Heartland City.
Per tutta la conversazione aveva creduto fermamente che Ryoga non
volesse ammettere la realtà dei fatti e che negasse
l'evidenza
con ogni mezzo a sua disposizione. Ma non era così, era
l'esatto
opposto: Ryoga non immaginava affatto che Kaito se ne sarebbe andato da
quella città, credeva che sarebbe rimasto. Per questo
trovava incomprensibile il fatto che Kaito non volesse
dare loro una possibilità: perché la distanza, sia fisica che emotiva, non
l'aveva mai contemplata.
«Tu… tu credevi che
sarei rimasto
qui» parlò, rivolgendosi più a se
stesso che a
Ryoga.
«Già. Avresti
potuto avere la decenza di dirmelo» lo
attaccò quest'ultimo, con voce e gambe tremanti.
«E tu quella di entrare in
casa a riposarti».
Ryoga digrignò i denti come una belva inferocita.
«Vedi
come sei? Cerchi di evitare il discorso con ogni mezzo a tua
disposizione! Sei un codardo!»
Kaito si inalberò. «Un codardo? Io? Credi sia facile per me tenerti
alla larga quando l'unica cosa che vorrei è avere
più tempo
per stare con te? Come credi ci sia rimasto quando ho realizzato troppo
tardi di
provare qualcosa per te? O come credi che stia ora? Credi che abbia scelto a cuor
leggero di fare tutto ciò che ho fatto?»
Si avvicinò a lui e lo prese per le spalle, scuotendolo
appena. «Cresci, Ryoga, cresci. Il mondo non gira intorno a te,
intorno a noi…
(la voce si
incrinò)
… anche se vorrei fosse davvero così».
Sciolse la presa sulle sue spalle e si voltò, scendendo i
tre scalini con ginocchia tremanti.
«Questo è il tuo
discorso di
addio?» gli domandò Ryoga, stringendosi nuovamente
nel
cappotto pesante. Anche la sua voce si era ormai incrinata del tutto,
nonostante mantenesse una certa parvenza di dignità.
«Perché se è così, fa
davvero schifo».
Kaito si bloccò, respirando a fondo. «Non mi
sembri il tipo da preferire un'illusione alla
verità».
«Infatti. Ed è
proprio per questo che
non capisco perché tu non voglia rendere reale quello che
proviamo l'uno per l'altro. Perché non possiamo stare
insieme?»
«Non è il nostro
tempo, Ryoga».
«E allora quando lo
sarà?»
(Gli diede addio
senza rispondere a quella domanda).
But the thought of you gone
Makes
everything wrong in my life
So stay right
here, right now...
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