7. Fragili apparenze
Era giunto il momento di reclamare il mio premio di “Cazzaro
dell’anno”, per aver combinato una marea di cazzate in tempo record.
Ultima, ma non meno
importante, mi aveva visto protagonista di una scenata degna di un bambino
dell’asilo, preso com’ero dall’eccitazione di questa festa e dalla mia anima,
non del tutto sopita, di buon samaritano. Volevo fare del bene e avevo finito
per calpestare completamente i sentimenti di Alan.
Sì, be’. Calpestare era un
vero e proprio eufemismo.
C’ero ripassato più e più
volte, fino a che, non contento, avevo strappato tutto ben benino, giusto per
assicurarmi di aver fatto ogni cosa a dovere.
Alan era sparito oltre
il corridoio, dove c’erano i metal detector,
imboccando poi l’uscita, mentre Ash era ancora in
piedi lì, davanti a me, col fiato più grosso di un velocista che ha appena
terminato la gara.
«Basta, cambio ufficio.»
«Cosa?»
Era livido in volto e con
due occhi truci scrutava l’angolo oltre il
quale c’erano i sensori.
«Sono sei mesi che fa così,
non lo sopporto più! È uno scassapalle del cavolo, sempre con quel muso, sempre
acido!»
Era proprio partito per la
tangente. Ormai sbottava senza neanche più guardarmi e sbraitava infamie a
destra e a manca, senza nemmeno rivolgersi a qualcuno in particolare.
«A quello manca un uomo, te lo
dico io. Che scopasse un
po’ di più, cavolo! Spero arrivi presto qualcuno a tappargli la bocca, oh.»
Decisi di non indagare sul
come questo qualcuno gli avrebbe tappato la bocca.
Ma che stavo dicendo?
Avevo combinato un guaio e
avevo pure voglia di scherzare?
Ash sospirò, scuotendo la
testa.
«Scusa. Ci sei rimasto, eh?»
In realtà ero sicuro che Ash
avesse blaterato molte altre cose rispetto a quelle che il mio cervello aveva
elaborato, ma i miei pensieri erano andati tutti ad Alan e a come potevo fare
per evitare una figura così misera.
Non mi diede nemmeno il tempo
di rispondere, che riattaccò subito.
«Però dai, se lo merita. Prova
tu ad averlo come collega tutto il giorno, tutti i giorni! Alla fine quella
pistola alla vita ti viene voglia di usarla, credimi!»
«Verso di lui o verso di te?»
Ash sbuffò.
«Meglio se non dico niente,
potrebbero arrestarmi.»
Alzò rapidamente le
sopracciglia e scrollò le spalle, sconsolato. Effettivamente poteva non avere
tutti i torti. Non passò nemmeno un secondo che ricominciò a borbottare.
«Io ci ho provato in tutti i
modi, sai? Ho provato a presentargli qualcuno, a proporre uscite, ma niente.
Ormai ha deciso che vuole fare il single inacidito e a me tocca sopportarlo
ogni santo giorno. Ma poi, avesse una ragione per essere così! Io glielo chiedo
sempre: ‘Ma che ti ha fatto di male il mondo?’. Mi fa un’occhiataccia e
va via. Non lo capisco.»
Lasciai che Ash si sfogasse,
che mi raccontasse del perenne muso lungo di Alan, la sua attitudine a
rompergli le scatole per ogni virgola fuori posto quando conducevano le
indagini e molte altre storie che descrivevano un uomo solo e arrabbiato col
mondo. Mentre ascoltavo Ash mi sentivo pure un po’ in colpa, perché io sapevo,
almeno in parte, il motivo per cui Alan era così; ma non potevo certo
spifferare i fatti suoi, perché supponevo che avesse avuto le sue ragioni se
non aveva detto niente ad Ash.
Cosa avrei potuto fare?
Cercai di calmarlo, dicendogli che forse non era il caso di provocare Alan in
quel modo ogni volta, con battute sul suo carattere e sul fatto che avesse
bisogno di un uomo, ma l’effetto fu solo che Ash sbraitò ancora di più e a voce
sempre più alta; mi chiesi se qualche
collega non stesse sentendo tutto, col rischio che,
il giorno dopo, riferisse ogni cosa al diretto interessato.
Purtroppo o per fortuna, un
altro poliziotto lo chiamò per un favore, e così ci
congedammo.
Quella
situazione era strana.
Era questo ciò che pensavo,
mentre aspiravo la terza sigaretta del giorno. Una leggera brezza mi liberò
dall’oppressione di quel caldo estivo, che, sebbene non fosse soffocante, era
sufficiente a farmi sudare. Avrei potuto incamminarmi verso casa, ma avevo
preferito aspettare fuori dalla stazione di polizia, nel cortile interno, nel tentativo di riordinare le idee.
Sentivo di dovere delle scuse ad Alan, ma non sapevo da dove cominciare, né
se mi avrebbe ascoltato. Paradossalmente, avrebbe potuto approfittarne per
sbarazzarsi per sempre di me e lasciarmi così con quel peso sul cuore di cui
volevo liberarmi al più presto.
Schiacciai la sigaretta nel posacenere -
stavolta evitai di buttarla per terra - e decisi che era tempo di darsi una
mossa. Attraversai nuovamente il cortile interno e varcai ancora la soglia
della centrale; passai sotto ai metal detector e superai un gruppo di
poliziotti intenti a ridere di gusto, forse per qualche barzelletta;
probabilmente erano gli agenti del turno di sera, dato che erano già le sei.
Mi fermai un attimo cercando di fare mente
locale sulla planimetria di quel posto, perché la porta davanti a me somigliava
moltissimo a quella da cui ero appena rientrato —
o forse era quella che avevo varcato la prima volta?
Una bionda in mise elegante mi passò
accanto, con tacchi talmente vertiginosi che mi chiesi come facesse anche solo
a muoversi di un centimetro. Ma non solo si muoveva: faceva passi rapidi e
piccoli, perché la gonna era troppo stretta per permetterle falcate più lunghe,
e il suono dei suoi tacchi sul pavimento somigliava parecchio a un orologio
impazzito.
Tic-toc-tic-toc.
In un moto di ammirazione, la osservai
superarmi nel senso opposto e poi sparire chissà dove - ma ero abbastanza
sicuro che non fosse la direzione giusta.
Mi lasciai guidare dal mio istinto e
proseguii dritto, a passo sostenuto. Non volevo certo correre il rischio di
essere scambiato per un criminale in fuga — oltre
al fatto che, a ogni passo, lo spigolo del quaderno ad anelli, custodito dentro
la mia tracolla, mi pungolava il fianco destro ancora e ancora.
Superai gli ennesimi metal detector e mi
ritrovai nel cuore della civiltà. Quella era senza dubbio l’uscita principale,
ma, sulla destra, notai un vicolo che scoprii portare al parcheggio per
dipendenti e utenti, almeno a giudicare dal numero di auto.
Macchine e macchine si estendevano per
quasi un isolato, separate dal mondo esterno solo da un alto muro di cemento,
che isolava il perimetro del parcheggio dal caos della città.
Gettai un’occhiata rapida a tutte le auto,
mentre piano piano mi facevo largo tra i filari di macchine, ma di Alan nessuna
traccia. Con ogni probabilità se n’era già andato, anzi: era sparito alla
velocità della luce.
Osservai sconsolato quella coltre di asfalto
senza un’anima in giro, lasciando che una leggera brezza mi rinfrescasse la
schiena. Ripresi fiato, dopodiché aprii la tracolla e ci infilai la mano
dentro. Tastai il quaderno con gli appunti di materie plastiche, finii di dare
il colpo di grazia ad altri fogli appallottolati e tirai su un pacchetto di
fazzoletti che mi era rimasto attaccato al pollice. Lo ributtai dentro e
continuai a cercare, ma fui punto dall’estremità della chiave del portone di
casa; razzolai fino al fondo della borsa e ne rastrellai pure gli angoli, dove
scoprii patatine frantumate di cui ignoravo l’esistenza.
Dopo essermi convinto che quella borsa
aveva necessità di essere lavata, mi accorsi che non c’era.
Uno sbuffo pronunciato mi fece voltare di
scatto, tanto veloce che mi scricchiolò il collo.
«Cercavi questo?»
Lo sguardo di Alan si scontrò con il mio.
La sua mano era protesa verso di me; sul palmo, teneva il mio cellulare. Tirai
fuori la mano dalla tracolla e mi pulii sui pantaloni le briciole che si erano
depositate sulla punta delle mie dita, poi allungai una mano verso la sua e mi
ripresi il telefono, buttandolo nella borsa insieme al resto. Chissà se lo
avrei mai più ritrovato.
«Grazie. Cominciavo a pensare che la mia
tracolla se lo fosse mangiato.»
Lui non sorrise e spostò gli occhi
altrove, perso in qualche pensiero di cui non era difficile immaginare il
protagonista.
Scrollò le spalle e fece dietro-front per
tornare, quasi sicuramente, alla macchina.
«Aspetta!»
Si fermò ed emise un sospiro scocciato,
poi si voltò verso di me.
«Non è l’ora di tornare a casa? Che ci fai
ancora qui?»
Cercai di smorzare la tensione.
«Sai com’è. Sensi di colpa.»
Sfoderò un’espressione
soddisfatta.
«Detto
da te è quasi incredibile. Però mi dispiace dirti che
io sto andando a casa e sono di fretta, per cui…»
Prese a camminare rapido come
la ‘signora tic-toc’ — tranne per il fatto che lui non faceva ‘tic-toc’. Accelerò il
passo all’improvviso, ma io riuscii a piazzarmi davanti a lui e a bloccargli la
strada.
«Aspetta! Che ne dici di farci
una passeggiata? Così parliamo un po’.»
Mi scostò educatamente con un
braccio, ma non mi diedi per vinto.
«Nathan, ho da fare. Sei
sollevato da tutti i tuoi sensi di colpa, va bene?»
Alzai gli occhi al cielo e
gonfiai le guance. Era proprio irriducibile! Lo raggiunsi di
nuovo, stavolta camminando al suo fianco, seguendo il
suo ritmo.
«Sarà una cosa veloce,
promesso.»
«Te lo ripeto: ho da fare.»
Sbuffai per l’ennesima volta.
«Ma cosa devi fare di tanto
importante, si può sapere?»
Schioccò la lingua e si fermò.
Una piccola vittoria per me, pensai. Si voltò verso di me e piantò i suoi occhi
nei miei. Forse cercava di essere convincente.
«Devo lavorare, ok? Poi devo
fare la spesa e preparare da mangiare. Il cibo non si cucina da solo, sai?»
Mi fece un sorrisetto
vittorioso, ma non mi lasciai spaventare. Non avrei ceduto per niente al mondo.
«Puoi sempre ordinare una
pizza a domicilio, sai?» gli feci eco, con quel tono saccente di chi ha
sempre la verità in tasca. La mia era innegabile.
«Quel cibo spazzatura te lo
mangerai tu. Alla prossima.»
Tirai fuori il portafogli
dalla tasca dei pantaloni e mi misi a frugare. Come speravo, lui si fermò e si
voltò per osservare i miei movimenti, senza dire niente. Io estrassi i miei
miseri dieci dollari e glieli sventolai sotto il naso, a malincuore.
«Compro dieci minuti del tuo
tempo.»
Fissò la banconota
svolazzante, poi sospirò. Arricciò le labbra, fissandomi, le mani infilate in
tasca.
«Va bene, se proprio insisti.»
Mi rigirai i dieci dollari tra
le dita e li rimisi da dove li avevo presi, con l’intenzione di darglieli più tardi. Ero soddisfatto
di me stesso, ero orgoglioso di essere riuscito a convincerlo. Decisamente una grande impresa.
«Devo passare dalla biblioteca
dell’uni. Dai, non fare quella faccia, è qui vicino!»
Lui alzò le mani in segno di
resa.
«Non ho detto niente.
Andiamo.»
Il discorso da fare era semplice. Dovevo scusarmi per la mia
insistenza e la mia insensibilità, per aver fatto a pezzi così i suoi
sentimenti. Eppure in quel momento mi pareva così privo di preoccupazioni, che
mi sembrava quasi un crimine tornare sull’argomento. Probabilmente cercava di
non pensarci e ci stava riuscendo; come potevo distruggere quella sua
tranquillità? Camminavo per le strade di New York con passo lento, nella
speranza di farmi venire in mente un discorso sensato, ma l’atteggiamento di Alan
mi lasciò così di stucco che ostacolò ogni mio tentativo: il suo sguardo non
era perso nel vuoto come al solito, né rivolto ai suoi piedi, nel migliore dei
casi; osservava le auto sfrecciare, seguiva la folla che attraversava ai
semafori. Sembrava aver ristabilito un contatto col mondo.
Senza nemmeno rendermene
conto, però, arrivammo alla biblioteca. Distava veramente pochi minuti e capii di aver perso un’occasione. Avevo avuto l’opportunità di
non apparire frivolo e stupido come mio solito e invece avevo mandato tutto
alle ortiche. Tipico. Per non parlare poi del fatto che avevo buttato dieci
dollari.
Non appena ci fermammo alla
biblioteca, lo vidi indietreggiare e tirare su il collo. Poi posò lo sguardo su
di me.
«Architettura? Ma
allora è vero.»
Mi sentii avvampare.
«Perché? C’è qualcosa di
strano?»
«Non so, pensavo che in realtà
studiassi "Scienze delle patatine fritte".»
Non ebbi il coraggio di alzare
lo sguardo.
Mi aveva schiacciato.
Riuscii solo ad abbozzare un
sorriso per non farlo sentire inopportuno, dopodiché afferrai la maniglia e
spinsi la porta.
Avevo voglia di crollare, di lasciarmi schiacciare dal peso della vita, con la
speranza, però, che qualcuno mi spingesse via prima che il macigno mi cadesse
addosso. Sentivo gli occhi di Alan puntati su di me, mentre io continuavo a
rifuggire il suo sguardo, a osservare gli altri ragazzi in coda, sperando che
arrivasse presto il mio turno. Cercavo di nascondere la mia delusione, perché ancora
una volta Alan aveva riassunto la mia vita con un’unica frase; ma per quanto
cercassi di nasconderlo non potevo prendere in giro nessuno, specialmente lui,
che forse sapeva meglio di me come mettere una pezza sui nervi scoperti.
Per tutto il tempo dell’attesa
evitò qualunque domanda, lasciando che un silenzio complice si insinuasse tra
di noi.
Scienze delle patatine fritte.
Forse era l’unica facoltà che
mi meritavo davvero.
Mi tornò in mente mio padre:
anche questa volta aveva vinto lui.
Chiesi alla segretaria il
libro che avevo prenotato e solo in quel momento mi resi conto che anche Alan
era entrato con me, nonostante il miliardo di cose da fare e il patto che
avevamo stretto.
Mi voltai verso di lui e mi
parve proprio un uomo raffinato, con quei modi rispettosi e quell’abbigliamento
così serioso – certo, era per lavoro, ma i polsini chiusi erano un chiaro segno
di civiltà. Mi sembrò proprio il tipico lord inglese, mentre io apparivo come
il classico americano col trancio di pizza in mano,
intento a guardare tv spazzatura spaparanzato su un divano da quattro soldi.
Magari biascicando pure.
Quella differenza abissale mi divertì invece di farmi sprofondare nell’imbarazzo. Forse avrei
dovuto prendere spunto da lui.
Ringraziai la signorina e ci
avviammo entrambi fuori dall’edificio.
Mi ricordai in quel momento
del motivo per cui l’avevo costretto a venire fino lì. Il sole aveva
già cominciato la sua discesa dietro i grattacieli e
mi ricordai ancora una volta di tutti gli
impegni di Alan e del tempo che gli avevo sottratto.
«Quindi vuoi diventare un
architetto?»
Me lo chiese con sincero
interesse, senza malignità. Ma io che potevo rispondere? Che no, non volevo
diventare un architetto? Che avevo scelto quegli studi e quella facoltà
costosissima solo per non sentirmi un fallito? Che avrei solo deluso tutti,
come da copione?
Nessuna di quelle domande uscì
fuori dal mio guazzabuglio di pensieri e mi limitai a fare un’alzata di spalle.
«Ci provo.»
Affermazione non del tutto
falsa, tanto per tenermi la coscienza a posto.
Lui l’aveva capito e tirai
appena la bocca.
Mi rivolse un’occhiata
complice, muta, quasi telepatica, mentre anche le sue labbra si piegarono in un
sorriso appena abbozzato. Sembrò quasi che mi avesse spogliato di ogni segreto, che attraverso quegli occhi
riuscisse a carpire ogni mio pensiero.
Abbassai lo sguardo e mi
sentii piccolo piccolo, miserabile, quasi sbagliato. Avevo ventun anni e
nemmeno sapevo cosa fare della mia vita. Presto sarebbe stato troppo tardi per
decidere, ma sapevo che avrei continuato ad annaspare nel mare dell’indecisione
per molto altro tempo ancora. Solo che alla fine sarei annegato. Forse mi sarei ritrovato a spacciare droga o peggio,
incapace di dare una forma alla mia vita.
Piccolo piccolo. Miserabile.
Sbagliato.
«Be’, immagino che ogni tanto
possa capitare qualche materia più ostica. Succede a tutti, ma non per questo
devi buttarti giù.»
Dovevo proprio fargli pena, se
era arrivato a mettere da parte quanto era accaduto prima per tirarmi su il
morale.
«Grazie.»
«Non hai qualche compagno di
corso con cui studiare?»
Ripensai a qualche pomeriggio
passato in compagnia di Ryan, quello
che sarebbe diventato l’architetto perfetto, perché capiva tutto al volo e non
aveva bisogno di farsi spiegare gli argomenti almeno due volte, né di usare
patetici trucchi per memorizzare nomi astrusi. Pensai anche a Laura, che
sicuramente avrebbe frainteso la mia richiesta di studiare insieme.
«No, anche perché mi distraggo
troppo facilmente. Ci vorrebbe qualcuno di serio, pronto a rimproverarmi se
comincio a raccontare qualche stronzata delle mie…»
Istintivamente alzai gli occhi
verso Alan e fu come eseguire un test del DNA: combaciava
perfettamente con la descrizione che avevo appena dato.
Avevo di fronte a me la persona che cercavo, che già immaginavo a rimproverarmi
con aria fredda e severa a ogni tentativo di distrazione.
«Non ci pensare nemmeno.»
… Peccato che la mia sola
vista gli facesse venire l’orticaria.
Volevo ribattere
in qualche modo, ma poi mi ricordai ancora una volta del perché ero lì e del
favore che mi stava facendo a rimanere anche più dei dieci minuti previsti. Era
così educato che non guardava nemmeno l’orologio – ma forse aveva dato una
sbirciata a quello nella biblioteca. Capii che era giunto il momento di porgere
quelle scuse che tanto avevo cercato di rimandare, un po’ per l’imbarazzo, un
po’ perché non sapevo cosa dire.
Mi schiarii la voce.
«Senti…»
«Sì?»
Feci un bel respiro e mi
buttai.
«Mi dispiace per prima, mi
rendo conto di essere stato stupido. Non l’ho fatto con cattiveria, mi sembrava
solo una buona idea quella di farti venire alla festa con me, ma forse in
questo momento non è il caso, è vero. Scusa.»
Arrivai in fondo a quel
discorso con una leggera apprensione addosso, soprattutto perché non riuscivo a
leggere nessuna emozione nel suo sguardo criptico. Poi, all’improvviso, il suo
volto si rasserenò.
«Hai ripreso fiato?»
«Sì.»
Tentavo in tutti i modi di
tenere a bada quel sorriso che voleva spuntare da un momento all’altro, perché
non potevo permettermi uno sguardo amichevole col rischio che mi mandasse a
quel paese. Così lottai per
ricacciare indietro quell’emozione di troppo, aspettando che Alan dicesse
qualcosa.
«Ti sei preso questi venti
minuti solo per scusarti?»
Ecco che ricacciare il sorriso
non mi apparve poi così difficile. Non era semplice decifrare il tono con cui
parlava, non riuscivo a capire se fosse ironico o serio. La sua espressione era
esattamente a metà tra i due estremi e lui era maledettamente bravo a non
pendere da nessuna delle due parti.
«Sì.»
Incrociò le braccia. Ancora
nessun indizio.
«Apprezzo il gesto, sei perdonato. Da almeno
dieci minuti, in realtà.»
Mi trattenni dal tirargli un
calcio amichevole sugli stinchi: ero stato in pena tutto quel tempo!
Ero stato lì a far frullare le
parole, a spremerle nel tentativo di trarne qualche buona frase e poi, puf,
scopro che la faccenda gli era scivolata via da secoli.
«Grazie. Pensavo di aver
combinato uno dei miei soliti casini.»
«Sì, infatti. Ma oggi mi sento
particolarmente buono.»
Mi scappò una risatina. Non
volevo sapere com’era quando si incazzava.
«Se comunque tu dovessi
cambiare idea sulla festa, fammi un fischio. Tanto il numero ce l’hai.»
«Va bene. Pensi di chiedere a
qualcun altro?»
Alzai le spalle.
«Non lo so. Potrei sentire
Ash, che dici?»
Osservai il suo volto
irrigidirsi. Pensai che fosse per via di Ash, ma fui smentito un secondo dopo:
gli stava suonando il telefono.
«Scusa un attimo.»
Non appena rispose, la sua
espressione divenne tesa. Poi si voltò a guardarmi.
«È qui davanti a me», gli
sentii dire al suo interlocutore.
Emise qualche mugolio e diede
segno di assenso, intervallati da alcuni ‘Va bene’, non troppo convinti. Quando
riattaccò, sospirò profondamente, poi mi guardò con aria sconfitta.
«Vengo alla festa.»
Non potevo credere alle mie
orecchie.
«Stai bene?»
Si infilò il cellulare in
tasca e prese a camminare in direzione della centrale, a
riprendere la macchina.
«Ciao, Nathan. A sabato.»
«Ma come ‘Ciao’? Aspetta!»
Ma ero talmente stordito che
lui riuscì ad andarsene prima che potessi fermarlo.
Prima che potessi dargli i suoi
dieci dollari.
Il
sole dovette tramontare del tutto, prima che mi rendessi conto di quello che mi
aveva detto Alan.
Prima di rincasare controllai, come al
solito, la cassetta della posta. Alzai lo sportello e ci trovai dentro di
tutto: una bolletta, pubblicità di un grande magazzino e pure richiesta di
donazioni da parte di un'associazione umanitaria.
Afferrai tutta quella carta e chiusi la
cassetta, ma qualcosa scivolò dal malloppo che avevo in mano. Era un piccolo
bigliettino, che non riuscii ad afferrare prima che cadesse a terra. Lo
raccolsi e rimasi sorpreso: era simile a uno che avevo già ricevuto pochi
giorni prima, con una sfilza di parole senza senso, come “Soda” o “Cibo per
cani”, con numeri, luoghi e uno scarabocchio nell’intestazione.
Notai solo in quel momento che il
bigliettino era scritto a mano.
Strano modo di farsi pubblicità, pensai.
Cominciai a supporre che forse era
qualcuno che aveva sbagliato indirizzo, per poi accorgermi un attimo dopo che
l'indirizzo non c'era.
Era stato messo a mano da qualcuno, forse
da uno di quei ragazzi che distribuiva volantini, anche se non ci somigliava
per niente.
Entrai nel palazzo e suonai
all'appartamento della famiglia di Carter e Cathy. Fu la loro madre ad aprirmi,
insieme alle grida dei bambini che si stavano contendendo un coniglietto di
peluche. Mi chiesi quanto ci avrebbe messo il povero orecchio a staccarsi dal
resto.
La donna mi salutò, ma non prima di aver
sgridato i bambini.
«Scusa, è un inferno. Hai bisogno di
qualcosa?»
Le mostrai il bigliettino.
«È già la seconda volta che ricevo posta
come questa. Ho pensato che fosse pubblicità, così volevo sapere se l'avevi
ricevuto anche tu.»
Afferrò il bigliettino dalle mani e lo
scrutò. Lo girò, poi tornò a guardare le parole e i numeri. Alla fine, scosse
il capo e me lo rese.
«Non ho ricevuto niente del genere.»
«Ti ringrazio. Se dovessi arrivarti
qualcosa di simile, potresti farmelo sapere?»
La donna sgridò ancora una volta i bambini.
Il coniglietto lottava ancora per la sua integrità.
«Certo, nessun problema.»
Alla fine accadde.
Crac.
Il pianto di Cathy si levò per tutta la
stanza, mentre Carter era già pronto a puntare il dito contro la sorella. Lessi
il terrore negli occhi della loro madre, così mi affrettai a ringraziarla e
salutare.
Definirlo l'inferno era decisamente un
eufemismo.
Così,
per il momento, ero l'unico ad aver ricevuto quei bigliettini scritti a mano.
Pur riguardandolo, non riuscivo a trovarci alcun significato. Cominciai a
pensare a uno scherzo stupido o a uno scambio di persona; poi mi tornarono in
mente quegli occhi glaciali con cui mi ero scontrato e un brivido mi corse su
tutta la schiena. E se fosse stato un messaggio in codice che annunciava
vendetta da parte sua?
L’attimo successivo però mi ripresi: non
ero in un film, quel tizio non aveva idea di chi fossi e probabilmente
preoccuparmi non aveva alcun senso.
Così poggiai il bigliettino in casa e
buttai quella faccenda nel dimenticatoio, prima di mettermi a studiare.
Con la testa china su quel maledetto libro di Architettura
Moderna, ancora non mi capacitavo del fatto che mi sarei liberato di Steve per
sempre, o almeno il tempo necessario a farmi finire gli studi.
Razzolai la mano nella ciotola
di patatine che avevo accanto e afferrai una manciata di rimasugli che provai a
spargere in bocca, ma che ovviamente rimasero tutti attaccati alle dita.
E mentre continuavo a
rinvigorire la mia mente di carboidrati e a pulirmi le mani da
quell’appiccicume, seminando l’ennesima chiazza d’unto sul libro, udii la
suoneria di un messaggio.
Per un momento pensai che
fosse di Alan, che mi annunciava che ciò che mi aveva detto quel pomeriggio era
niente più che uno scherzo e che mi sarei arrangiato, con tanto di pernacchia
annessa.
Aprii il messaggio con una
strana fitta allo stomaco, come se stessi sostenendo un esame. Ma quando vidi
che era un numero sconosciuto e lessi il contenuto, quella fitta divenne una
morsa, il cuore prese a martellarmi all’impazzata e un sorriso incontenibile mi
si aprì sul volto.
Il messaggio che tanto avevo
aspettato, in cui ormai non speravo più, era finalmente arrivato.
Ciao Nate, finalmente trovo il
tempo per scriverti.
Mi sei mancato, sai? Quando
sei libero per vederci?
xxx Harvey
ps. Ho una sorpresa per te...
Angolino autrice
Salve a tutti! Eccoci qua col settimo capitolo, che forse potremmo
definire un po’ “di passaggio”. Il suo pregio però è quello di gettare le basi
per il prossimo, che penso di poter considerare senza dubbio come il mio
preferito! E forse in qualche modo potrete anche immaginarvi il perché ^__^
Ringrazio nuovamente tutte le persone che hanno speso un po’ del
loro tempo per leggere, e dono un pezzo di cuore anche a coloro che hanno
voluto lasciare una recensione. Mi rendo conto che questa storia, data la sua
natura fortemente introspettiva, possa non essere esattamente una lettura “per
tutti”, ma vi prometto che in qualche modo le cose si faranno più movimentate. Nei
limiti dell’introspettivo, ovviamente XD
A giovedì prossimo allora, sono davvero emozionata! E grazie ancora
a tutti voi <3
holls