Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi.
Scenderemo nel gorgo muti.
(Cesare Pavese)
Esiste uno strano paese, da qualche parte vicino al mare, dove le case
perdono colore.
Non accade sempre e non accade a tutte le case, ma solo a quelle che
smarriscono la volontà di vivere. Alcune diventano tristi,
dimenticano la loro funzione, il pigmento delle tegole sbiadisce, sulle
pareti si schiudono ragnatele di crepe. Infine piomba il silenzio, un
silenzio opprimente e impetuoso come se un oceano intero si riversasse
dalle finestre saturando le stanze fino al soffitto. È un
silenzio gocciolante, che ha lo stesso colore verdastro delle cose
annegate, umide e ammuffite.
La casa, si dice a quel punto, diventa una casa fantasma. E dopo una
prima fase di squilibrio iniziale, inizia a gonfiarsi e sgonfiarsi
amorfa come un anemone, come una larva, si richiude su se stessa come
un riccio e si dilata. Gorgoglia, si lamenta, appassisce e infine
muore, crolla.
Strappate il cuore a qualcuno e fatelo a pezzi. Le case fantasma hanno
la stessa consistenza della poltiglia vermiglia che vi
rimarrà appiccicata alle dita, e lo stesso odore metallico,
dolciastro, nauseabondo. Grumi di terra putrefatta.
C'è una casa in cima a una scogliera. Una casa che dieci
anni prima era splendida, né troppo grande, né
troppo piccola, dal tetto rosso come se le tegole fossero state dipinte
dal tramonto e le pareti dalla schiuma del mare. Era una casa piena,
piena di vita.
Poi all’improvviso, a notte inoltrata, sulla casa era calata
una coltre di nebbia soffocante e densa. Si era infiltrata nelle
tubature come un topolino silenzioso che zampetta al buio verso la
dispensa, poi il topolino si era trasformato in un cappio allacciato
intorno al collo.
E nonostante la caparbietà del sole, che si ostinava a
innaffiare quella casa ogni giorno di luce, le mura che un tempo
avevano scintillato insieme al mare ora rimanevano spente, mute.
Dentro questa casa ci abita una persona. O forse sarebbe più
corretto dire che ce ne abita mezza, dato che la sua altra
metà è andata perduta.
Questa è la sua storia: la storia di come una
metà torna a essere intera. Più
propriamente, è la storia di un porcospino che, in mezzo
all’oceano, trascinandosi dietro tutti i suoi aculei, deve
imparare come si nuota.
Sette brevi lezioni d’Oltremare (e di come un
porcospino imparò a nuotare)
*
Prima
lezione:
il mare - il mare - come ogni verità inesorabile e disumana, accade e basta.
*
Shouyou cammina sulla spiaggia. È scalzo, l'acqua di mare
s'infrange sulle caviglie, la schiuma sfrigola sulla pelle, dolce e
gentile. I gabbiani volano bassi, stranamente quieti, è
pomeriggio inoltrato e il sole sta per scomparire oltre l'orizzonte.
C’è calma piatta.
Shouyou solleva il viso. Punta gli occhi sulla casa grigia che si erge
sulla scogliera. Gli fa pensare a un gatto morto investito in un giorno
di pioggia. Suscita un dolore immenso, una tristezza violenta.
È repellente, l'istinto è quello di distogliere
lo sguardo. Però Shouyou si rifiuta, rimane immobile,
vigile, i meccanismi dentro la mente che ticchettano febbrili mentre
rimugina e pensa a come possa aggiustarla, curarla. Nonostante tutto
c'è bellezza, Shouyou l’avverte, la vede. Bisogna
solo grattare via quella coltre abissale che l’avvolge, e
tornerà a splendere.
Non è una casa perduta. Ha solo bisogno di qualcuno che le
tenda la mano.
*
Tre giorni dopo, Shouyou preme il dito sul campanello grigio. Non
emette un suono, è muto, o forse si rifiuta di parlare per
protesta, arresa. Perciò bussa alla porta.
Ad aprire è un ragazzo. Ha gli occhi tristi e
silenziosi come il campanello. Shouyou dentro ci vede il mare.
‘’Ciao,’’ gli dice con un
sorriso. ‘’Sono Hinata Shouyou. Il
Curacase.’’
‘’Osamu,’’ si presenta l'altro.
‘’Ma non ho chiamato nessun
Curacase.’’
La sua voce brucia. Gli fa pensare a una tenda che si strappa, a
qualcosa che non si rimargina.
‘’Sì, lo so. Ma ti crollerà
addosso a breve se non facciamo qualcosa.’’
‘’Grazie per la preoccupazione, ma sinceramente non
me ne frega. Ciao.’’
Osamu gli sbatte la porta in faccia. Shouyou inarca le sopracciglia
sorpreso, poi bussa un’altra volta. Osamu riapre, senza
sforzarsi di mascherare il fastidio.
‘’Senti,’’ ringhia.
‘’Io non-’’
‘’Mi ha chiamato il comune,’’
lo interrompe Shouyou, con un tono duro e inflessibile che ha imparato
a esercitare negli anni. ‘’Neanche io voglio
costringerti, però una casa del genere è
illegale. Se ti rifiuti ci saranno delle multe. E dopo le multe
arriveranno i servizi sociali, che ti porteranno in qualche centro di
recupero. E dopo ancora ti butteranno giù la casa e dovrai
trovarti un’altra sistemazione. Ti sta davvero bene
così?’’
Osamu assottiglia le palpebre. Lo fissa come se volesse scovare la
bugia dietro le sue parole. Ma non c’è nessuna
fregatura, Shouyou ha davvero un mandato del comune piegato nella
tasca, e non può permettersi di ignorarlo.
‘’D’accordo,’’ dice
infine. ‘’Fa' quello che devi
fare.’’
Shouyou estrae un secondo modulo dalla tasca e glielo porge.
‘’Devi firmare questo.’’
‘’Cos’è?’’
‘’L’autorizzazione. Per farmi entrare
dentro casa tua.’’
Osamu legge il modulo con la fronte corrugata, Shouyou nel frattempo
getta uno sguardo fugace allo spiraglio lasciato dalla porta socchiusa.
Non riesce a distinguere nulla, solo un grigio denso che non promette
bene.
‘’D’accordo,’’
risponde l’altro, restituendogli il modulo.
‘’Firmerò. Dimmi solo cosa devo da
fare.’’
‘’Beh, prima dovrei dare un’occhiata
all’interno, per organizzare un piano di lavoro. Quando
saresti disponibile?’’
‘’Anche adesso,’’ ribatte
Osamu, secco. ‘’Prima iniziamo, prima
finiamo.’’
Quindi indietreggia e gli permette di entrare.
La prima sensazione è quella di immergersi in un banco di
nebbia. Una nebbia scura e densa, come fanghiglia. Claustrofobica.
Tutto è appassito, lì dentro: il divano, il
televisore, le mensole sulla parete. Alcune tavole del parquet sono
sollevate, gonfie di umidità. Ci sono delle perdite di acqua
che gocciolano dal soffitto, Osamu ha tentato di rimediare con delle
bacinelle di alluminio. Il freddo è lancinante, brividi
serpeggiano lungo la sua schiena: non è solo a causa del
gelo, ma tutto di quel luogo è straziante e avvilente, lo
spinge a fuggire, a inspirare profonde boccate d'aria osservando il
mare. È entrato dentro quello che rimane di
un’anima dilaniata dal dolore più feroce,
sanguinante e tumefatta. Shouyou irrigidisce la mente, innalza le
barriere per controllare l’agitazione.
‘’Non so se si possa effettivamente fare
qualcosa,’’ dice allora Osamu porgendogli il modulo
compilato. Poi si osserva intorno un po’ imbarazzato,
lasciando trapelare per la prima un’emozione diversa
dall’astio. ‘’È
così da un bel po’.’’
‘’Si può sempre fare
qualcosa,’’ replica Shouyou con convinzione,
infilandosi il foglio in tasca. Al suono della sua voce la casa
reagisce: trema, sussulta, si piega su se stessa, si irrigidisce
infastidita. Ti odio, sembra
volergli dire. Vattene
via. Ti odio, ti odio, ti odio.
Non è più abituata al rumore. Non è
più abituata ad accogliere persone. Quel silenzio
totalizzante che ha pervaso le mura è diventato
l’unico suono che la casa è disposta ad accettare.
Un silenzio che schiaccia, che annichilisce, che flagella, che ricorda
ciò che non c'è più. Coltellate
perenni, infinite. Shouyou si domanda come diamine faccia Osamu a
vivere lì dentro. Poi pensa che dev’essersi
abituato. E non va bene, non va bene affatto. Accettare passivamente il
dolore, soccombere a esso e lasciarsi trascinare, è il primo
passo verso il gorgo. E più vai giù,
più la speranza sfuma, si sfoca, annega. Non è
l’ossigeno che inizia a mancare, ma la voglia di respirare.
‘’Ci vorrà un po’ di
lavoro,’’ si limita a dire.
‘’Però la casa è piccola. Un
paio di settimane al massimo. Forse anche una, facendo mattina e
pomeriggio. Di solito si inizia dalle camere da letto. Quante
sono?’’
‘’Una,’’ risponde Osamu.
‘’Una camera da letto. Poi c’è
la cucina che è di là. E poi un bagno. Devi
vedere tutto ora?’’
Shouyou scuote la testa. ‘’No, non serve. Era
giusto per farmi un’idea.’’
Osamu annuisce. Ha lo sguardo puntato sul pavimento. Non c'è niente di cui
vergognarsi, vorrebbe dirgli Shouyou. E anche, mi dispiace, qualunque cosa sia
accaduta.
‘’Da quanto tempo la casa è
così?’’
L’altro non risponde. Shouyou detesta insistere, ma deve.
È lì per fare il suo lavoro.
‘’Non sei obbligato a dirmi
nulla,’’ gli dice.
‘’Però mi
aiuterebbe.’’
‘’Dieci anni,’’ risponde
Osamu.
Shouyou lo ringrazia impassibile, teme che lasciando trapelare
compassione Osamu possa sentirsi umiliato, quindi si avvicina alla
parete. La scruta con attenzione, lascia scorrere le dita lungo qualche
centimetro come se la stesse accarezzando, percependo, e nel frattempo
valuta, pensa, studia.
Il problema è che le case non guariscono, se prima non
guarisce il proprietario. E Shouyou è abbastanza sicuro che
Osamu non sia affatto guarito e che non riesca a liberarsi del peso che
lo schiaccia, come se non volesse lasciarlo andare. Ma deve, devono, tentare, le
persone tirano fuori il coraggio nei momenti più
inaspettati. Perciò sorride.
‘’D'accordo, facciamo così. Provo a
imbiancare una piccola parte di parete. È inutile iniziare
con i lavori grossi se la casa non è ancora disposta a farsi
aggiustare.’’
‘’E se non funzionasse?’’
Shouyou scrolla le spalle. ‘’Qualcosa ci
inventeremo. Qualcosa che funziona c’è sempre. E
io sono il migliore a fare questo lavoro.’’
Osamu sbuffa scettico, ma poi annuisce. Shouyou, che ha gli attrezzi
per verniciare in macchina, inizia a trattare qualche centimetro di
parete vicino allo stipite della porta di ingresso. Raschia lo strato
rovinato, ci passa sopra una mano di antimuffa e poi una di vernice
fresca. Sotto le setole morbide del pennello, la parete emana
disperazione, diffidenza e odio, perciò Shouyou è
quasi certo che il suo sarà un tentativo vano. Ma curare le
case significa anche questo, imboccare le vie bendato e ritrovarsi in
vicoli ciechi, finché non trovi quella giusta che ti conduce
al centro, al cuore.
‘’Okay,’’ dice, dopo un decina
di minuti. ‘’Se la vernice non viene assorbita e
non si ingrigisce, allora significa che possiamo iniziare con i lavori
grossi. Puoi farmelo sapere? Ti do il mio numero.’’
Osamu annuisce. Tira fuori il cellulare dalla tasca e si segna il
numero che Shouyou gli detta. Poi gli fa uno squillo, e Shouyou
memorizza quello di Osamu nella rubrica.
‘’Grazie. Tieni la finestra aperta per qualche ora
e cerca di non stare in salone, per non respirare l’aria. A
domani, Osamu-san.’’
‘’A domani,’’ risponde Osamu.
Poi gli apre la porta. Shouyou afferra il pennello e il secchio di
vernice, e finalmente sbuca all'aperto con più sollievo di
quanto ci tenga ad ammettere. Respira profondamente, l’aria
profumata di salsedine è dolce, zucchero a velo sulla punta
della lingua. Quella casa è claustrofobica, un groviglio di
spine nel petto che brulica come un ammasso di piccoli insetti.
Ripone gli attrezzi nel cofano dell’auto, senza staccare gli
occhi dal mare. Il mare senza una fine e senza un inizio, il mare che
c’è e basta, che riesce a eludere persino lo
scorrere del tempo. Fa paura, il mare, ed è bellissimo.
La farò
tornare come prima, si dice Shouyou, pensando alla casa. Sicuramente.
Gli pare di scorgere un ombra sulla spiaggia. Un luccichio lattiginoso
che ricorda una sagoma umana. Shouyou strizza gli occhi, ma non vede
nulla.
Scrolla le spalle, sale in macchina, parte.
*
- Sono Osamu. La parete è di nuovo grigia. -
Shouyou è a lavoro. Si sfila un guanto imbrattato di vernice
e apre il messaggio. Non è un buon segno, non sono trascorse
neanche due ore da quando è andato via da casa sua. Se la
vernice speciale che utilizza si è sbiadita tanto in fretta,
allora non può sperare di risolvere la situazione
semplicemente raschiando via l’umidità.
- Ciao, Osamu-san. Non preoccuparti, proveremo con qualcos'altro. A che
ora posso passare da te domani? -
- Quando ti pare. -
- Allora vengo in mattinata. Otto e mezza? :) -
- Okay -
*
Shouyou questa volta decide di andare a piedi. Indossa una camicia
bianca che sfarfalla sotto la brezza. Non porta con sé
nessun tipo di attrezzo per verniciare.
Inspira profondamente la salsedine, lascia che dondolio delle onde gli
entri nel cuore, uno scroscio salato che ritma i suoi passi. Si placa,
si concentra: quello è il momento della verità.
Il momento in cui deve parlare con Osamu di Osamu, e non della casa.
È abituato a farlo, solitamente accade con buona parte delle
persone con cui lavora, tuttavia sono pochi coloro disposti ad
accettare con mitezza che, prima di aggiustare la propria casa, bisogna
aggiustare la propria anima.
I gabbiani smettono di gridare quando Shouyou solleva la mano per
bussare alla porta grigia, esausta, arrabbiata, inviperita. Osamu gli
apre dopo qualche istante. È attento, nota subito che non ha
attrezzi con sé, e probabilmente immagina anche cosa stia
per accadere.
‘’Ciao,’’ gli dice Shouyou, un
sorriso un po' impacciato ma sincero.
‘’Ciao,’’ risponde l'altro.
Suona restio, pungente, come se avesse innalzato una barriera di
acciaio per rendersi inaccessibile.
‘’Ti va di fare un giro in
spiaggia?’’
‘’Ho scelta?’’ Risponde Osamu,
inarcando le sopracciglia.
‘’Certo che hai scelta. Non sei mica obbligato,
Osamu-san.’’
Osamu lo guarda, diffidente. Poi sbuffa e scrolla le spalle, seguendolo
all'aperto.
Nonostante sia più alto, Osamu fa meno rumore di Shouyou
quando cammina, come se i suoi passi sussurrassero. Dalla scogliera
scendono sulla spiaggia, Shouyou si sfila le scarpe e le porta a mano,
preferendo camminare scalzo sulla riva. Osamu invece lascia che le sue
si sporchino di sabbia umida. Shouyou nota che non guarda mai il mare
ma dritto davanti a sé.
Alla fine del lungomare, c’è una piccola salita
scoscesa che conduce sulla cima di un’altura rocciosa.
‘’Soffri di vertigini?’’ gli
domanda Shouyou, voltandosi a guardarlo.
‘’No,’’ risponde Osamu.
‘’Mi piacciono i posti alti.’’
Anche a me,
pensa. Quindi percorrono la salita, la sabbia si trasforma prima in
terra rossastra e poi in brecciolina. Shouyou, scalzo, scivola. Osamu
lo afferra circondandogli la schiena con il braccio.
‘’Grazie,’’ dice Shouyou.
‘’Di niente,’’ risponde
l'altro, riprendendo a camminare.
Shouyou si sente le orecchie rosse. Giunti in cima, si siedono sul
ciglio che si affaccia a strapiombo sulla riva. La pietra è
calda sotto le cosce, imbevuta dei raggi del sole che ci ha battuto
sopra tutto il giorno. È piacevole, e la brezza fa fremere i
vestiti.
Il mare si mischia al cielo, pennellate celesti e azzurre che sfumano
in un verde acquatico, poi in un blu profondo, indaco, più i
ghirigori bianchi delle nuvole, le striature arancioni del cielo. Il
mare riflette, ingloba, nasconde, mostra. Il mare è senza
colori, pensa Shouyou.
Il che significa che ce li ha tutti.
Ma se il cielo è color pastello e il mare è
placido e piatto, gli occhi di Osamu riflettono una tempesta torbida,
tonante di fulmini, e un mare bucherellato da vortici che risucchiano
persino gli scogli. Osamu lo osserva in silenzio come se ci volesse
annegare dentro. Poi scuote la testa e gli scocca un'occhiata torva.
‘’Porti qui tutte le persone a cui devi dire cose
che non vogliono sentirsi dire?’’
‘’Solo quelle carine,’’ replica
Shouyou con un occhiolino. Osamu sbuffa, all'apparenza poco
impressionato, tuttavia Shouyou percepisce l’ombra di un
sorriso.
‘’Senti,’’ comincia. La
tempesta nello sguardo di Osamu trabocca, un rigurgito che vuole
mangiargli le orbite. Shouyou però continua, deve andare
avanti senza lasciarsi intimorire. ‘’Io sono bravo
in quello che faccio. Molto bravo. Però ci sono certe case,
certe anime, che non possono essere rimesse a nuovo semplicemente
pitturando le pareti. Non basta riparare le finestre, o le porte, o le
tubature. Se una casa ha deciso di morire, lo farà a
prescindere dal mio impegno. Quello che voglio dire è che,
se tu prima non aggiusti te stesso, non potrai mai aggiustare la
casa.’’
Osamu non risponde. Shouyou in quel mutismo scorge testardaggine, ira,
protesta. È appuntito come migliaia di spilli, un porcospino
ispido che ferisce la pelle e buca l'aria salmastra che li circonda.
Shouyou però rimane immobile, quieto, affabile. Non si
impone, si lascia pungere.
Osamu si è trasformato in una statua di marmo. Assomiglia
alla polena di una barca. Shouyou indisturbato continua a fissarlo,
ricalca con gli occhi il profilo del naso, delle labbra, del mento.
S'immagina di prendere una forbice e di ritagliare nel cielo la sua
sagoma.
La schiuma delle onde s'infrange e dopo sfrigola sui fianchi della
scogliera, il crepitio di un caminetto. Quando il sole è
nascosto per metà oltre l’orizzonte, Osamu
sospira, smette di essere polena e torna a essere persona.
‘’Grazie per essere stato
onesto,’’ gli dice. ‘’Ma non
sono capace di sistemare… beh, tutto
questo.’’
Disegna un cerchietto con la mano. Come se tutto il dolore che lo
annichilisce si trovasse lì dentro, in quel cerchietto
invisibile sospeso nel vuoto. Il cuore di Shouyou si stringe, si
rannicchia su se stesso, poi si dilata e si allunga verso quello
dell'altro, un filo di gomma morbida. Gli tende la mano, prova a
percepire il suo battito, a entrarci in sintonia come fa con le case,
ma Osamu è troppo distante e gli impedisce di avvicinarsi.
Tornano indietro. Scorgono la scia di orme che hanno lasciato
all'andata sulla sabbia asciutta, linee tratteggiate, passi che toccano
terra alternati a piccoli balzi di vuoto. Presto il mare le
cancellerà via. Shouyou ha le labbra cucite, bruciano
insieme alla gola, la bocca piena di salsedine.
Davanti alla porta scolorita della sua casa, Osamu gli rivolge
un’occhiata gelida.
‘’Beh, ci vediamo,’’ gli dice
Osamu. Shouyou sa che lo dice tanto per dire. C’è
una consapevolezza macabra, nel suo tono di voce. Il riconoscimento di
una disfatta. Osamu ha perso, e crede di aver perso per sempre. Shouyou
scuote la testa.
‘’Possiamo vederci domani.’’
‘’Perché dovremmo? Te l’ho
detto, non credo di-’’
‘’Non è per la
casa,’’ lo interrompe Shouyou, sentendo le guance
avvampare. ‘’Solo che mi piacerebbe uscire. Andiamo
a prendere un caffè, o quello che ti pare. Se ti
va.’’
Osamu serra le labbra, ancora rabbia che zampilla, il furore e la
vergogna per la sua sofferenza visibile agli occhi degli altri.
‘’Mi stai invitando a uscire perché ti
faccio pena? Perché davvero, non ho bisogno
di-’’
Shouyou scuote di nuovo la testa, con più foga.
‘’Non invito a uscire tutte le persone a cui
aggiusto le case, sai? E sono tante.’’
‘’E allora perché stai invitando
me?’’
Shouyou scrolla le spalle. ‘’Sei carino.
Perché no?’’
Osamu rimane spiazzato.
‘’E poi sei interessante.’’
‘’Sono stato praticamente sempre
zitto.’’
‘’A me il silenzio piace,’’
ribatte. ‘’E in fondo ci siamo visti due volte,
solo per parlare di lavoro. Possiamo parlare di
altro.’’
‘’Io non ho altro.’’
‘’Beh, io sì. E chiacchiero un sacco.
Perciò… Insomma, solo se ti
va.’’
Osamu non risponde, lo fissa come se non credesse a una sola parola.
Infine scuote la testa, a metà fra l’allibito e
l’infastidito. Quindi sbuffa.
‘’Sei proprio strano,
Shouyou-kun.’’
Shouyou sorride. È la prima volta che lo chiama per nome. Lo
interpreta come un segnale positivo.
‘’Va bene,’’ dice infine.
‘’A che ora?’’
‘’Dopo le quattro? Appena stacco da
lavoro.’’
Osamu annuisce. Shouyou lo saluta entusiasta. Poi volta le spalle e si
avvia verso casa, un tepore speranzoso che si diffonde sotto la pelle
misto a paura. Shouyou aggiusta le case, ma non è uno
psicologo. Ha invitato Osamu perché voleva davvero
invitarlo, spera solo che non abbia fatto nulla di sbagliato.
*
Si incontrano alle quattro e qualcosa davanti a un qualche tipo di bar
poco lontano da casa sua. Osamu non sente nulla. Non vede nulla. Il
dolore stronca sul nascere qualunque sensazione, emozione, impulso
visivo uditivo fisico. Solo cose e cose e cose e cose che si susseguono
in una fila interminabile e continua, cose e cose e cose e cose e cose
che non lo toccano, non lo sfiorano, proseguono lontane e ordinate come
formichine (tantissime, lontane, lontane, lontanissime). Osamu cammina
senza sentirsi davvero Osamu, il suo è un corpo che prima
aveva un nome e che adesso manovra come un burattino sotto anestesia,
disconosciuto, ripudiato, disincarnato dal tempo e dalla vita, fra la
fila di cose e la nebbia che invece non è in fila ma che
semplicemente copre uniforme, soffoca, strangola. Shouyou - Shouyou,
Shouyou che ha un nome, Shouyou che non è una cosa - lo
attende vicino a (l’ingresso), mentre (parla al telefono).
Non appena lo vede, gli rivolge (un sorriso) che Osamu non ricambia. O
perché non ci riesce, o perché non ha voglia.
Osamu non lo sa, non sa nulla. Le labbra non si muovono come
dovrebbero, il cervello non si muove come dovrebbe, non reagisce agli
stimoli reali, appesantito da quella tristezza d’amianto che
oramai s’è sedimentata ovunque, dentro e fuori dal
corpo. Rigido, intorpidito, anchilosato. Osamu si trascina in mezzo
alla cenere che non è cenere bensì mare - si
trascina o si lascia trascinare?
Mentre Shouyou continua (a parlare al telefono) Osamu si concede di
(guardarlo). Prova a stare attento, prova a ricordarsi cosa farebbe se
tutto fosse normale, se fosse ancora una persona. Penserebbe che
è carino, lo inviterebbe a cena. O forse quelle sono cose
che avrebbe fatto Atsumu. Osamu si è dimenticato, non
ricorda se stesso, non ricorda cos’era prima del giorno in
cui tutto è finito. Non ricorda cosa significhi desiderare,
non ricorda quel bagliore tiepido che ti avvolge il cuore quando trovi
una cosa bella, quel nodo doloroso che te lo stringe quando succede una
cosa brutta. Non ricorda cosa significhi essere in vita.
Osamu vuole andare a casa. Vuole tornare nel silenzio assordante della
sua stanza. Perché quando è solo, in quella casa
che, fedele, muore con lui - è morta quel giorno, tutti loro
sono morti quel giorno - può permettersi di serrare ogni
spiraglio che si affaccia all’esterno, può
sbattere ogni finestra della sua anima e chiudersi completamente - non
in se stesso, non c’è più un se stesso.
Quando è con Shouyou, per quanto gli sembri sempre di
fluttuare nel vuoto, c’è una parte della propria
coscienza che deve restare vigile, deve mantenersi attenta e
concentrata sugli impulsi generati da una conversazione, altrimenti
Osamu sarebbe incapace di ascoltare le sue parole e di rispondere. E
quella finestra che deve rimanere aperta per permettere
un’interazione, è dolorosa. Immensamente dolorosa,
come se entrasse una bufera di ghiaccio e i cristalli di neve si
conficcassero nella carne dall’interno, porcospini nella
gola.
Osamu lo sapeva. E allora, allora, perché diamine ha
accettato l’invito? È stata quella
passività in cui si rifugia, a spingerlo a dire di
sì? Perché un rifiuto sarebbe stato
più difficile da pronunciare? Forse, ma si sarebbe trattato
di un attimo, poi Osamu sarebbe tornato dentro la sua casa e
chiudendosi la porta alle spalle avrebbe lasciato fuori Shouyou insieme
a tutto il resto del mondo. E poi avrebbe aspettato che la casa gli
crollasse addosso. L’avrebbe lasciata crollare sulla sua
testa. Quindi no, sotto ogni punto di vista la sua era stata una scelta
illogica, controproducente, sfiancante.
Shouyou chiude (la chiamata). Gli occhi di Osamu registrano
l’immagine, e non appena la processano, a malincuore, Osamu
si costringe a schiudere quella fessura che gli permette di collegarsi
con quello che c’è fuori. Niente più
parentesi buie, adesso deve trovare la concentrazione.
L’espressione di Shouyou si rabbuia. No, non si rabbuia, si
intristisce. Lui capisce, è sveglio, è
normale che sia portato a comprendere lo stato d’animo altrui
considerando la sua professione.
‘’Se vuoi facciamo un altro
giorno,’’ gli dice. ‘’Davvero,
non voglio obbligarti a uscire con me.’’
Obbligato. Obbligato, è quello il termine giusto?
È così che si è sentito? Obbligato a
manifestare gentilezza nei confronti di una persona che per prima
l’ha manifestata nei suoi confronti?
Sì,
pensa. È
così che mi sono sentito. Obbligato. Incatenato.
Perché io qui non ci voglio stare. Io devo andare a casa.
Perciò è facile. Basta annuire. Compiere
l’ultimo, estenuante sforzo per biascicare una frase di senso
compiuto, dire ‘oggi non me la sento, facciamo un altro
giorno’.
Osamu apre la bocca. Riordina quelle parole che gli svolazzano nella
testa, costringe la laringe a schiudersi, le corde vocali a risuonare.
Muovere la lingua fa male. Pensare fa male. Parlare fa male. Fa tutto
male, eppure Osamu non sente niente.
‘’Non mi hai obbligato,’’
risponde. ‘’Se sono qui è
perché mi andava.’’
Shouyou sorride. La luce torna a brillargli negli occhi. Quelle non
sono le sue parole, quelle parole lui non le ha neanche pensate. Eppure
sta entrando in un bar, e adesso la sua voce - voce comandata da
qualcun altro, perché Osamu è altrove nel
silenzio, non nel suo corpo - ordina un caffè a un tizio con
un tablet in mano. Intorno a lui, un brusio di sottofondo che gli fa
pensare alle cicale. Si domanda quando esattamente abbia sentito le
cicale cantare, l’ultima volta.
Osamu è esterrefatto. È troppo abituato a (non)
vivere in un silenzio impenetrabile. Shouyou parla, lui fa del suo
meglio per ascoltarlo. No, non è vero, bugiardo, Osamu non
fa del suo meglio, ascoltarlo è facile, naturale, come se
qualcosa dentro di lui si protendesse verso le sue parole concitate e
acute. Shouyou gesticola e sgrana gli occhi grandi come se fossero nati
per inglobare la luce, due lampadine scintillanti nella notte, e Osamu
pensa che quella sia la cosa più vicina alla gioia, al
tepore, che abbia provato in dieci anni.
Le persone per lui sono tutte uguali. Formiche, macchie indefinite che
scivolano insieme alle cose (cose, cose, cose), prive di nome e di
espressione. Shouyou invece un nome ce l’ha. Osamu sta
iniziando a disegnare i suoi contorni, a renderli netti, sta iniziando
a ritagliare la sua sagoma dentro la testa, ad attribuirgli
un’ombra e di conseguenza una dimensione, esistenza. Accade,
quando ripudi il contatto umano per un decennio e poi ti ritrovi al bar
con qualcuno. Il problema è che definire i contorni di
Shouyou lo sta costringendo a ridefinire anche i propri. Osamu sta
tornando a percepirsi, quella parte di lui, l’interezza di
ciò che era - e la metà che è adesso -
sta pulsando come se volesse tornare a respirare aria pulita. No, non
respirare, semplicemente esistere. Riprendere l’insulso
spazio che occupa nel mondo, perchè si tratta pur sempre di
uno spazio suo, per quanto insulso.
‘’Qual è il tuo animale
preferito?’’ gli domanda Shouyou, con la schiuma
del cappuccino sulle labbra.
Ma che domanda di merda
è? si domanda Osamu, poi lo copia. Sorseggia
il suo caffè dalla tazzina. È alienante, la
sensazione della ceramica sotto le labbra, l’espressione
incuriosita di Shouyou che lo fissa di fronte, il tavolino in legno
scuro su cui poggiano i loro gomiti, le grandi finestre dalle tende
arancioni. È terrificante. Da quanto tempo non usciva, da
quanto tempo non entrava dentro un bar? Quand’è
stata l’ultima volta che ha permesso a qualcuno di sedersi di
fronte a lui?
‘’La volpe,’’ risponde Osamu,
pensando ad Atsumu. Il problema è quello, è
sempre quello, vivere nella realtà significa pensare ad
Atsumu e pensare ad Atsumu significa ricordarsi che non
c’è più - Osamu invece sì. E
quindi il dolore scaturisce a fiotti, il dolore che lo brucia da
dentro, quel fiume in piena che trabocca d’ira e disperazione
e Osamu che è troppo piccolo per contenerlo, troppo debole
per ricacciarlo indietro, per domarlo, per sopprimerlo. E allora
arrivano le parentesi, le parentesi di buio che gli permettono di non
vedere, di non sentire, (la parentesi di mutismo e sedativo in cui
galleggia da dieci anni). Eppure nonostante il mare di dolore eccolo
lì con un caffè in mano a parlare di animali.
‘’A me piacciono i corvi,’’
risponde Shouyou. ‘’Hanno un bel colore. E poi
sanno volare. Che è tipo la cosa più vicina che
ci sia alla libertà.’’
Libertà. Qualcosa scocca, qualcosa risuona come un
pianoforte in una stanza vuota. La libertà è la
chiave, la soluzione.
Osamu si sigilla dentro casa sua, dentro la forma di se stesso,
sottovuoto, perché è schiavo della paura e non
vuole lasciare neanche uno spiraglio che le permetterebbe di entrare.
Il problema è che senza paura non si vive.
*
Seconda
lezione:
il mare - il mare -
è ingordo e onnisciente. Ti vede, e prima o poi, ti
avrà.
*
È lunedì. Shouyou non lavora di
lunedì. Il lunedì è il giorno delle
focaccine alla marmellata.
Le compra al forno vicino casa, poi si incammina verso la spiaggia
pregustando di mangiarle mentre guarda il mare. Il sole freme nel cielo
terso, gli intiepidisce le guance e la fronte.
Si sfila le scarpe prima che i piedi tocchino la sabbia, insegue il
garrito dei gabbiani sino alla riva e poi siede su un pedalò
abbandonato, la vernice rossa sbiadita da un velo di sabbia portato dal
vento. Quando addenta la prima focaccina, leccando la marmellata alla
fragola, un fremito di piacere gli solletica la nuca. Ne mangia una
seconda, una terza, e nel frattempo osserva due barche a vela in
lontananza, triangoli di tela biancastri che sfumano con l'azzurro, che
diventano azzurro, che diventano mare, oceano, oceano mare.
Un conato di vomito improvviso lo travolge. Shouyou piega il collo in
avanti, tossisce saliva con le viscere che si arrotolano. Fitte
brucianti si irradiano nelle ossa, Shouyou è zuppo di sudore
e non riesce a muovere la lingua, a emettere un suono.
‘’Ciaaaao,’’ gli dice una voce.
Dopo qualche istante, la sofferenza atroce si quieta e infine svanisce
senza lasciare traccia, come se non fosse mai esistita. Shouyou si
domanda se sia stato male per davvero o se non si sia appisolato sul
pedalò per qualche minuto, sognandosi tutto.
Quando raddrizza il busto, nota un ragazzo seduto vicino a lui. Shouyou
sobbalza per la paura, e l’altro esala via una risata
sguaiata. Per un attimo, lo scambia per Osamu. I lineamenti del viso
sono identici, solo il colore dei capelli è differente. Magari si è tinto,
pensa Shouyou.
‘’Osamu-san?’’ lo chiama,
titubante. L'altro schiocca la lingua infastidito, rivolgendogli
un'occhiata colma di sdegno.
‘’Ti sembro ‘Samu?’’
Shouyou lo guarda attentamente, frastornato. Sì, sembra
decisamente Osamu. Però il viso è più
infantile, immaturo. No, non si tratta del viso, è
l’espressione che stride, che non combacia con quella che
ricorda.
‘’Sono suo fratello,’’ spiega
l'altro, interrompendo i suoi pensieri.
‘’Gemello,’’ aggiunge.
‘’Mi chiamo Atsumu.’’
Shouyou annuisce d’istinto. Non presta attenzione a quella
notizia, è troppo preso dal suo volto. È
perfetto. Troppo perfetto, come se avessero sostituito la pelle con un
velo di marmo. C'è qualcosa di etereo, di inafferrabile,
nella sua figura, qualcosa che non combacia con il resto del paesaggio
e della realtà. Gli occhi di Shouyou non riescono a
processare quello che vedono, a mettere a fuoco, come se avesse la
testa sott’acqua. Atsumu è semi trasparente,
sottile come carta crespa, privo di ombra.
‘’Shouyou?’’
Shouyou si accorge di avere la pelle d'oca, i capelli rizzati. Che cos'è quello che
ha davanti?
Si sforza di riflettere mentre Atsumu lo osserva enigmatico. Insomma,
lui è bravo a capire ciò che lo circonda, lo fa
per mestiere. Perciò si addentra dentro quel garbuglio
irrisolto che percepisce attraverso i sensi. Si sforza di disfarlo, di
sentirlo dentro come fa con le case. Segue il filo come Teseo nel
labirinto, scioglie i nodi, e finalmente scova la soluzione.
‘’Tu sei morto,’’ dice.
‘’E tu sei molto carino,’’
risponde Atsumu, gli occhi irrequieti che sfavillano.
Shouyou neanche lo sente. È per questo che Osamu-san sta
così male. È per questo che la sua casa sta
morendo. Gli manca suo fratello.
‘’Perché sei qui?’’
Atsumu scopre i denti, predatorio. ‘’Le conosci,
no? Tutte le storie sui morti che non riescono a staccarsi dalla vita
perché hanno lasciato delle cose in
sospeso.’’
Shouyou annuisce piano.
‘’Beh,’’ prosegue Atsumu,
‘’non dirlo a ‘Samu, ma non credo di
poter andare dove devo andare finché lui non
starà meglio.’’
‘’Capisco,’’ risponde Shouyou.
Quindi apre la bocca, poi la richiude perché non vuole
sembrare scortese - insomma, ha pur sempre un morto davanti - ma poi la
riapre perché deve
sapere. ‘’E cosa vorresti da
me?’’
‘’Tu aggiusti le case, Shouyou. Magari puoi
riuscire ad aggiustare pure lui.’’
*
Il mare è gonfio quando Shouyou giunge davanti casa di
Osamu. Sembra un gatto dal pelo rizzato, con l'alta marea che lo scuote
da dentro. Bussa, e mentre aspetta nota che il legno della porta sembra
più consunto rispetto all'ultima volta. Shouyou lo sfiora
con le dita, percepisce il battito della casa - il battito di Osamu -
pulsare flebile sotto la pelle, come un passerotto appena nato che
muore di fame. Si domanda se non abbia sbagliato qualcosa. Se non stia
sbagliando qualcosa.
‘’Shouyou-kun.’’
La porta si apre. Osamu è sorpreso, forse infastidito, la
voce però è monotona, non lascia trasparire
nulla. ‘’Che ci fai qui?’’
Shouyou allunga una mano e gli porge la confezione di focaccine con la
marmellata. ‘’Passavo per
caso,’’ mente. Osamu inarca le sopracciglia
scettico, non gli crede. ‘’Ti va di venire con
me?’’
Osamu esita, poi annuisce e lo segue sulla spiaggia senza neanche
chiudere a chiave. E a che servirebbe? Nessuno entra in una casa
fantasma, non c’è niente che valga la pena rubare.
Shouyou si incammina verso la stessa scogliera dell'ultima volta. Osamu
lo precede di qualche passo, come se avesse già capito la
destinazione, e Shouyou ne approfitta per osservargli la schiena, il
collo, l’andatura. L'atmosfera, almeno per lui, è
più rilassata. C'è quella punta di
intimità che mancava l’ultima volta. Shouyou sta
cominciando ad abituarsi, il suo spazio nel mondo che si conforma, si
adegua, a quello occupato da Osamu. Perché Osamu occupa
spazio, esiste, è presente e vero tanto quanto il mare.
Quando iniziano la ripida salita, al termine del lungomare, Osamu
rallenta e lo affianca.
‘’Che c'è?’’ Domanda
Shouyou, incuriosito.
‘’Nulla,’’ risponde l'altro.
‘’È solo che l'ultima volta sei
scivolato.’’
Shouyou, preso in contropiede, non sa come ribattere. Le orecchie
scottano, e Osamu distoglie lo sguardo.
‘’Grazie,’’ risponde dopo
qualche istante, sentendosi un po’ scemo. Valuta l'opzione di
cadere per finta e farsi prendere al volo, ma la salita è
quasi finita. Magari al ritorno può scivolargli direttamente
addosso.
Si siedono sul bordo della scogliera e Shouyou gli porge una focaccina.
‘’Ti piacciono?’’
Osamu annuisce. ‘’Sono buone. Le hai fatte
tu?’’
‘’Ma scherzi? Aggiusto le case, mica sono un
cuoco.’’
‘’Guarda che non è una ricetta
difficile. Potresti farcela da solo.’’
Shouyou solleva un sopracciglio.
‘’Ti intendi di cucina?’’
‘’Mi piace, sì,’’
ribatte Osamu. ‘’Sono bravo,’’
aggiunge infine.
Shouyou si sorprende. È la prima volta che Osamu parla di se
stesso. È la prima volta che si fa un complimento.
‘’Io sono un disastro,’’ dice
Shouyou, che vuole approfondire l’argomento.
‘’Brucio praticamente tutto, e la roba che non
brucio è immangiabile comunque. Come hai
imparato?’’
‘’Mi ha insegnato mia nonna quando ero piccolo. Poi
alle superiori ho seguito dei corsi specifici,
perché… perché beh, volevo aprirmi un
ristorante.’’
Shouyou fischia ammirato. Non gli chiede perché poi non
l'abbia più fatto, dopotutto lo sa già.
‘’Dovresti insegnarmi a preparare
qualcosa.’’
Osamu rimane in silenzio. Shouyou disegna con gli occhi il contorno del
suo profilo.
‘’Mi piacerebbe,’’ dice infine.
‘’Solo che hai visto com'è ridotta la
mia cucina.’’
‘’Giusto,’’ risponde Shouyou.
‘’Ma non rimarrà così per
sempre. E nel frattempo, anche a casa mia c’è una
cucina. Potresti usare quella, qualche volta.’’
Osamu sgrana gli occhi e si volta a guardarlo sorpreso.
‘’Mi stai invitando da te?’’
Shouyou scrolla le spalle. ‘’Immagino di
sì, dice. È un problema?’’
Osamu volta nuovamente la testa. A Shouyou i suoi silenzi non danno
fastidio. È come se in quei momenti Osamu sprofondasse sotto
l'acqua. Una campana di vetro piomba su di lui e lo esclude da
ciò che lo circonda. Shouyou chiude gli occhi e respira il
profumo di salsedine.
‘’Immagino vada bene,’’ dice
infine Osamu. ‘’Ti insegnerò a cucinare
qualcosa.’’
Shouyou scopre i denti in un sorriso grato e Osamu gli sorride di
rimando per la prima volta.
*
‘’Shouyou.’’
Shouyou mugola, rigira le caviglie fra le lenzuola, tentando di
sprofondare nuovamente nell'oblio del sonno, fuggendo da quel
fastidioso bisbiglio.
‘’Shooouyou.’’
È troppo presto. Il corpo lo percepisce, la mente
è intorpidita, le palpebre non si sollevano. Può
ancora dormire qualche ora. Deve dormire ancora qualche ora.
‘’Shouyou!’’
Il cambiamento di tono spazza via la confusione. Shouyou sobbalza e
grida, tirandosi a sedere di scatto. A tentoni, con il cuore che
palpita, trova l’interruttore vicino al comodino e accende la
luce.
‘’Stai tranquillo,’’ gli dice
Atsumu. ‘’Sono solo io.’’
Shouyou rimane impietrito. Fissa il fantasma seduto sul suo letto
vicino alle sue gambe, con gli occhi strabuzzati e la bocca socchiusa.
Atsumu sembra particolarmente divertito, e gli rivolge un sorrisetto
che gli fa venire voglia di strozzarlo.
‘’Non farlo mai
più!’’ Biascica Shouyou, la lingua
impastata dal sonno e dalla paura. ‘’Come sei
entrato?’’
Atsumu inarca le sopracciglia. Shouyou si colpisce la fronte per
l’idiozia della propria domanda. Certo, è un
fantasma. Può fare quello che vuole, praticamente. Tranne
tornare in vita.
‘’Perché sei qui? Vuoi qualcosa da
me?’’ Shouyou cambia domanda, Atsumu scoppia a
ridere e si avvicina. Si sdraia sopra di lui come fanno i gatti quando
si acciambellano sulle gambe, incrocia le braccia sul suo petto e ci
poggia sopra il mento, l’espressione provocante stampata in
faccia. È
leggero, pensa Shouyou. Sembra aria, però
più densa. E calda.
‘’Tu vuoi che ti faccia
qualcosa?’’ Domanda Atsumu, leccandosi le labbra.
‘’Perché sai, sono piuttosto bravo con
la lingua.’’
Shouyou esita un istante, poi scoppia a ridere.
‘’Pensavo a roba più splatter, in
verità. Tipo mangiarmi, farmi a pezzi,
impossessarmi.’’
‘’Potrei mangiarti,’’ ribatte
Atsumu. ‘’Ma non nel senso che pensi
tu.’’
Ammicca insolente e Shouyou gli sorride tranquillo. Ha il viso vicino.
Lo guarda dritto negli occhi, cercando di capire in cosa siano diversi
da quelli dei vivi. Sono più brillanti, le iridi chiare
screziate di oro lampeggiano come quelle dei felini, sembrano
cerchietti di liquido incandescente che scorre come fuoco e acqua e
aria messi insieme. Come stelle.
‘’Perché sei qui?’’
Gli domanda di nuovo.
Atsumu lo fissa a sua volta in silenzio. Shouyou si domanda se non stia
cercando nei suoi occhi umani, vivi, qualcosa che gli manca. Si domanda
se non voglia strapparglieli via dalla faccia.
‘’Non lo so.’’
È sincero. Un barlume di confusione e smarrimento si stampa
sulla curvatura delle sue labbra. La spavalderia si affievolisce,
spazzata via da una folata di ghiaccio e neve.
È piccolo,
pensa Shouyou. Ha
qualcosa di… infantile, nel viso e nelle guance.
‘’Quanti anni hai?’’
La domanda coglie Atsumu di sorpresa.
‘’Diciassette,’’ risponde.
‘’Perché?’’
Shouyou scuote la testa. Il cuore si attorciglia su se stesso, gonfio e
pesante. È morto a diciassette anni. Shouyou ne ha
ventisette. È troppo giovane. È pieno di gente
che muore prima dei diciassette anni nel mondo, Shouyou lo sa, ma
vederlo da vicino è devastante.
‘’Sei la prima persona che riesce a vedermi dopo
dieci anni’’, continua Atsumu.
‘’È carino parlare con qualcuno.
Cioè, mi fa sentire meno... morto,
ecco.’’
Shouyou annuisce, il cuore sempre più straziato, lacerato.
Prova a immaginare cosa significhi vagare nella più totale
solitudine per dieci anni. Cosa significhi rimanere in silenzio per
tutto quel tempo, essere uno spettro invisibile agli occhi di chiunque.
Essere trapassato dalle voci, dalle pupille, dai corpi delle persone
che proseguono la loro esistenza aggrappandosi all’incertezza
del futuro, che è la cosa che poi ti rende vivo per davvero.
Che significa essere circondato dal battito cardiaco altrui e avere un
silenzio eterno dentro al petto?
Shouyou non può immaginarlo.
‘’Resta pure quanto vuoi,’’ gli
dice, perché non può fare altro, per lui. Atsumu
si sistema meglio sul suo corpo, sempre leggero come una piuma - e di
nuovo, quella strana densità. Atsumu possiede la forma di un
corpo, ma Shouyou non avverte né la forma delle sue gambe
né quella delle sue braccia. Se i raggi di luce avessero una
consistenza, pensa, probabilmente sarebbe quella.
‘’Dimmi solo come posso
aiutarti.’’
‘’Aiuta ‘Samu.’’
‘’Oltre quello?’’
Atsumu ci riflette un po’ su.
‘’Parlami,’’ gli dice poi.
‘’Raccontami qualcosa. Quello che
vuoi.’’
Shouyou lo asseconda. Gli parla della sua vita, della sua famiglia, si
apre più di quanto non abbia mai fatto con nessuno. Ed
è strano, perché Atsumu fondamentalmente
è uno sconosciuto, ma Shouyou davanti ha lo spirito di un
diciassettenne che non riesce a spezzare la catena che lo lega alla
realtà dei vivi, ancora troppo coinvolto.
Gli accarezza la testa. O almeno, quella che visivamente è
la sua testa. Sotto le dita sente un lieve pizzicore, come un mormorio
di elettricità, zampette leggere di ragno. Atsumu chiude gli
occhi.
‘’Neanche tuo fratello riesce a
vederti?’’
Atsumu non risponde. Shouyou non insiste. Ha un'altra domanda che gli
vortica impazzita nella testa. Come
sei morto?
Però ovviamente non la pronuncia. La ricaccia indietro, la
ingoia.
Continua ad accarezzargli la testa, gli sfiora la guancia e la fronte
finché i timidi raggi della prima alba si intrufolano dentro
la casa, attraverso le persiane. Shouyou solleva lo sguardo verso il
muro, su cui la luce disegna ghirigori. Quando abbassa lo sguardo,
Atsumu è svanito.
Fa freddo.
*
‘’BHU!!!’’
Shouyou starnazza e sobbalza. La tazzina del caffè gli
sfugge di mano e s'infrange sul pavimento.
‘’Ma che cazzo!’’ Sbotta
Shouyou, guardando torvo Atsumu che ride sguaiato.
Atsumu continua a ridere e dopo qualche istante Shouyou si scioglie e
inizia a ridere con lui. Poi raccoglie i pezzi di ceramica, e con un
panno asciuga il caffè rovesciato.
‘’Oggi lavori?’’ Domanda
Atsumu.
‘’Oggi no,’’ risponde Shouyou.
‘’Oggi giornata libera.’’
''Figo.'' Atsumu scopre i denti in un ghigno.
‘’Significa che posso darti
fastidio.’’
‘’Tu non mi dai fastidio,
Atsumu,’’ gli dice Shouyou serio.
‘’E puoi venire qui quando vuoi. Possibilmente
passando dalla porta.’’
Atsumu fischia. ‘’Parli come un
vecchio.’’
Shouyou gonfia le guance. ‘’Non sono vecchio. Ma
sono più grande di te.’’
‘’Mi piacciono quelli più grandi di
me.’’
Atsumu scopre i denti, gli occhi brillanti che lo fissano insolenti.
Shouyou scuote la testa e alza gli occhi al cielo. Deve ammettere
però che può permettersi di essere sfacciato:
è davvero bello.
Dopo poco escono e vanno in spiaggia. È ancora presto,
perciò la riva è deserta. Atsumu diventa
silenzioso quando si avvicinano al mare. Shouyou non fa domande, si
limita a riempirsi le tasche di conchiglie iridescenti.
‘’Perché le
raccogli?’’ gli chiede Atsumu dopo un po'.
‘’Mi piacciono,’’ risponde
Shouyou, scrollando le spalle. ‘’Le colleziono.
Sono belle, e poi se te le metti vicino all'orecchio puoi sentire il
rumore del mare. Lo so che non è sul serio il rumore
del mare,’’ si affretta ad aggiungere in seguito
allo sguardo scettico di Atsumu, ‘’però
è un suono che mi piace.’’
‘’Va bene,’’ dice l'altro.
‘’Questa è carina.’’
Col piede ne indica una. È una tellina biancastra. Shouyou
la prende, soffia via il velo di sabbia che la ricopre e se la infila
piano in tasca.
Continuano a passeggiare e ne raccolgono altre. Atsumu pare aver preso
quel passatempo con serietà, perché scruta la
sabbia concentrato senza neanche sbattere le palpebre.
Ora che ci pensa, probabilmente i fantasmi non hanno bisogno di
sbattere le palpebre.
Come sei morto?
No, pensa fermamente. No. Non glielo chiederò mai.
Però…
‘’Atsumu.’’
Atsumu solleva lo sguardo dalla sabbia. ‘’Che
c'è?’’
‘’Perché non ti ho mai visto prima?
Cioè, se tu sei sempre stato qui da
quando…’’
‘’Da quando sono morto,’’
completa Atsumu per lui, e Shouyou annuisce.
‘’Sì. Cioè, se sei sempre
stato qui su questa spiaggia perché non ti ho mai visto
prima?’’
‘’Booooh,’’ risponde l'altro.
‘’Forse perché prima dovevi incontrare
‘Samu. Forse c'è qualche
collegamento.’’
Shouyou annuisce. ‘’Sì, forse. Tu mi
conoscevi?’’
‘’Sì. Cioè, non è
che qui ci siano tante persone. Le facce sono sempre le stesse. Tu sei
famoso, come Curacase. La gente parla di te. E poi sei carino. Un tizio
molto carino che fa cose strane, come raccogliere conchiglie.
È normale conoscerti.’’
Shouyou scoppia a ridere. ‘’Anche tu sei carino,
Atsumu.’’
‘’No, no. Io non sono carino. Io sono proprio
bello. Sono la cosa più meravigliosa che vedrai mai nella
tua vita, perciò vedi di non
dimenticarmi.’’
Shouyou annuisce, il cuore che si stringe. Le conchiglie gli tintinnano
nelle tasche.
*
Terza lezione
il mare - il mare - è pieno di occhi e bocche. Il mare
è il ventre di tutte le cose, non inizia e non finisce. Il
mare è insondabile, incomprensibile, eppure se soltanto
smettessi, per un momento, di parlare, riusciresti a sentire
ciò che ci dice.
*
Dieci anni passano in un battito di ciglia, se sei un fantasma. Oppure
non passano mai. Il tempo adesso funziona in modo diverso: ticchetta,
ma non più per lui. La realtà cambia
incessantemente, un processo lento ma implacabile, e le persone
cambiano con essa. Le persone non sono altro che plastilina duttile in
balia delle lancette, un po’ come lo era il corpo di Atsumu
in balia del mare, quando si lasciava galleggiare dolcemente sospinto
dalla corrente.
Atsumu si è scordato il significato della
felicità. Atsumu si è scordato il significato
della tristezza. Semplicemente è lì, a esistere
senza di fatto esistere davvero, un sassolino invisibile che contempla
uno scenario di cui non fa più parte. .
Ha sempre saputo dove doveva andare. C’era, c’è, un
richiamo che lo scuote da dentro, un nugolo salmastro che lo spinge
dove l’odore del sale si intensifica, sale che sa di lacrime.
Tuttavia Atsumu ha preferito sigillarsi in un luogo dove per lui non
c’è più spazio. O meglio, dove non
esiste più, lo spazio. E se all’inizio credeva che
la sofferenza indicibile scaturisse dall’aver perso la vita,
suo fratello, il futuro, adesso ha capito che la piaga vera
è quella di aver perso lo spazio. A ferirlo nella maniera
più struggente, è la consapevolezza che non
c’è nessuna sagoma stampata
nell’universo con la sua ombra, con i suoi occhi, con la sua
bocca. Quando muori il tempo prosegue imperterrito senza la
benché minima esitazione, e con il petto silenzioso ti
domandi se il tuo cuore abbia mai battuto per davvero.
A Osamu, sebbene sia vivo, è toccata una sorte simile alla
sua. Osamu ha scelto volontariamente di collocarsi in un segmento
isolato che non appartiene al fluire della vita. Osamu è
sfuggito al tempo. O meglio, il tempo ha smesso di influenzarlo. Osamu
si lascia attraversare dai secondi come se fosse inconsistente, nebbia
di dolore. Il problema è che lui vive, checché ne
dicano le sue scelte, e il suo cuore batte, perciò il punto
in cui si trova Osamu nell'esistenza (o non esistenza) non coincide con
quello di Atsumu. La loro situazione è parallela, ma non
uguale. C’è l’oceano, in mezzo a loro.
Un oceano fatto di tutto il tempo che non hanno mai avuto e che non
avranno mai. Entrambi sono infreddoliti, e fluttuano sospesi in un
abisso che si espande eternamente come una macchia di petrolio.
Soprattutto, entrambi si rifiutano di avanzare.
E adesso… beh, non è che adesso Atsumu sia
esattamente il ritratto della felicità, è pur
sempre uno spirito che non riesce (non vuole) trapassare.
Però da quando Shouyou lo vede, una parvenza di gioia ha
ripreso a sfarfallare febbrile dentro di lui. O forse è
tristezza, o più che tristezza forse è rimpianto,
angoscia, ma è comunque qualcosa. Atsumu continua a essere
un sassolino invisibile agli occhi di chiunque, ma non a quelli di
Shouyou. Lui lo sta influenzando. Sta lasciando tracce nella sua vita,
come briciole di pane per poi ritrovare la strada.
Lo accompagna a lavoro ogni giorno. È affascinante
osservarlo mentre cura le case, mentre restituisce luce alle pareti e
soprattutto agli occhi dei proprietari. Ecco, quello che fa Shouyou
è illuminare. Una strada, un angolo della casa, scaccia via
la coltre di tenebre grigie e ti permette di trovare nuovamente
qualcosa per cui valga la pena muovere le gambe, divincolarsi dal
torpore. Shouyou è un bagliore di luce capace di far tremare
la pietra, corrode le incrostazioni di dolore goccia dopo goccia.
È quello che sta accadendo a Osamu. Atsumu l’ha
notato, il sorriso che accenna con quelle stesse labbra che per dieci
anni non si sono mai mosse quando ci esce insieme. Insomma, non
è che Atsumu si diverta a spiarli o cose simili, davvero, ma
Osamu è l’unica persona per cui sarebbe disposta a
morire un’altra volta, ed è bello vederlo
così. È come se Shouyou l’abbia preso
per mano e lo stia spingendo a riappacificarsi con il tempo,
inducendolo a entrare nuovamente nel flusso contorto, frettoloso,
sofferente, gioioso, imprevisto, inaspettato della vita.
Atsumu però è anche geloso. Perché
Shouyou lo sta involontariamente avvicinando a quel flusso. Solo che
Atsumu non può più farne parte, a prescindere da
quanto lo desideri. Però è debole, cede a quello
sprazzo di gioia che scaturisce dalla voce di Shouyou quando lo chiama
per nome, quando lo guarda negli occhi, quando vedono film sul divano,
quando gli fa i grattini sul braccio. È
un’illusione, lo sa, ne è consapevole, ma
è un’illusione troppo dolce e troppo intensa per
riuscire a sfuggirle. Atsumu sente il tepore del suo tocco. Sente il
tepore delle sue dita, il tepore del suo corpo, il tepore della vita. E
dopo quell’infinità di gelo, in
quell’infinità di oceano, Atsumu vorrebbe prendere
Shouyou fra le mani, accartocciarlo come una pallina di carta e
ficcarselo nel petto, per rimpiazzare il vuoto lasciato dal cuore.
Quando Shouyou e Osamu sono insieme, Atsumu è contento, lo
giura. Però c’è sempre una tempesta
amara a flagellarlo, perché non può fare a meno
di immaginarsi con loro, di immaginarsi tangibile, visibile, vero,
vivo. E allora un odio irrefrenabile scoppia violento come un petardo,
contrastando, delle volte soffocando, la parte genuina della sua anima
sinceramente grata.
Dilaniato da sensazioni tanto opposte, Atsumu si domanda quanto
impiegherà prima di squarciarsi dall’interno e poi
scomparire. Ma il problema è proprio questo. Il problema
è che Atsumu non riesce a svanire. Il problema è
che Atsumu non vuole svanire. Non vuole lasciare andare suo fratello, e
adesso non vuole lasciare andare neanche Shouyou. Atsumu sta vivendo
lungo i confini di una fiaba che non gli appartiene, in cui non
può entrare, ma non potrà farlo per sempre.
Atsumu vuole la vita, ma non può averla.
*
I giorni scivolano come foglie. Atsumu ogni tanto lo accompagna a
lavoro, ogni tanto lo accompagna a raccogliere le conchiglie, ogni
tanto svanisce. Riappare nella sua vita spaventandolo alle spalle,
senza un orario preciso. Shouyou è contento di vederlo
perché non sa mai quando sarà l’ultima
volta. Però vederlo lo rende anche triste, perché
significa che non è riuscito a lasciar andare quello che lo
tiene legato alla vita.
Osamu fa lo stesso. Svanisce nei suoi silenzi e riappare
all’improvviso, come il fratello. Shouyou ovviamente gli
dà tutto lo spazio di cui ha bisogno, ma non sa se sia
giusto, o se inavvertitamente non lo stia ferendo.
‘’Credi che abbia fatto qualcosa di
sbagliato?’’ Gli domanda una sera Shouyou, mentre
sbocconcella un pezzo di pane. Atsumu lo osserva mangiare, poi inclina
la testa.
‘’In che senso?’’
‘’Con Osamu,’’ risponde
Shouyou. ‘’Insomma, è scomparso.
Cioè, ha bisogno di spazio, lo so, lo capisco, ma non
so… non so se faccio bene. Se faccio male. Non so
niente.’’
‘’Lascia stare,’’ risponde
Atsumu, scuotendo la testa. ‘’Gli serve solo
tempo.’’
Atsumu prende il bicchiere e lo fa oscillare piano, fissando l'acqua
che vortica al suo interno. Poi se lo porta al viso, ci guarda
attraverso, e Shouyou vede il suo occhio deformato dal vetro.
‘’Hai mai sentito parlare della teoria del
porcospino?’’
‘’No,’’ risponde Shouyou.
‘’Cos'è?’’
Atsumu poggia il bicchiere sul tavolo. ‘’Beh, i
porcospini hanno gli aculei, no? Perciò non possono
avvicinarsi troppo fra di loro perché altrimenti si
feriscono, infatti sono animali solitari. Più o meno questo
è quello che succede con le persone: se ti avvicini troppo a
qualcuno, lui finirà per ferire te e tu finirai per ferire
lui. O almeno, credo che ‘Samu la pensi così. Ha
paura, Shouyou. Ha sofferto prima, e per dieci anni non ha fatto altro
che fuggire dal dolore. Poi arrivi tu che glielo fai sentire di
nuovo.’’
‘’Credevo che lo stessi
aiutando.’’
‘’È così, infatti. Sentire va
bene, che sia gioia o dolore. Sentire significa essere vivi. Se smetti
di sentire, allora lì iniziano i
problemi.’’
Shouyou rimane in silenzio per qualche istante, poi scuote la testa.
‘’Ma non può restare da solo per sempre.
Non è così che si combatte la
paura.’’
Atsumu scrolla le spalle. ‘’Non preoccuparti,
andrà bene. Fidati. Deve solo fare pace con il
mare.’’
‘’Il mare?’’
Atsumu annuisce. Shouyou è confuso, ma si fida. Certo che si
fida, è suo fratello gemello, è tutta la sua
famiglia. Quindi si ficca in bocca un altro pezzo di pane, pensieroso.
‘’Tu mi vedi come un
porcospino?’’
Atsumu inarca le sopracciglia, poi scoppia a ridere.
‘’Come?’’
‘’Sono serio,’’ dice Shouyou.
‘’Tu mi vedi come un porcospino? Ti sto facendo
male?’’
‘’No. Certo che no, Shouyou. Tu mi stai aiutando.
Aiutare Samu significa aiutare me.’’
‘’È davvero l’unica cosa che
posso fare?’’
‘’Beh, a meno che tu non sappia come farmi tornare
in vita dubito che ci sia altro.’’
Shouyou abbassa lo sguardo. Non lo sopporta. Non Atsumu, ovviamente, ma
la consapevolezza che non può davvero fare nulla per lui. E
quell’impotenza, quell’impotenza è...
‘’E io?’’ Domanda Atsumu,
interrompendo il flusso dei suoi pensieri. ‘’Ti sto
facendo del male?’’
Sì,
pensa immediatamente Shouyou. Sì perché vorrebbe
che fosse vivo. Vorrebbe essere in grado di fare qualcosa, cambiare il
passato, restituirgli il respiro, il battito cardiaco.
‘’No,’’ risponde.
‘’Non mi stai facendo male, Atsumu. Sono felice di
averti incontrato.’’
Atsumu sorride - un sorriso sincero, privo di malizia, gonfio di
gratitudine e vita, non si addice a un fantasma. Shouyou, tornando a
ingozzarsi di pane, soffoca quel lamento che gli gratta la gola e
ingoia le spine - spine e porcospini interi.
Avrei solo voluto che
accadesse prima.
*
Quarta
lezione:
il mare - il mare -
è vita e morte. L’onda è una curva
(svogliata o impetuosa, fiacca o repentina) che prima crea e poi
distrugge, in un ciclo perpetuo, intoccabile. Tu fai parte di esso. Sei
creato e distrutto. Sei un istante nel mezzo. Sei luce e ombra, con in
dono il tempo di un respiro. Poi torni schiuma.
*
Osamu sospira. Ha appena chiamato Shouyou, che gli ha detto che fra
venti minuti passerà a prenderlo.
Osamu ha capito che sfuggire a Shouyou è impossibile. O
meglio, non è Shouyou, il problema, quanto piuttosto
rinunciare nuovamente a quella boccata di vita.
Per qualche istante Shouyou gli ha permesso di respirare aria pulita,
profumata di arancia. E dopo dieci anni in cui la sola cosa che respira
è l’angoscia umida e malata della sua casa,
è una sensazione dolcissima, piena, come se si fosse
affacciato da uno strapiombo, ebbro della sensazione di potenza che
l’altezza gli permette di percepire. Per quanto provi ad
attorcigliarsi su se stesso, per quanto provi a sprofondare di nuovo
verso l’abisso, a galleggiare lontano per nascondersi dal
tempo e dal dolore, c’è una parte di se stesso che
invece lo spinge a uscire fuori anche se fa male. Una parte che
è sempre stato in grado di soffocare, fino a quel momento.
Ma adesso l’istinto di combattere, di reagire, sta diventando
irrefrenabile.
Shouyou alimenta la sua smania. Osamu è attratto dalla sua
orbita, gli gira intorno e, un passo invisibile per volta, colma quella
vicinanza.
Osamu non si riconosce più. Ha bisogno del freddo, del gelo
per anestetizzare ogni parte del suo corpo. Eppure ha voglia del
tepore. Anche se fa male, anche se stare con Shouyou significa
inevitabilmente avvicinarsi alla consapevolezza della
realtà, tornare a percepirla.
Una scossa elettrica gli fa formicolare lo stomaco. Quindi apre
l’armadio grigio e cerca tra le stampelle qualcosa da
indossare.
Non bada all'anta usurata, alle briciole di legno che formano un velo
sul fondo dell'armadio come se tutto lì dentro si fosse
trasformato in marzapane. Le maglie che possiede sono vecchie e
scolorite, deve urgentemente andare in qualche negozio per rifarsi il
guardaroba - se le
vedesse 'Tsumu, pensa.
Si detesta, in quel momento, per essersi trascurato tanto.
Tira fuori una camicia bianca che non ricordava neanche di avere. Si
chiede se possa andare bene, se non sia troppo elegante, con
l’euforia (si tratta davvero di euforia?) che gli sgorga
nelle vene.
Da quando non si faceva quella domanda? Da quanto non sceglieva vestiti
per fare qualcosa con qualcuno?
Osamu se la infila, la abbottona fino al collo, le dita titubanti che
litigano con le asole strette mentre continua a non crederci, sta
davvero indossando una camicia, lui.
Infine si guarda allo specchio appannato e ha un sussulto.
Beh, dovrebbe decisamente guardarsi allo specchio più
spesso. Ha il viso pallido e smunto, le occhiaie accentuate. Sembra
malato, sembra esausto, sembra depresso. Probabilmente è
davvero tutte e tre le cose. E quel luccichio di felicità
negli occhi lo fa sembrare ancora più disperato.
L'entusiasmo lo abbandona. La frenesia che per qualche minuto gli aveva
acceso il sangue svanisce. L’aria smette di essere elettrica
e torna opprimente. Osamu si svuota e si accascia come un palloncino
sgonfio. Non si piace. Non si piace affatto. Cioè,
è brutto, ma proprio
tanto, verdognolo come i muri della casa.
Distoglie lo sguardo dal proprio riflesso. Non riesce a guardarsi negli
occhi. Non vuole vedere quello che è diventato, i segni del
dolore stampati addosso, indelebili.
Osamu comincia a sbottonarsi la camicia. D’improvviso tutto
gli pare ridicolo. Ma esattamente cosa sta facendo? Si è
davvero messo una camicia? Si è davvero azzardato a essere
così felice per una cazzo di uscita, dopo quello che
è successo?
Osamu non ha il diritto di sentirsi così, non ha il diritto
di provare una spensieratezza tanto frivola e sciocca.
Osamu è un cadavere con un buco al posto del cuore, e
perdere il cuore, per i vivi, significa solo un grande, grandissimo
vuoto.
Qualcuno bussa.
‘’Sono io,’’ cinguetta Shouyou,
dall’altra parte. Osamu si sta sbottonando il penultimo
bottone. Esita un istante, grugnisce, quella parte di sé che
non comanda si affretta ad abbottonargli la camicia da capo, quindi
cammina verso l'ingresso.
Quando apre la porta, Shouyou gli rivolge un sorriso che indora l'aria.
Osamu, ricordandosi del suo aspetto smunto, non riesce a ricambiare.
Immagina come deve apparire ai suoi occhi. Come un cucciolo orfano
pieno di pulci di cui prendersi cura.
Una campana di vetro gli rovina addosso.
Shouyou (fischia). ‘’Però,’’
dice, inarcando le sopracciglia in un'espressione di (apprezzamento).
(Apprez)zamento. Apprezzamento. Apprezzamento? Possibile...?
‘’Stai molto bene, con la
camicia.’’
È un piccolo bagliore di luce. La campana si scioglie come
melassa, da un piccolo pertugio tornano a fluire i suoni e
l’aria all’arancia.
‘’Grazie,’’ risponde Osamu,
questa volta sorridendo. Non ci crede davvero, però si
aggrappa a quel complimento, se lo stringe fra le braccia, è
tiepido come una fiammella.
Osamu chiude la porta, poi segue Shouyou verso la macchina.
Nessuno dei due se ne accorge, ma il pomello della porta
all’improvviso si illumina, come se ingoiasse la luce
riflessa dal mare.
Torna di un dorato scintillante.
*
Quando Osamu stringe fra le dita i manici dei coltelli, sorridere
diventa più facile. Erano anni che non cucinava qualcosa per
qualcuno. Presta attenzione alla cottura del riso, sfiletta il salmone
con eleganza, prepara la salsa agrodolce. Shouyou nel frattempo gli
ronza attorno estasiato e si offre di aiutarlo come può.
Mentre aspettano che il riso cuocia, Shouyou lo obbliga a scrivere su
un pezzo di carta la ricetta. Poi apparecchia, prepara la birra.
Ha una bella cucina,
pensa Osamu. I mobili sono in legno caldo, la sensazione è
quella di una carezza sulla guancia, o quella di soffiarsi sulle dita
fredde durante l'inverno. Non è troppo grande ed
è questo a renderla intima e confortevole. Se avesse un
ristorante, Osamu vorrebbe che lo facesse sentire così:
bene, al caldo, coccolato. Osamu si rende conto che cucinare gli
è mancato più di quanto le parole riescano a
descriverlo. E oltre a cucinare, gli mancava avere intorno pareti
pulite e luminose, con una radio poggiata sul davanzale della finestra
che diffonde musica allegra, tutti quei colori e le conchiglie sui
mobili. É come se l'assenza del grigio lo facesse sentire
leggero come una foglia, propositivo, speranzoso. Osamu si rende conto
che lì riesce a respirare bene. A casa sua gli sembra di
star risucchiando l'ossigeno da una fessura, quando non annega.
‘’È tutta un'altra
cosa,’’ mormora tra sé. Shouyou lo
sente, scopre i denti in un mezzo ghigno.
‘’Puoi venire qui quando vuoi. E possiamo fare
taaante altre cose, oltre cucinare.’’
Osamu lo guarda e inarca le sopracciglia, poi soffia via una risata.
‘’Flirti un sacco per essere uno che non sa neanche
tagliare una cipolla.’’
‘’Posso imparare,’’ ribatte
lui, gonfiando le guance. ‘’O mi potresti
insegnare, ancora meglio.’’
Quando il cibo è pronto, c'è un istante di
sacralità prima di mettersi le bacchette in bocca.
Per la prima volta, Osamu ha l'ansia. E se non fosse buono? Se avesse
perso anche la capacità di cucinare?
‘’Oh mio dio,’’ biascica
Shouyou, socchiudendo gli occhi beato. ''Oh mio dio,''
ripete. ‘’Mi si sta sciogliendo in
bocca.’’
‘’È una cosa
positiva?’’
‘’Ma scherzi? È la cosa più
squisita che abbia mai mangiato. Dovresti davvero aprirti un
ristorante, Osamu-san.’’
Osamu rimane qualche secondo interdetto. Poi comincia a mangiare anche
lui. Okay, è buono sul serio. Okay, forse dovrebbe aprirsi
un ristorante.
È un pensiero che affiora alla luce come una ninfea dalle
acque cristalline di un lago, una folgorazione inaspettata che non
riesce a soffocare.
All'improvviso ha di nuovo diciassette anni, e guarda la cucina della
sua casa fantasticando sulla cucina di un ristorante, del suo
ristorante. Dopo Atsumu, ha cancellato il sogno come se non fosse mai
esistito, l'ha accartocciato come una pallina di alluminio rendendolo
sempre più piccolo, invisibile, poi l'ha sepolto dentro se
stesso insieme a tutte le cose belle.
Un po' per i colori, un po' per Shouyou che cinguetta, un po' per le
lattine di birra che si accumulano, Osamu si sente meglio, bene, per la prima
volta dopo anni.
‘’Ti va di restare ancora?’’
gli domanda Shouyou, dopo che hanno finito di sparecchiare. Osamu, che
non ha proprio voglia di andarsene, annuisce.
Si siedono sul piccolo sofà davanti alla televisione.
Shouyou prende il telecomando e apre Netflix. Elenca i titoli dei film
e delle serie TV, e Osamu smette di ascoltarlo. Lo guarda, un
po’ incantato: Shouyou è davvero bello.
Osamu ha voglia di accarezzarlo. E quel bisogno di avvicinarsi
è sconvolgente, perché da quanto, da quanto tempo
non sente quella voglia elettrizzante? Da quanto tempo non desidera il
corpo di qualcuno? Non desidera la carne, il calore della pelle?
L’intimità?
Shouyou distoglie lo sguardo dalla televisione e lo punta nel suo.
Sorride, Osamu solleva il braccio e gli sfiora la guancia con due dita,
poi si blocca. Si domanda se sia ancora capace di toccare qualcuno,
dopo tutto quel tempo. Di lasciarsi toccare da qualcuno, soprattutto.
Shouyou socchiude gli occhi e strofina forte la guancia contro la sua
mano, come un gatto - ci
entra perfettamente, pensa Osamu, stupito.
Poi gli strofina le labbra contro il palmo. Poi lo morde piano, e Osamu
ride, un po’ eccitato, un po’ agitato. Shouyou gli
afferra il polso e stringe la presa, provando a mordergli il braccio.
Inizia una specie di lotta giocosa, e Osamu scopre che Shouyou, a
discapito della corporatura esile, la forza ce l’ha eccome.
Shouyou lo sovrasta, si porta sopra di lui tenendosi stretto ai suoi
polsi. Osamu ha la nuca schiacciata contro il bracciolo del divano, e
davanti solo i suoi occhi.
Shouyou ha gli occhi enormi, pensa Osamu. Enormi e traboccanti di luce,
scintillano nell’oscurità. Vede il riflesso del
suo volto, vede il riflesso del mare, dentro.
Shouyou allenta la presa sulle sue braccia. Osamu è libero
di muoversi. Vuole allacciargliele intorno alla schiena. Esita, poi
asseconda l’istinto e lo fa.
Una scarica gli attraversa le cosce. Sparisce la stanza, sparisce il
divano, c'è solo Shouyou che gli si preme contro e affonda
la faccia nella curva del suo collo. Il suo respiro gli fa tremare le
viscere, Osamu serra la presa sulla sua schiena, dita che scavano.
Osamu chiude gli occhi. Shouyou lo bacia. Piano, con dolcezza,
gommapiuma.
Poi si allontana e lo guarda negli occhi, come aspettando un segnale
per proseguire. Osamu gli poggia una mano sulla guancia e gli accarezza
i capelli rossi. Shouyou lo bacia di nuovo e Osamu apre la bocca,
Shouyou gli ansima in gola. Il desiderio di esplorare il suo corpo, di
sentirlo nudo, premuto contro il suo, diventa totalizzante, impetuoso.
Si intrufola sotto la sua maglia, i cuscinetti delle vertebre che
fremono e si tendono sotto le sue mani. Quelle di Shouyou invece sono
sulla sua camicia, la camicia che non voleva indossare, e indugiano sui
bottoni, gli accarezzano il petto, lo sterno, l’addome.
Una foschia gli piomba nella mente, sconvolge la percezione, Osamu si
sente perduto ma non spaventato, viene privato del controllo su se
stesso ma non c’è niente di tormentato nel modo in
cui si sente scollegato. Viene rapito da un tornado caldo e umido,
brividi ed elettricità sulle braccia, dietro al collo.
Ma quanto è bello toccare qualcuno, stringere qualcuno,
sentirsi parte di qualcuno? Quanto è bello annegare in un
abisso fatto però di desiderio, di pelle che si increspa di
odori salati e dolci, di sicurezza di intimità di labbra
gonfie di carezze di mani che si intrecciano si cercano, di musi che si
strofinano sul collo di bisogno carnale di unione di cuori che battono
e battono e battono forte fortissimo e occhi.
Una finestra sbatte rabbiosa. Nessuno dei due se ne accorge, protetti
dalla loro piccola bolla di luce.
*
Shouyou è felice. È normale essere felici il
giorno dopo che hai baciato la persona che ti piace. È
normale essere felici quando vedi che la persona che ti piace sta bene.
Mentre prepara la colazione, Shouyou fischietta allegro. Poi
però pensa ad Atsumu, che è sparito.
L’ha sempre fatto, dice una voce dentro la sua testa, come se
volesse tranquillizzarlo. Shouyou annuisce, le dà ragione,
ma smette di fischiettare.
Quando si versa il caffè nella tazzina, Osamu lo chiama.
‘’È successo qualcosa alla
casa,’’ gli dice. Il cuore di Shouyou balza in
gola, la paura che pulsa febbrile contro le orecchie.
‘’Niente di brutto,’’ si
affretta ad aggiungere Osamu. ‘’Però
puoi venire?’’
Dieci minuti dopo, Shouyou scende dalla macchina e a passo affrettato
si dirige verso l’ingresso. Nota subito che
c’è qualcosa di diverso. La porta appare
più scintillante, meno grigia, come se avesse assorbito del
pigmento. Ma non è solo la porta, anche
l’atmosfera che avvolge la casa appare più
benevola, ben disposta, leggiadra. Pronta ad accogliere qualcuno,
seppur con riluttanza, paura.
Shouyou prova a suonare il campanello. Questa volta funziona.
È un suono distorto quello a riecheggiare, come se la casa
si stesse schiarendo la gola dopo un raffreddore, però
c’è, si sente.
Osamu apre la porta. Lo fa entrare, poi lo guarda ansioso come se
aspettasse un verdetto.
‘’Questo sì che è
buono,’’ commenta Shouyou, sfiorando le pareti.
Osamu sorride. ‘’Ci sto
provando.’’
‘’Si vede,’’ risponde Shouyou,
raggiante. Gli occhi di Osamu, per un istante, scintillano orgogliosi.
La temperatura è meno rigida, si respira meglio,
l’odore ristagnante si è dissolto quasi del tutto.
Certo, ci sono ancora le perdite dal soffitto e le macchie di
umidità, ma Shouyou può iniziare a lavorare,
può iniziare ad aggiustare.
‘’Okay,’’ dice. Perlustra il
bagno, la camera, si osserva intorno con attenzione e sguardo critico.
‘’Okay,’’ ripete.
Estrae dalla tasca penna e taccuino, poi guarda Osamu e gli espone il
suo piano di lavoro. Inizierà dalla stanza dove dorme, la
più urgente. Per la stanza ci vorrà una giornata,
per la sala almeno due, dopodiché passerà alla
cucina, al bagno, e infine si dedicherà
all’esterno. Comincerà a inizio settimana.
‘’Non potrai dormire qui per un
po’,’’ lo avverte Shouyou.
‘’La vernice è tossica, non puoi
respirarla. Dovrai trovare un posto dove stare finché non
andrà via l’odore.’’
Osamu annuisce immediatamente. ‘’Troverò
qualcosa,’’ dice. ‘’Non
è un problema.’’
‘’Puoi stare da me,’’ propone
Shouyou in fretta, le orecchie calde.
‘’Cioè, solo se ti
va.’’
‘’Mi va,’’ ribatte subito
Osamu, fermo.
Shouyou sorride. Pensa che potrebbe sciogliersi, in quel momento. Ha
voglia di baciarlo.
Il telefono squilla. Il nome di un cliente lampeggia sullo schermo.
Shouyou si ricorda dell’appuntamento delle otto e mezza, e
vede che l’orologio segna le nove
‘’Merda,’’ sbotta.
‘’Scusami,’’ aggiunge.
‘’Devo scappare. Ti scrivo appena
finisco.’’
Osamu annuisce, poi lo fissa stranito. Shouyou non fa in tempo a
chiedersi come mai, che Osamu si china e lo bacia.
Shouyou mugola deliziato contro le sue labbra. Sente Osamu sorridere,
cercargli le dita, stringergli le mani.
Il problema, pensa Shouyou mentre si spinge contro la parete,
è che Osamu bacia maledettamente bene. Potrei morire da un
momento all’altro.
Osamu gli mette un ginocchio fra le gambe, Shouyou inarca la schiena e
gli sospira addosso.
‘’Il lavoro,’’ sussurra, e
Osamu gli tappa di nuovo la bocca.
‘’Il lavoro,’’ ripete Osamu,
allontanando il viso con un ghigno e permettendogli di riprendere
fiato.
‘’Sei tremendo,’’ dice Shouyou.
Poi lo bacia di nuovo e scappa via.
Sì, le cose vanno decisamente bene. Alla grande.
Sì,
però, Atsumu dov’é?
*
‘’Ciaaaaao.’’
Shouyou urla, colto alla sprovvista, e per poco la ciotola con
l'insalata di pollo non gli sfugge dalle mani.
‘’Cazzo!’’ sbotta, e poi:
‘’Atsumu!’’
Atsumu, ghignando, tira fuori la lingua. Shouyou fa un balzo e lo
abbraccia. Sente aria fra le braccia - no, non aria. Luce.
‘’Perché sei
sparito?’’
Atsumu scuote la testa. ‘’Avevo roba da fare. La
vita di un fantasma può essere estremamente impegnata, anche
se non sembra.’’
Shouyou sbuffa scettico, senza smettere di sorridere.
‘’Com'è andata con
‘Samu?’’
A Shouyou arrossiscono le orecchie. ‘’In che
senso?’’
‘’Lo sai, in che senso. Con la casa, con la
vostra... relazione. Quello che è.’’
Atsumu lo guarda fisso. Sono strani, i suoi occhi. Sono sempre stati
stati strani, ma adesso…
‘’Avete scopato?’’
Adesso lampeggiano, liquidi di ferocia, inesorabili come una valanga.
Shouyou ha paura.
‘’Shooouyou.’’
Forse è il modo lugubre e incattivito con cui canticchia il
suo nome, forse è il terrore che gli occlude la gola, il
tremore incontrollabile che gli fa fremere le mani, ma Shouyou sussulta
e indietreggia, come un animale in trappola.
Un istante dopo, qualcosa esplode. La cristalliera con piatti e
bicchieri si polverizza in un nugolo di schegge, che scrosciano a terra
in una cascata pungente e affilata. Shouyou si paralizza.
Un altro scoppio, la televisione s'infrange e crolla a terra.
Vorrebbe gridargli di piantarla, ma la verità è
che davanti a sé Shouyou non vede più Atsumu,
bensì qualcuno - qualcosa, uno spettro - che ringhia, e
l’unica cosa che può fare è sperare che
la prossima cosa a esplodere non sarà la propria testa.
La paura lo assale come centinaia di farfalle che sbattono febbrili le
ali, gli occhi lucidi di lacrime, il tremore è
così violento che il frigo contro cui è premuto
sussulta seguendo gli spasmi delle sue spalle.
Shouyou deglutisce. Atsumu? vorrebbe mormorare, ma non ci riesce, non
vuole. Parlare sarebbe inutile come chiedere al mare di addolcirsi.
Rimane fermo mentre la sua casa viene devastata, senza riuscire a
distogliere lo sguardo dagli occhi di Atsumu che si deformano,
s’ingrandiscono, più vuoti, più
torbidi, tumefatti.
E all'improvviso, giunge il silenzio. Davanti a lui non c'è
più nessuno.
Shouyou rimane pietrificato, zuppo di brividi e sudore, a guardare
fisso il vuoto mentre i denti battono.
*
Non sa per quanto tempo rimanga immobile a fissare il vuoto, lo spettro
degli occhi di Atsumu stampati nella retina, tentando di placare
l'angoscia nel petto. Poi il telefono squilla. È una
chiamata di lavoro, e udire la voce del cliente che vedrà
l’indomani gli permette di ancorarsi a una parvenza di
normalità. Quindi si infila i guanti, raccoglie i cocci di
vetro attento a non tagliarsi, butta tutto ciò che
è rotto in una grande busta a doppio strato e mentre
accantona la televisione spaccata contro lo stipite della porta si
appunta mentalmente che dovrà al più presto
comprarne una nuova.
È notte fonda quando esce a cercarlo.
‘’Atsumu?’’ Shouyou bisbiglia
il suo nome, camminando scalzo sulla spiaggia deserta. Il mare
è agitato, le onde che muoiono sulla riva sono minacciose
come il ronzio di un vespaio.
‘’Atsumu?’’ Riprova, a voce
più alta.
Lo trova vicino al pedalò coperto da un velo di sabbia, dove
l'ha incontrato la prima volta. È una figura rannicchiata su
se stessa, iridescente come l’interno di una conchiglia. Non
ha niente di spaventoso o di terrificante. A Shouyou si stringe il
cuore.
‘’Ciao,’’ gli dice,
avvicinandosi piano. Atsumu tira su con il naso. Ha il viso poggiato
sulle ginocchia, Shouyou riesce a distinguere solo gli occhi che
brillano di luce propria.
Rimangono in silenzio. Osservano il mare che si protende verso di loro,
ogni onda si avvicina centimetro dopo centimetro alle loro caviglie,
come mani che si arrampicano, che si allungano.
‘’Mi rivuole indietro,’’ dice
Atsumu.
‘’Chi?’’ domanda Shouyou.
‘’Il mare.’’
Silenzio.
‘’Che succederebbe se… se riuscisse a
prenderti?’’
‘’Non lo so,’’ risponde Atsumu.
‘’Non lo so. Ho paura, Shouyou. Il mare
è freddo. Non voglio toccarlo.’’
Non avere paura, vorrebbe dirgli. Ma come può solo pensare
di azzardarsi? Come può dirgli di non avere paura del mare?
‘’Mi dispiace,’’ sussurra
Atsumu. ‘’Mi dispiace, Shouyou. Ti giuro. Mi
dispiace. Non volevo spaventarti. Ma ero così arrabbiato.
Sono così arrabbiato. Perché Osamu può
avere te. Perché tu puoi avere lui. Perché siete
vivi. Perché se gridate qualcuno vi
sente.’’
‘’Io ti sento,’’ ribatte
Shouyou. ‘’Ti vedo.’’
‘’Però tu ce l’hai, un cuore.
Io non ho niente.’’
Atsumu gli prende la mano. Shouyou percepisce di nuovo quel formicolio
elettrico, la sensazione di piccole zampette di ragno fatte di luce. La
porta all’altezza del petto, dove dovrebbe battere il cuore.
Solo che non c'è niente che batte, sotto il suo palmo.
C'è solo un eterno, dolorosissimo silenzio, scandito dalle
onde del mare che provano ad afferrare i loro piedi. Un silenzio che
somiglia a quello di quando metti la testa sotto l'acqua. Fa male alle
orecchie.
Atsumu ha diciassette anni. Aveva tutta la vita davanti. Ora ha solo
l’oceano. Lo spietato, perennemente mobile e dunque immobile,
oceano
Shouyou gli stringe la mano. Non gli importa che sia morto. Atsumu
è reale. È vero. Ci penserà Shouyou a
stargli vicino. Non importa che sia un fantasma.
‘’La verità è che non sono
qui per aiutare mio fratello,’’ dice Atsumu.
‘’La verità è che mi rifiuto
di accettare di non essere più vivo.’’
Macchie gialle gli sbocciano davanti agli occhi, farfalle che
esplodono. La sensazione di assoluta impotenza è qualcosa a
cui Shouyou non si abituerà mai.
Il mare si ingrossa. Adesso lo odia, lo odia, lo odia, LO ODIA,
vorrebbe ridurlo a brandelli, prosciugarlo, mettergli le mani intorno
al collo e soffocarlo.
Shouyou scatta in piedi.
‘’Andiamo a casa,’’ dice. Teme
che l’oceano riesca a raggiungere Atsumu, a trascinarlo
lontano.
‘’Andiamo a casa,’’ ripete.
Stringe la mano di Atsumu. Non la lascia andare, non la
lascerà andare mai più. Non può
permettere che svanisca.
Tornano a casa. Shouyou si infila sotto le coperte, Atsumu lo segue
anche se non può sentire freddo. Al buio, sembra fatto di
luna.
‘’Posso chiederti una cosa?’’
Atsumu annuisce.
‘’Osamu-san davvero non riesce a
vederti?’’
Atsumu esita.
‘’Credo che ci riuscirebbe. Se io glielo lasciassi
fare.’’
‘’E perché non glielo
permetti?’’
‘’Perché,’’ dice,
poi si blocca.
‘’Perché,’’ riprova,
‘’dimenticare, delle volte, è
ciò che ti fa andare avanti. Se mi vedesse adesso, dopo
dieci anni, cosa credi che accadrebbe?’’
‘’Gli piomberebbe di nuovo tutto
addosso,’’ risponde Shouyou.
Atsumu annuisce. ‘’E non potrebbe comunque fare
niente per cambiare le cose. Sono morto, Shouyou.’’
Shouyou rimane zitto, poi spalanca le braccia. Atsumu si accoccola a
lui come un cucciolo in cerca di tepore.
‘’Vorrei solo che non fosse vero. Vorrei
svegliarmi, vorrei che fosse un incubo.’’
Shouyou trattiene il fiato.
Prova con tutte le sue forze a non piangere, ma non ci riesce, il cuore
trafitto da spini.
*
Quando il giorno dopo Shouyou si sveglia, impiega qualche istante per
capire dove si trova.
Si gela, pensa, frastornato dal sonno. E poi: ma questo non
è il mio soffitto.
Si tira a sedere di scatto, osservandosi intorno sconvolto. Quel luogo
ricorda vagamente la sua stanza: la piccola finestra rotonda sulla
parete destra che si affaccia sul mare, la scrivania con il
portapenne rosso, la mensola scardinata che Atsumu gli ha distrutto il
giorno prima.
Solo che è tutto, tutto, tutto grigio.
*
Quinta
lezione:
il mare - il mare - non
può essere né odiato né amato. Solo
gli stupidi si fidano dell’acqua, e solo quelli
più stupidi ancora hanno paura di guardarla.
Quando capirai che non
è né bellezza né orrore, né
ferocia né gentilezza, quando imparerai a camminare in
equilibrio sulla riva, allora, soltanto allora, il mare ti
concederà salvezza.
*
Atsumu cammina sulla spiaggia. Non lascia orme né ombra,
dietro di sé. Le voci, gli sguardi delle persone, lo
attraversano come se fosse invisibile. E invisibile lo è per
davvero, ma da quando ha conosciuto Shouyou, per qualche sporadico
momento, tende a dimenticarlo.
Lui l'ha vista, la casa di Shouyou mentre si ammalava. Shouyou dormiva
agitato e Atsumu osservava il soffitto che sbiadiva, che
s’ingrigiva, come se un aspirapolvere stesse risucchiando via
il pigmento della vernice. Quando quella strana nebbia aveva saturato
l'intera stanza, Atsumu silenzioso era scivolato via constatando che la
stessa sorte era toccata al salone e alla cucina luminosa, ora livida
come tempesta in decomposizione.
Un tizio a passeggio con il cane lo sfiora, mentre cammina. Prosegue
imperterrito senza mostrare un segnale, un accenno, di averlo percepito.
Atsumu si domanda se, più che un fantasma, non sia un
ricordo. Un’eco lontana di qualcosa che è stato e
che adesso non è più, inafferrabile come le
goccioline di nebbia, spirali di fumo che si disperdono. Si domanda se
non sia semplicemente la proiezione di Osamu, un ologramma tremulo
generato dalle briciole di ciò che si è lasciato
dietro.
Sebbene sia trasparente, sebbene sia morto, ha comunque ferito Shouyou.
Gli ha fatto del male, e la sua casa si è ammalata - lui si
è ammalato - per colpa sua. E allora forse i ricordi sono
più spaventosi dei fantasmi stessi, e allora forse i
sussurri, i sogni, sono più dolorosi e acuti dei gridi.
Atsumu si ferma. Si volta a guardare il mare. Il mare lo chiama sempre,
costantemente, instancabile come il moto delle onde, delle maree, un
ciclo fisso, inarrestabile.
L’azzurro verde dell’acqua, il celeste pastello del
cielo, le increspature dorate che brillano di luce, le striature
riflesse delle nuvole candide o minacciose. Burrasche, tramonti, albe,
pomeriggi invernali, mezzogiorni estivi.
Il mare racchiude ogni colore, ogni sfumatura. Se potesse, Atsumu
distillerebbe l’oceano sino a creare un impasto denso e
cremoso, lo metterebbe tutto dentro a un secchiello e poi con un
pennello dipingerebbe le case di Shouyou e la loro, quella sua e di
Osamu. Ma non può farlo, perché il colore del
mare non si lascia catturare, te lo puoi mettere addosso solo se scegli
di immergerti dentro. E se l’oceano quel giorno
sarà placido, magnanimo, ti dipingerà la pelle di
acquamarina senza prendersi in cambio la tua vita.
Atsumu sa che deve andare via. Sa che deve farlo quanto prima. Non
può rimanere in quel luogo, non può continuare a
pretendere di essere vivo. Non può continuare a ignorare il
richiamo. Però non vuole, non vuole perché
l’oceano è freddo, perché…
Perché niente.
È il momento.
*
Piove. È una pioggia fitta come una pesante coperta di lana.
Osamu se ne infischia, ha bisogno di aria, esce senza neanche portarsi
dietro l'ombrello e s'incammina verso la spiaggia.
Si siede sulla riva a gambe incrociate, le gocce che gli inzuppano i
vestiti, i capelli, il viso, rivoletti dolci che colano lungo le guance.
Il mare è mosso, la superficie increspata, ogni goccia
è un proiettile che lo penetra. Proiettile che
però poi si squaglia, il mare riesce ad assorbire dentro
ferro e pioggia.
Osamu si sfila scarpe e calzini, e con la punta dei piedi, esitante,
tocca l'acqua salata.
Non toccava il mare da anni. Mio
fratello ci è morto, qui dentro. È a
questo che pensa mentre muove il piede. Sebbene sia fredda,
però, c'è qualcosa di piacevole nella gentilezza
con cui l'acqua gli avvolge le caviglie. Il mare uccide, il mare
guarisce.
Il problema è che quando rimani solo, o meglio, quando
rimani a metà, la percezione della realtà
cominciare a cambiare. L'aria, il cielo, il sole, le case, le persone.
Tutto ciò che è etichettabile come concreto
smette di essere tale. I contorni si sfumano, scivolano a terra come
fili tranciati di netto, le forme smettono di essere separate e
comincia un processo di mescolazione graduale. Se prima c'era la
diversità, la diversità che permetteva di
distinguere le cose, quest’ultima svanisce. Le persone, agli
occhi di Osamu, diventano birilli. Birilli che si muovono e che lui
deve evitarli per non sbatterci contro. Lo scopo, il fine ultimo,
diventa quello di conquistare una invisibilità totale agli
occhi degli altri, ma soprattutto agli occhi di se stesso. Non vuole
più percepirsi, vedersi, sentirsi. Deve sciogliersi,
scomparire nella realtà che sta già scomparendo.
Non mimetizzarsi, ma volatilizzarsi, fingere che non sia mai stato
lì, che non sia mai stato e basta. Quello a cui
Osamu anela è un coacervo filamentoso, indistinto e
insensibile, che risucchi via tutto, lui compreso.
Però non è così. Non riesce a
ottenerlo, non riesce a sparirci in mezzo, non riesce ad annullarsi.
C'è un immenso vuoto, un immenso silenzio, una tela
immacolata che si estende all'infinito. In questa tela, Osamu
è un punto a destra e il groviglio informe che rappresenta
quello che prima era la sua vita a sinistra. E Osamu lo sente, quel
groviglio che si protende verso di lui, non riesce a farlo smettere,
è un richiamo martellante. E lui si sente un punto, e dunque
esiste, e non riesce ad annegare in quella tela uniforme - non riesce
ad annegare nel mare.
La vita è fragile. E ancora più fragili sono i
meccanismi su cui essa si basa. Un ripetersi di azioni che sembrano
fondamentali, se ti trovi da una parte, dalla parte dei vivi. Poi,
all’improvviso, giunge quel silenzio impetuoso, assoluto, che
ti costringe a oltrepassare un velo, uno specchio. E,
dall’altra parte, ti vedi. Ti osservi. Tenti di capire come
sia potuto accadere. Perché.
La verità è che a Osamu manca troppo suo fratello
per permettersi di svanire. Gli manca in maniera straziante, secondo
dopo secondo, non importa quanti anni siano trascorsi, e quel bisogno
lo tiene arpionato alla realtà, imbottito di spine e dolore.
È un flagellamento perenne in cui Osamu ricorda quel calore,
lo sente sulla pelle, dentro le ossa, e in quel dolore vede la
verità - inesorabile e disumana, come il mare. E se il
dolore è vero, allora era vero anche l'amore. E per quello
non c'è anestesia, per quanto provi a trattenere il fiato e
a lasciarsi sprofondare in quell'abisso senza fine - prima o poi
finirà, pensa, prima o poi smetterò di sentire -
quello non smette mai.
Poi c'è stata una variabile impazzita, che ha schizzato di
arancione quella tela immacolata e infinita in cui c'erano un punto e
un groviglio. Shouyou gli ha dimostrato che Osamu è ancora
in grado di provare desiderio. Desiderio per sensazioni fisiche,
vicinanza, affetto, che si traduce in desiderio per la
realtà, desiderio per la vita, bisogno cocente di emergere
da quella nebbia di anestesia, anche se significa tornare ad affrontare
il dolore, quello più viscerale e insito.
‘’Affronta la paura.’’
C'è quella frase, quell'ordine, che ogni tanto svolazza
nella testa, con la stessa leggerezza di un nastrino di seta.
C'è una parte recondita della sua coscienza che si ostina a
lottare, a spingerlo verso la superficie, si rifiuta di lasciarlo
annegare.
‘’Dovresti dire addio,’’ gli
dice la coscienza. ‘’E per addio non intendo un
vero addio, ma semplicemente un ciao, ci vediamo dopo. Cioè,
senza offesa eh, ma morirai anche tu prima o poi. Ti conviene davvero
sprecare così il tempo che ti rimane?’’
Osamu scuote la testa. Non può dire addio.
''Ci sono ancora cose per cui ne vale la pena,'' gli dice la coscienza.
''Shouyou te l'ha dimostrato, giusto?''
Giusto. Ma la verità è che Osamu ha paura anche
di Shouyou. Non vuole affidarsi a qualcuno, per risalire a galla. Non
vuole prendere nessuna mano che gli viene offerta, e non per una
questione di orgoglio, ma perché se poi dovesse trovarsi di
nuovo da solo, allora si troverebbe a sprofondare, privato di appigli,
intorno a lui una parete liscia e scivolosa.
‘’Non dico che dovrai affidarti a lui per stare
meglio, devi farcela da solo. Però essere capaci di andare
avanti non significa isolarsi da qualunque tipo di contatto
umano.’’
Osamu guarda il mare. Lo attraversa con gli occhi, ci sprofonda dentro,
sente l'acqua salata nella bocca, nei polmoni.
‘’È solo che non voglio vivere in un
mondo in cui non ci sei, 'Tsumu.’’
È un mormorio contro il fragore del mare.
‘’Mi manchi.’’
Quindi Osamu affonda la testa fra le ginocchia. Singhiozza sotto la
pioggia, la sabbia umida che si appiccica ai vestiti. Si cinge lo
stomaco con le braccia e stringe forte.
È solo che quando chiude gli occhi, invece di se stesso, gli
sembra di abbracciare suo fratello.
Dopotutto le loro ossa, la loro ombra, il loro cuore, hanno la stessa
forma.
Dice quello che non ha mai avuto il tempo di dire: addio.
*
Piove. Il mare si agita, brulica di rabbia come se la cascata di gocce
lo infastidisse, sollevandosi irato come un dio - un dio è
ovunque, il mare è ovunque, il dio mare. Atsumu lo odia,
Atsumu lo ama.
Osamu esce di casa senza portare con sé un ombrello.
È diretto alla spiaggia, scende lungo la scogliera e
scivola. Atsumu tende il braccio per reggerlo, poi si ricorda di essere
inconsistente. Osamu comunque ritrova l'equilibrio e riesce a non
cadere.
Atsumu lo segue in silenzio. Lo osserva inzupparsi di pioggia come se
volesse lavarsi via qualcosa da sotto la pelle. Giunge sulla riva, si
siede, immerge le caviglie nell'acqua. Atsumu, dietro di lui, viene
attraversato da una sensazione strana. Lo sente dentro, suo fratello,
come se lo stesse toccando per la prima volta dopo dieci anni.
La schiena di Osamu, il mare. Atsumu non ha bisogno di guardarlo negli
occhi per capire che è distrutto.
‘’Affronta la paura,’’
sussurra, a lui, a se stesso. Osamu non può sentirlo.
Non tutto è perduto. C'è ancora qualcosa che
brilla, dentro di lui. Qualcosa di caldo, qualcosa di totalizzante,
qualcosa che vuole vivere, che vuole bruciare e correre sui secondi
come dita febbrili sui tasti di un pianoforte, premere forte,
intensamente. C'è qualcosa in Osamu che vuole ancora
tuffarsi nel mare, nuotare, andare verso il futuro, prenderlo per mano,
provarci, tentare, arrabbiarsi, gridare, gioire, piangere.
C'è qualcosa in lui che ancora non ha rinunciato al sole e
alla pioggia, che vuole tornare a sentire, sentire la vita. Atsumu lo
sa, lo vede. Il suo cuore, batte. Dovrebbe soltanto…
‘’Dovresti dire addio,’’ gli
dice. ‘’E per addio non intendo un vero addio, ma
semplicemente un ciao, ci vediamo dopo. Cioè, senza offesa
eh, ma morirai anche tu prima o poi. Ti conviene davvero sprecare
così il tempo che ti rimane?’’
Poi Atsumu pensa a Shouyou. Shouyou che è così
pieno di vita. Shouyou che riesce a vederla, la vita, anche in chi non
ce l'ha più.
Atsumu inspira, espira, guarda il mare, suo fratello.
‘’Ci sono ancora cose per cui ne vale la pena,
dice. Shouyou te l'ha dimostrato, giusto?’’
Shouyou l'ha dimostrato persino ad Atsumu, che ci sono cose per cui ne
vale la pena, pure da morto.
‘’Non dico che dovrai affidarti a lui per stare
meglio, devi farcela da solo. Però essere capaci di andare
avanti non significa isolarsi da qualunque tipo di contatto
umano.’’
Le sue parole si perdono nelle onde. Che poi, possono chiamarsi
effettivamente parole, le sue? Non può sentirle nessuno,
sono solo echi di qualcosa che è stato.
‘’È solo che non voglio vivere in un
mondo in cui non ci sei, Tsumu.’’
Atsumu sgrana gli occhi. Se avesse avuto un cuore, in quel momento si
sarebbe fermato. Osamu è riuscito a sentirlo? No, non lo
vede, però lo sente.
‘’Mi manchi.’’
Scoppiano a piangere nello stesso momento. Atsumu non credeva che ne
fosse in grado. E in realtà è meraviglioso,
perché c’è una spiaggia e
c’è l’oceano e ci sono due fratelli, uno
vivo e uno morto, due metà che si ritrovano. E sono poche le
cose eterne, le cose vere e inesorabili come il mare, quello che
c’è fra loro due però fa parte di
queste.
Ad Atsumu brucia la faccia, ha il petto pesantissimo - non è
il petto di un morto, quello. Il rimbombo del mare gli scroscia nel
cuore. Si accuccia vicino a suo fratello e lo abbraccia. Sente i suoi
stessi spini, le sue stesse ossa.
Dice quello che non ha mai avuto il coraggio di dire: addio.
Ti voglio bene.
*
Sesta
lezione:
il mare - il mare -
è ovunque. Ascolta lo sciabordio delle onde: è il
tuo nome.
*
Ci sono dei momenti, degli sporadici momenti rari come madreperle, in
cui ti senti onnipotente. In cui ti senti davvero imbattibile, in cui
la gioia di vivere pulsa sotto la pelle e il tuo corpo trabocca di
luce, la stessa luce delle stelle cadenti. Sei così caldo
che potresti incendiare il mondo, l’universo intero, ma tu in
quel bruciore stai bene, sei felice fra il magma, gli zampilli, le
colate di lava. In quei momenti hai la certezza di aver scoperto il
segreto della vita. Il segreto della vita e il modo per sconfiggere la
morte, hai l’eternità in mano. La capisci, la
comprendi, e pensi che essere immortali significhi questo.
Accade quando sei particolarmente felice, o quando sei particolarmente
triste. Accade e basta. C’è qualcosa che si
impossessa di te, un’energia non tua, una reazione esplosiva,
una divinità invisibile priva di nome che ti penetra come
l’acqua che si intrufola ovunque. Una specie di orgasmo
dell’anima.
Atsumu si è sentito così, prima di morire.
C’erano il mare e le onde, e lui che era imbattibile, lui che
si godeva la corrente contro la pelle, lui che si credeva
più forte della marea, del sale, dell’acqua. E
mentre nuotava, pensava a suo fratello che non l’aveva
seguito - troppo vigliacco, è sempre stato meno coraggioso
di te, ha sempre avuto paura, lui - e pensava a quel ragazzo carino dai
capelli rossi che avrebbe voluto invitare a uscire domani.
Atsumu si sente onnipotente. Si sente capace di controllare la schiuma.
Si sente immensamente vivo, immensamente pieno di gratitudine, di
voglia di mettersi alla prova. Il mare è scuro, le stelle in
cielo brillano come il futuro che immagina.
Però poi il mare ti ricorda che no, non sei onnipotente solo
perché hai diciassette anni, non sei un dio, il dio
è lui, e tu in realtà non puoi controllare
proprio un cazzo di niente. E allora la sensazione della sabbia ti
sfugge da sotto i piedi, mentre l’acqua che prima ti
abbracciava, ti sospingeva verso il cielo, adesso ti soffoca. E se non
fossi tanto preoccupato a non affogare, se non fossi tanto impegnato a
tenerti a galla con ogni briciolo di forza, rideresti di te e della tua
stoltezza.
Senti tuo fratello che ti chiama, che grida, poi non senti
più nulla perché cazzo, cazzo, cazzo, hai
diciassette anni e stai per morire, stai per morire annegato, stai per
morire perché sei stato un coglione. Niente ti
salverà. Perché tu sei un corpo fatto di ossa e
carne, e oramai l’unica cosa che spinge le braccia a
sollevarsi è la tua incrollabile disperazione alimentata
dalla paura.
Ma cosa gliene importa, al mare, della tua paura? Cosa gliene importa,
al mare, che sei troppo giovane?
Non può
finire così, pensi. Devo fare ancora troppe cose.
Freddo, gelo, l’indifferenza dell’acqua salata che
ti penetra dentro. E il tuo ultimo pensiero neanche te lo ricordi.
Forse è stato Osamu, forse è stata la presa di
coscienza di quanto tu sia piccolo e invisibile, forse è
stata una bestemmia, non si sa.
Comunque, finisce.
Perdi la tua guerra, perdi la tua anima, il cuore smette di battere,
ora galleggia cadavere nel tuo corpo allagato di sale come tu galleggi
cadavere nell’oceano. Non affondi, non vai giù,
galleggi, perché il mare te lo deve ricordare, che tu non
hai mai pesato niente da vivo e non peserai niente neanche da morto.
Scenderai nel gorgo, in silenzio.
Quando ti svegli, non sei davvero tu. Esistere senza vivere
è strano, all’inizio difficile.
All’inizio c’è il rimpianto. Rimpianto
è un concetto che non racchiude l’odio di Atsumu
nei suoi stessi confronti quando ha perso tutto quello che poteva
perdere scommettendo contro l’oceano. Essere morti come
punizione evidentemente non basta, perché poi bisogna anche
affrontare ciò che avrebbe potuto avere - vivere - e che non
avrà - vivrà - mai. Suo fratello che cresce,
Atsumu che non puoi essere lì con lui, che non
può aiutarlo mentre esclude gli amici e crea una barriera
sempre più alta, sempre più insormontabile, per
tenere tutti alla larga. Non può tenergli la mano, non
può abbracciarlo, non può dirgli di aprirsi il
cazzo di ristorante che desiderava tanto. E se non può farlo
lui allora dev’esserci qualcun altro in grado, qualcun altro
a cui dire di combattere e di non lasciarlo andare. Però
nessuno lo sente, che siano urla o mormorii, è muto in quel
mondo, nell’universo dei vivi, perché spettro o
ricordo, ma comunque morto, e nel petto nient’altro che il
vuoto. Quel vuoto misto a silenzio che lo terrorizza perché
gli ricorda di quanto l’oceano sia spietato.
E quello stesso oceano ora lo chiama. È soltanto un sadico,
perché dopo averlo ammazzato ora pretende che torni
nuovamente a immergersi nelle sue acque per svanire per sempre, andare
chissà dove.
Niente gli fa paura come il mare. A costo di rimanere a vagare sulla
spiaggia inascoltato da chiunque. Vedrà suo fratello
invecchiare, morire da solo, rinunciare a tutto quello che avrebbe
potuto avere. Ma no, lui non ci tornerà, nel mare.
Però poi arriva Shouyou. Dieci anni dopo, la stessa persona
per cui aveva una cotta quando è crepato in quel modo
così stupido. Shouyou lo vede. Shouyou lo sente. Shouyou lo
percepisce, gli fa credere che alla fine non sia proprio
così invisibile. Ma prima di sentire lui, sente suo
fratello. Sente la casa, la sua tristezza, entra in contatto con quel
brulicante ammasso di odio e atrocità che pulsa e si ritira.
Shouyou sa come portare la luce, nel buio. Shouyou sa come districare
le viscere annodate, per permettere all’ossigeno di fluire di
nuovo.
Atsumu però la vita di Shouyou la sta rovinando.
Perché sta addossando le sue paure, la sua tristezza, il suo
rimpianto, nel suo piccolo corpo che ancora scalpita di luce come un
passerotto. Non ne ha il diritto, non ce l’ha mai avuto. E
non potrà continuare a fuggire per sempre
dall’oceano che lo guarda, che lo esige, che con le onde si
tende verso i suoi piedi per portarlo con sé.
Il mare è troppo freddo, pensa. Non voglio toccarlo mai
più.
Però deve. Deve. Deve essere coraggioso.
Atsumu respira. Ancora, ancora, ancora, grande boccati d’aria
che però non sente, non ha bisogno dell’ossigeno.
Adesso deve andare da un’ultima persona.
*
Shouyou fissa il soffitto. Il suo soffitto, il soffitto sotto cui vive
da sempre e che non riconosce più: grigio, annacquato.
Shouyou trema, nonostante le quattro coperte pesanti. Sistemare le case
è il suo lavoro, eppure non ha la più pallida
idea di cosa fare con la sua, di cosa fare con se stesso.
Vorrebbe solo che tornasse il tepore, che la luce tornasse a indorare
le pareti.
‘’Atsumu?’’ chiama.
È scomparso di nuovo. Shouyou sa che si sente in colpa. Ma
vorrebbe dirgli che va tutto bene, che lui non c’entra nulla.
‘’Atsumu?’’ riprova.
Nessuno risponde. Il gelo penetra più a fondo.
Devo uscire da qui, pensa
Shouyou. Per prendere
aria. Pensare, ascoltare. Il mare.
Battendo i denti, preda di una febbre inesistente, Shouyou sguscia via
dal bozzolo stratificato di coperte. Camminare è una
tortura, come se avesse degli spini conficcati nelle ossa.
L’aria della sera, però, è una boccata
balsamica. I colori, la spiaggia, il mare, lo tranquillizzano. Il mare
è talmente vasto e immenso, che a Shouyou sembra come se i
suoi problemi si riversassero nelle sue acque. Il mare ti fa sentire
minuscolo, sì, ma anche più leggero. Non sei
niente, e in quanto niente non hai la responsabilità del
mondo sulle spalle.
Shouyou respira, passeggia in bilico sulla riva passo dopo passo, come
se stesse camminando su una corda, un equilibrista fra conchiglie e
orme cancellate l’istante seguente. Non ci sono gabbiani che
cantano, quella sera, solo nuvole scure, gravide di pioggia.
Trova Atsumu seduto sul pedalò. Dall’assenza di
stupore, Shouyou capisce che sotto sotto se lo aspettava.
‘’Sapevo che saresti venuto,’’
dice Atsumu, quando si siede vicino a lui. Shouyou annuisce, cupo.
Non gli piace il modo in cui Atsumu osserva il mare, i suoi occhi
cangianti riflettono una consapevolezza irreversibile.
‘’Sei scomparso,’’ dice
Shouyou. C’è un velato tono di accusa, nella sua
voce. E Shouyou lo sa che è immaturo, sa che davanti ha solo
il fantasma di un diciassettenne, ma sente quello che sta per accadere.
E non vuole.
‘’Non sono scomparso. Semplicemente non ci sono mai
stato, Shouyou.’’
Atsumu sorride. Incurva le labbra senza malizia. Shouyou rimane zitto,
gli occhi che pulsano. Il mare, placido, immobile, fa da testimone.
‘’Sai,’’ inizia Shouyou,
inciampando nella sua stessa lingua.
‘’Sai,’’ ripete annaspando,
l’aria che non basta. ‘’Non è
colpa tua. La casa, io, non… non è colpa tua. Non
so cosa sia successo. Ma posso risolverlo. Non è colpa
tua.’’
Sembra un disco rotto. Non
è colpa tua, non è colpa tua, non è
colpa tua. Le uniche parole che riesce a estrapolare da
quel groviglio contorto che traballa nella sua testa.
‘’Non è colpa tua.’’
‘’Non posso rimanere qui.’’
‘’Non è colpa tua.’’
‘’Non posso rimanere qui,
Shouyou,’’ ripete Atsumu. ‘’Lo
sai. Lo so che lo sai.’’
‘’Non puoi o non vuoi?’’
Atsumu non risponde.
‘’Il mare,’’ dice, e Shouyou
vede le onde specchiarsi nei suoi occhi. O forse sono fatti di onde, i
suoi occhi. ‘’Il mare mi fa ancora paura. Mi
accompagni per un pezzo?’’
Shouyou esita, si affanna alla ricerca di una soluzione, una via di
fuga, il cervello che ticchetta febbrile, infine annuisce e si alza. E
che dovrebbe fare? Rifiutarsi? Può forse permettersi di dire
‘no, non ti accompagno da nessuna parte, resta qui con
noi’?
Deglutisce, ricaccia indietro le lacrime, il grumo di saliva bollente
che gli infiamma la gola. Non ci riesce, e le lacrime traboccano.
Shouyou le lascia sgorgare. Prende la mano di Atsumu e insieme
camminano avanti, verso la sabbia bagnata, verso quel blu che non
è solo blu ma tutti i colori. C’è solo
una scia di orme a testimoniare il loro passaggio, la sua.
A pochi centimetri dall’acqua, Atsumu si ferma.
Non te ne andare, pensa.
Lascialo stare, il mare.
‘’Non avere paura,’’ dice
invece.
Atsumu annuisce. Stringe più forte la sua mano. A Shouyou
pare di percepire la forma affusolata delle sue dita per la prima
volta.
Atsumu è il primo a toccare l’acqua. Esitante,
immerge la punta del piede destro, e Shouyou lo segue
l’istante successivo.
‘’È tiepida,’’
osserva Atsumu, alienato. Shouyou vede lo stupore sbocciare sul suo
viso, seguito da sollievo. Entra con l’altro piede, avanza
finché l’acqua non gli arriva alle ginocchia.
Shouyou si addentra nel mare con lui. Ha ragione, pensa. L’acqua è
tiepida.
Atsumu lo guarda, gli rivolge il sorriso più sincero che
abbia mai fatto.
‘’Sarò un po’ smielato, ma
grazie, Shouyou.’’
‘’Per cosa?’’
‘’Per avermi fatto vivere di
nuovo.’’
Atsumu spalanca le braccia. Shouyou ci si tuffa dentro sconquassato dai
singhiozzi.
Datti un contegno,
pensa. Sei dieci anni
più grande, cazzo.
Ma non ci riesce. Piange a dirotto. Piange perché come
può trattenere un fantasma?
Vuole tornare indietro nel tempo. Vuole tornare indietro a quando era
vivo.
E forse è la suggestione, forse il mare si sente
misericordioso, quella notte, ma più Shouyou si stringe al
suo corpo, più gli pare di percepire una forma densa,
tangibile, fatta di carne fra le braccia - viva. Shouyou strofina il
viso contro il suo petto, e ode un rumore. Stupefatto, ci preme contro
l’orecchio.
Non è un battito, quanto piuttosto uno scroscio: lo
sciabordio armonioso delle onde. Shouyou percepisce distintamente il
rumore del mare, dentro le sue costole.
‘’Atsumu,’’ gli dice, le
lacrime che finalmente smettono di sgorgare. ‘’Tu
ce l’hai, un cuore.’’
Atsumu ridacchia. Shouyou sente le sue dita fra i capelli. Gli occhi
brillano come stelle.
‘’Non dimenticarti di me,
Shouyou.’’
Shouyou spalanca la bocca per ribattere - come potrebbe - ma
Atsumu china la nuca e lo bacia. Rapido, un istante che sa di salsedine.
‘’Non dirlo a ‘Samu che sennò
mi ammazza,’’ gli dice. ‘’Ciao
ciao, Shouyou.’’
Atsumu lascia le sue mani, e prima che Shouyou riesca a dire qualcosa,
scompare nel mare.
*
Shouyou si ritrova a camminare sulla spiaggia con i pantaloni grondanti
di acqua. È quasi l’alba. Non riesce a capire se
quel bagno notturno gli abbia fatto bene o se invece gli abbia solo
appesantito l’animo, ma non ha più tempo per
rimuginare sullo stato della propria casa. Deve farsi una doccia,
strofinare via il sale dalla pelle, e bere una tazza di
caffè forte. Quella mattina inizierà i lavori da
Osamu. E vuole fare più del proprio meglio. Vuole dare il
mille per cento di se stesso.
Ha la sensazione di aver perduto qualcosa di importante, non appena
uscito dall’acqua. Non ricorda né chi,
né cosa. La sua è solo una sensazione mesta che
aleggia priva di forma, sfocata, da qualche parte fra gli occhi e il
cuore. Si guarda indietro, ma vede solo una scia di orme: la sua.
Il mare dà, il mare prende.
*
Shouyou si sente un bugiardo. E Shouyou non è abituato a
sentirsi un bugiardo.
È solo che mentre dipinge le pareti di casa di Osamu, pensa
alle sue: grigie, logore. Si sente come se stesse mentendo.
Ma Osamu è così… sereno. Ha una luce
negli occhi che Shouyou non gli ha mai visto.
Qualunque cosa gli sia accaduta dieci anni fa - perché Osamu
non gliene ha mai parlato, né tantomeno Shouyou ha mai fatto
domande - deve averla affrontata, o quantomeno accettata.
C’è una speranza lucida che divampa nelle sue
iridi, e a Shouyou quel bagliore piace troppo. Non vuole opacizzarlo
con i suoi problemi. E poi Shouyou è sempre stato in grado
di risolversi da solo, è una questione di tempo.
Mentre dipinge lo stipite della stanza da letto, ha una specie di deja
vu. La notte, il mare di notte, la sensazione di aver dimenticato,
perduto per sempre, qualcosa di fondamentale, uno scarabocchio
indefinito che riaffiora nei meandri della sua mente. Linee a matita
cancellate, ma da qualche parte è rimasto il segno della
grafite sul foglio, un solco, una traccia invisibile. Poi la sensazione
sfugge, e Shouyou la perde.
Al suo posto, emerge impetuoso il senso di colpa: insomma, non si
è mai sentito di un Curacase che cura le case con la casa
ammalata, è un ossimoro che potrebbe farlo licenziare.
Quante volte poi si è vantato di essere il migliore, in
quella professione? È ridicolo.
Shouyou non credeva neanche che potesse mai accadere, una cosa del
genere. È sempre stato equilibrato nella gestione dei
sentimenti. Certo che prova tristezza, certo che ha delle ferite
nell’anima, ma il talento di Shouyou è la
repentinità con cui scova le consolazioni evitando che lo
sconforto lo sopraffagga. Non gli piace, la tristezza, e questo lo
spinge ad attivarsi per scacciarla, concentrandosi su ciò
che lo rende felice, su ciò che suscita sollievo. E invece
adesso Shouyou è disperato. E non capisce perché.
C’è quella cosa strana, nel suo corpo, un gonfiore
estraneo e pesante come piombo che lo consuma. Vorrebbe strapparselo di
dosso, ma non sa dov’è.
Vorrebbe buttarsi nel letto e rimanerci, senza alzarsi più.
Però non può. Non può
perché Osamu ha aspettato dieci anni quel momento.
Perciò Shouyou rimuove l’umidità in
maniera scrupolosa, livella la pittura, sostituisce le tavole del
parquet gonfie d’acqua e lucida quelle che non hanno bisogno
di essere rimpiazzate.
Ben oltre il tramonto, Osamu gli poggia una mano sulla spalla.
‘’Ehi,’’ lo chiama. Shouyou si
volta a guardarlo con un sorriso.
‘’Sono le otto,’’ osserva
Osamu. ‘’Stai lavorando da stamattina,
Shouyou.’’
‘’Ho fatto pausa pranzo,’’
civetta l’altro. ‘’Davvero, sto
beniss-’’
‘’No.’’ Osamu lo interrompe,
categorico. ‘’Continui domani, d’accordo?
Si vede lontano un miglio che sei distrutto.’’
In effetti, Shouyou è davvero distrutto. Così
distrutto che non ha neanche la forza di ribattere. Ripone il pennello
nel secchio di vernice e lo segue in salone, un po’ deluso da
se stesso. Avrebbe voluto finire almeno il bagno, invece è
riuscito a sistemare solo la camera da letto.
‘’Grazie,’’ dice Osamu.
‘’È… è tutto
splendido. Grazie,'' ripete. ''Grazie.''
‘’Ti giuro che se mi ringrazi un’altra
volta…’’
‘’Cosa?’’ lo incalza Osamu, in
un ghigno malizioso. ‘’Che mi
fai?’’
Shouyou ricambia il sorriso vispo, Osamu si avvicina e gli avvolge un
braccio intorno alla schiena. Con l’altra mano inizia a
giocare con i suoi capelli, ad accarezzargli il collo, ed è
subito pelle d’oca. Poi Osamu lo bacia. Shouyou lascia cadere
il secchio con un tonfo e si schiaccia contro il muro per evitare che
le gambe crollino come gelatina.
Cristo. Shouyou
credeva di baciare bene, ma contro Osamu non c’è
proprio partita. O forse è perché gli piace da
impazzire.
‘’Andiamo a casa?’’ gli domanda
l’altro, il viso affondato nel suo collo.
‘’Ho fame. Di te e di cibo.’’
Shouyou ride, un po’ intristito. Dovrà inventare
una scusa, perché Osamu non può assolutamente
vedere le condizioni in cui si trova casa sua,
perciò…
Perciò niente. Le viscere si strizzano, e Shouyou sibila un ‘cazzo’,
mollandosi una sberla sulla fronte. Pensa alla vernice fresca. Pensa
che Osamu non può dormire nella sua stanza, quella sera. E
soprattutto ricorda di averlo invitato a stare da lui, almeno
finché non avrebbe terminato i lavori.
‘’Mi dispiace,’’ balbetta
Shouyou, sotto il suo sguardo preoccupato. ‘’Non
puoi stare da me oggi. Io… dobbiamo andare in un hotel o
qualcosa del genere. Lo so che ti avevo invitato, però
è successo… è successa una
cosa.’’
Osamu inarca le sopracciglia sorpreso, ma non si scompone.
‘’D’accordo,’’ gli
dice. ‘’Nessun problema,
Shouyou.’’
Shouyou annuisce. Sente gli occhi pungere. Non sa perché
cazzo stia per mettersi a piangere, ma sente qualcosa che monta dentro
la gola, e non è sicuro di poterlo reprimere.
‘’Non sei obbligato a dirmi
nulla,’’ continua Osamu.
‘’Davvero. Però vorrei aiutarti.
Lasciamelo fare.’’
Osamu capisce. Capisce quello che sente anche se non cura le case e per
dieci anni non ha fatto altro che escludere le persone dalla sua vita,
compreso se stesso. Lo abbraccia stretto, e delle volte, per quanto
banale possa sembrare, abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci tenga
stretti e che non ci faccia cadere.
Shouyou si sente un pulcino bagnato e infreddolito, si sente uno
stupido, si sente meschino, perché non può
permettersi di stare male, di mostrarsi debole, non quando non
c’è alcun motivo dietro.
‘’Magari il motivo
c’è,’’ gli sussurra Osamu
all’orecchio, ‘’e sei tu che non lo
riconosci. E poi non deve esserci sempre una spiegazione a tutto,
Shouyou. Se sei triste sei triste, punto e basta. Non devi cercare una
giustificazione che ti dia il diritto di sentirti così. Non
dipende da te, e magari non dipende neanche da quello che ti circonda.
Sei umano, sei vivo, succede. Ma ti prego, non tenerti tutto
dentro.’’
Shouyou si fida ciecamente di Osamu. Quindi, con gli occhi tremolanti
come due pozzanghere martoriate dalla pioggia, butta fuori tutto.
*
Shouyou non sa per quanto tempo piange. Forse qualche minuto, forse ore
intere. A un certo punto comunque smette, ed escono dalla casa.
L’aria notturna mitiga un po’ quel senso di
indolenza.
Shouyou guarda il mare. Si sente meglio, si sente peggio, non capisce.
‘’Dammi le chiavi,’’ dice
Osamu. ‘’Guido io.’’
Osamu guida fino a casa sua. Lo aiuta a scaricare gli attrezzi, copre
la vernice fresca che lascia nello stanzino esterno, prima di entrare
nel piccolo salone del suo monolocale. Non commenta il grigiore della
sua casa, non commenta l’odore di tristezza che impregna le
pareti. Shouyou si sfila scarpe e giacca, e come uno zombie va nella
sua stanza, e si butta sul letto a faccia in giù.
È stanco, così stanco...
‘’Preparo da mangiare.’’
Shouyou scuote la testa. ‘’La cucina è
inutilizzabile. Mi dispiace, davv-’’
‘’Non ti preoccupare, qualcosa mi
invento.’’
Shouyou annuisce. Neanche ricorda l’ultima volta in cui
è andato a fare la spesa. Ha avuto poco appetito, in quei
giorni. Osamu dovrà essere particolarmente creativo per
riuscire a tirare fuori dal frigo qualcosa di commestibile.
Dopo cinque minuti, Osamu si sdraia sul letto accanto a lui poggiandosi
sulle cosce un vassoio con dei panini, e una bottiglia
d’acqua.
‘’Pane e prosciutto,’’ dice.
‘’C’era letteralmente solo questo. Ma
posso andare a prendere qualcosa da asporto, se ti
va.’’
Shouyou, mentre lo guarda meravigliato, pensa che è
bellissimo avere qualcuno che si prenda cura di te. Perciò
si siede, raddrizza la schiena, afferra un panino e lo addenta. Il suo
stomaco brontola.
‘’Come fai a rendere squisito anche un panino col
prosciutto? Ci hai messo qualche ingrediente
segreto?’’
‘’No, ti giuro,’’ ride Osamu,
sputando briciole. ‘’C’è solo
il prosciutto. E un filo d’olio.’’
‘’Ma è troppo buono. Non ti
credo.’’
‘’Forse hai solo troppa fame,
Shouyou.’’
E forse è vero. Shouyou divora tre panini e si sente meglio.
Incredibile quanto la pancia piena possa fare la differenza.
‘’Osamu-san,’’ lo chiama
Shouyou. ‘’Ti piacciono i
porcospini?’’
Osamu esita, poi esala via una risata.
‘’Perché i
porcospini?’’
‘’Non lo so, forse li ho sognati. Ti
piacciono?’’
‘’Mi piacciono,’’ risponde
Osamu. ‘’Pungono,
però.’’
‘’Però ti
piacciono.’’
‘’Sì, mi piacciono.’’
‘’Anche se pungono?’’
‘’Anche se pungono.’’
Shouyou si volta verso di lui. Gli si rannicchia contro, guardandolo
fisso. Osamu gli accarezza il naso.
‘’Ti posso dire una cosa?’’
‘’Puoi.’’
Shouyou inspira. Pensa al mare, alla vita. ‘’Io
credo che tu debba aprirti un ristorante. Sul
serio.’’
Osamu smette di accarezzarlo, poi ricomincia.
‘’Ci sto pensando.’’
‘’Ci stai pensando davvero?’’
‘’Davvero davvero,’’ risponde
l’altro. ‘’Venerdì sono andato
a vedere dei locali in affitto. Alcuni erano dei buchi, ma altri erano
decenti. E uno era proprio bello.’’
Shouyou sorride. Il primo sorriso vero degli ultimi giorni.
‘’Meno male,’’ bisbiglia.
‘’Sono felice per te, davvero.’’
Osamu lo bacia. Lo bacia forte, gli stringe i polsi, Shouyou si
scioglie nella sua bocca.
‘’Non hai nessuna intenzione di farmi dormire,
vero?’’
Osamu gli sorride addosso.
‘’Certo che puoi dormire. Ti perderai il
più bello, però.’’
Shouyou gli conficca le unghie nella schiena e pensa che non ne
avrà mai abbastanza.
*
Non appena si desta, prima ancora di aprire le palpebre, Shouyou sa che
è tardissimo. Lo sente dentro, ha quell’orologio
che oramai si è fuso alla sua carne, dopo anni di routine
quotidiana rimasta invariata.
Il primo istinto è quello di scattare in piedi, controllare
l’orologio, correre in bagno a lavarsi, vestirsi alla
velocità della luce.
La verità però è che rimane folgorato
dall’odore di marmellata che aleggia nell’aria. Non
una marmellata qualunque, quella di fragole. Marmellata di fragole e
focaccine.
Shouyou dal letto si alza scattante comunque, ma ignora il telefono e
va direttamente in cucina, i piedi scalzi che non fanno rumore. Osamu
è in piedi con un vassoio di focaccine fumanti, le dita
sporche di impasto e marmellata.
‘’Ehi,’’ gli dice. Shouyou ha
la bava alla bocca. Biascica una parvenza di buongiorno, poi indica il
vassoio con l’indice tremante.
‘’Ne posso mangiare una?’’
Osamu sgrana gli occhi, poi scoppia a ridere.
‘’Sì, certo, sono per
te.’’
Shouyou sta seriamente per mettersi a piangere, di nuovo. Se ne ficca
in bocca una senza avere la più pallida idea di cosa sia la
decenza, e la marmellata dolce gli esplode sotto al palato, sulla punta
della lingua. Quello è il segreto della felicità,
un ripieno di vita, di gioia, di estasi pura.
‘’Oh miofdio,’’ biascica.
‘’È la cosa pfiù squifita che
abbia mai mangiato.’’
‘’Sono più buone di quelle che compri
tu, vero?’’
Shouyou annuisce vigorosamente con gli occhi sgranati. Poi si guarda
intorno, e per poco la focaccina non gli sfugge dalle labbra. La cucina
è diversa. Non è tornata luminosa come prima, non
è ancora guarita, ma è meno verdognola.
‘’Wow,’’ esclama Shouyou, poi
si ricorda di deglutire. ‘’Va decisamente meglio di
ieri.’’
‘’Forse avevi solo bisogno di qualcuno che ti
scaldasse un po’,’’ dice Osamu,
malizioso. Dopo torna serio. ‘’Ti preoccupi sempre
per gli altri, Shouyou, e mai per te stesso.’’
‘’O forse avevo bisogno di
te,’’ replica Shouyou. Osamu arrossisce,
però sorride grato.
*
Dopo colazione vanno in spiaggia. Camminano fino al pedalò
rosso, coperto da un sottile velo di sabbia. Ci si siedono sopra.
Shouyou intravede una conchiglia, sepolta per metà. Allunga
il braccio e la raccoglie, la esamina, è bella, chiude gli
occhi e se la porta all’orecchio.
Il rumore del mare. Gli fa pensare a un cuore che batte, anche se non
sa bene il perché.
‘’Odio il mare,’’ dice Osamu.
Shouyou spalanca gli occhi. Si volta a guardarlo stupito.
‘’Non ti ho mai detto cosa mi è
successo,’’ continua. ‘’Dieci
anni fa.’’
‘’Non devi parlarne se non ti va di
farlo,’’ replica prontamente Shouyou.
‘’Ma non credo faccia bene tenersi le cose dentro.
Me l’hai detto tu.’’
Silenzio. Poi Osamu sorride.
‘’Avevo un fratello. Ho un
fratello,’’ spiega.
‘’È morto annegato dieci anni fa. Si
chiama Atsumu.’’
Shouyou schiude la bocca. Un bagliore labile nascosto nella sua mente
improvvisamente si trasforma, diventa accecante. La tristezza che lo
soffoca prende forma, diventa concreta, trova un nome. Shouyou vede
Atsumu, Atsumu che di anni ne ha diciassette, Atsumu seduto accanto a
lui, Atsumu che ride, Atsumu che urla, invisibile, inascoltato, Atsumu
con il cuore a forma di mare.
Shouyou ricorda.
‘’Vuoi parlarmi di lui?’’
Osamu annuisce.
Il mare prende. Il mare dà.
*
Settima
lezione:
il mare - il mare -
è un vecchio vecchissimo ladro, un vecchio vecchissimo
benefattore, un vecchio vecchissimo tesoriere.
Custodisce gioielli
perduti, ruba vite e speranze, regala conchiglie e storie.
Delle volte, persino
fantasmi.
Delle volte, persino
l’amore.
*
Note di Cora:
Intanto, io vi ringrazio per essere arrivati sin qui. Davvero, grazie
per aver letto quasi ventimila parole, spero che la storia sia stata
piacevole da leggere. Detto ciò, potete chiudere, nelle
prossime righe non dirò niente di importante, semplicemente
devo sfogarmi sulle difficoltà pervenute nel tentativo di
concludere questa ff e quindi lo farò. Intanto
però GRAZIE! Grazie. ♥
Ci ho messo.... trentasei giorni per finire questa cosa. È
stato un inferno. Tra l'altro sto revisionando da stamattina alle otto,
quindi ehm perdonate eventuali deliri ma giuro che se avessi preso a
morsi funghetti allucinogeni probabilmente starei meglio. COMUNQUE. Io
volevo solo scusarmi per i buchi di trama di una portata veramente
imbarazzante, l'argomento che proprio è rimasto nell'etere
non pervenuto è stato l'evolversi del rapporto fra Osamu e
Shouyou che io ho banalmente giustificato con due righe in un POV di
Atsumu in cui dice che si sono visti più volte. Fine. Questo
è stato il massimo del mio sacrificio, ma a mia discolpa
posso dire che non ho mai scritto niente di tanto lungo e che di nuovo,
il tempo davvero esagerato che ho impiegato per ''''concludere''''
questa storia mi ha proprio impedito di soffermarmi e aggiungere altri
squarci sulla loro storia, perchè ero proprio tipo: BASTA,
BASTA, QUANDO FINISCI, TI PREGO FINISCI. Insomma, un po' esaurita,
ecco. Quindi mi scuso. Lo stesso identico discorso vale per Atsumu e
Shouyou. Avrei voluto scrivere una roba strappalacrime, ma
come detto sopra ero troppo esausta per approfondire il loro rapporto
(su cui si basa tutta la storia, quindi la mia non è che sia
stata proprio una scelta brillante di perspicacia, ma ehi, tra 33 giorni
è Natale).
Poi... AH, sì, mi scuso per incongruenze e soprattutto per
ripetizioni (lessicali, sì, ma intendo proprio concettuali).
Avendo sfruttato un arco temporale tanto vasto, ci sono argomenti che
magari ho trattato il giorno uno e ho ritrattato il giorno quindici
perché mi ero dimenticata di averli già
affrontati. Nel senso, se 'sta storia è una palla tediosa e
ripetitiva, beh, mi dispiace. (ma ehi,
di nuovo, fra poco è Natale....)
Va bene, ho finito. Grazie il doppio per esservi letti pure questo
sfogo non richiesto. Buone feste e auguri Deb!!! Oggi è il
compleanno!!!! Non so neanche se leggerai mai questa storia ma
vabbè auguri!!! È il tuo compleanno!!!! AUGURI! E
come sempre grazie a time_wings che davvero si sorbisce tutti i miei
scleri sulle fanfiction (e non).
Okay, grazie davvero a tutt* voi. Grazie. ♥
AH NO. Grazie pure a Oceano mare di Baricco, lettura che è
arrivata al momento giusto una settimana fa e che mi ha spinto a
continuare questa storia.
Lascio il link della playlist che ho usato a ripetizione per terminare
questa cosa.
Grazie di nuovo!!!
See ya! ♥
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