Capitolo
IX
Tutto
l’equipaggio della Scorpio, compresi Ioan e Davven, era
stranito da quella
quiete. Solitamente, il porto di Broken Henge era un transitare
continuo di
barche da pesca e di navi mercantili, sporadicamente un bastimento da
guerra
faceva capolino da quelle parti. Quella piccola isola di forma
circolare, che
presentava una lunga fenditura a Nord, situata a due giorni di
navigazione
dalle coste a Sud del continente di Thauras, era uno strategico punto
per
approvvigionarsi di ulteriori scorte, prima di intraprendere la
navigazione per
il mare aperto; inoltre, godeva di uno status giuridico molto
particolare,
poiché era considerata un porto franco. La doppiarono
diverse volte per cercare
di capire cosa fosse accaduto e se vi fosse sicuro approdare, ma non si
riusciva
a scorgere nessun movimento dal ponte della nave.
Ioan
vide Davven
confabulare, per diverso tempo, con il capitano della nave; il forte
vento gli
impediva di udire cosa i due si stessero dicendo. Vide Azmir fare un
cenno
particolare al suo equipaggio; l’aveva visto fare diverse
volte durante quel
periodo di navigazione: le manovre di avvicinamento all’isola
stavano per avere
inizio. Osservò il marinaio, che lo aveva aiutato quando si
era accidentalmente
ubriacato, prendere un peso di piombo collegato ad una fune,
comunemente
chiamata sagola, che aveva diversi nodi tutti alla stessa distanza;
siccome era
sempre lui ad usare quello strumento chiamato scandaglio, si era preso
l’appellativo di Sagola.
Il
marinaio
cominciò a scandagliare il fondale, in modo da non
permettere alla nave di
lesionare la chiglia o di incagliarsi in qualche secca. Il navigatore
seguiva
attentamente le informazioni che Sagola gli passava. Riuscirono ad
attraccare
alla banchina del molo agevolmente, ad aspettarli non c’era
nessuno.
Nonostante
le
insistenze di Azmir, Davven non volle sentire ragioni: soltanto lui e
Ioan si
sarebbero addentrati nella cittadella di Syras, non avrebbe permesso a
nessun
altro di seguirli.
«Sei
pronto?»
«Sì,
ho preso la
spada e una sacca con dei medicamenti e degli attrezzi di emergenza,
nel caso
ci dovesse succedere qualcosa.»
«Onestamente?
Non
credo. Probabilmente saremo solo noi due nella cittadina.»
«Ed
è normale?»
«No.
Questo posto
dovrebbe brulicare di persone, invece è completamente
deserta. La cosa mi
preoccupa, ma non temo per le nostre vite.»
«Dici?»
«Sì!
Sembri
deluso, perché?»
«Avevo
voglia di
menare un po’ le mani, temo di essere fuori
allenamento.»
«Menare
le mani?
Ma come diavolo parli? Comunque, non ti preoccupare, fra qualche giorno
potrai
“menarle” in abbondanza, anzi, mi implorerai di
smettere.»
«Cosa
vuoi dire?»
«In
quel momento
ti sarà tutto più chiaro, ora andiamo.»
I due
uomini
percorsero il perimetro delle mura ciclopiche della cittadella di
Syras, le
quali avevano un andamento ellittico ed un’altezza compresa
tra i cinque e i
sei metri; richiudevano una superficie di circa diecimila metri quadri.
Quattro
portali permettevano l’accesso alla città. Solo
quello che si affacciava verso il
porto, presso cui avevano attraccato, era accessibile, a differenza di
tutti
gli altri i quali erano bloccati dall’interno.
«Davven,
da
quanto manchi da questo posto?»
«Dalla
primavera
di un paio d’anni fa.»
«Ma
è sempre
stato così?»
«No.
Nonostante
le modeste dimensioni, Syras era una cittadina molto trafficata, in
quanto
porto franco. Se avessi avuto la necessità di smerciare un
prodotto, ti sarebbe
bastato venire qui.»
«Deduco
che anche
il contrabbando era fiorente.»
«Esattamente…»
«E
cosa può essere
successo?»
«Non
saprei, per
scoprirlo bisogna entrare. Sei pronto?» Vide Ioan fare un
cenno positivo con la
testa.
Ciò
che si parò
dinnanzi ai loro occhi li lasciò completamente esterrefatti.
L’intero villaggio
era stato quasi completamente raso al suolo; le uniche attestazioni che
testimoniavano la presenza di un insediamento umano, erano gli
scheletri
carbonizzati delle case e degli edifici pubblici. Cominciarono a
percorrere la
via che li avrebbe portati verso il centro dell’abitato.
Ovunque si posasse il
loro sguardo, l’unica cosa che risaltava era la morte,
accompagnata dalla
distruzione. Furono attirati da uno strano cumulo di ossa, che si
ergeva in
quella che doveva essere stata una casa di medie dimensioni. Si
avvicinarono
con circospezione per vedere cosa fosse. Quando riuscirono a mettere a
fuoco
ciò che avevano davanti a loro, Ioan rabbrividì.
«È
un cadavere
carbonizzato.» Disse.
«Già,
di un
anziano, per la precisione.»
«Come
puoi
dirlo?»
«Osserva
bene il
bacino, è più stretto rispetto a quello di una
donna; guarda bene l’angolo
sotto pubico, è molto più chiuso rispetto a
quello di sesso femminile. Per
l’età, basta guardare le suture della calotta
cranica» e prese il cranio in
mano «Esaminale per bene, come ti sembrano?»
«Quasi
saldate.»
«Esattamente.
Ottimo spirito di osservazione. In base a questo, sono riuscito a
dedurre che
fosse una persona in età avanzata. Mio dio, deve aver fatto
una fine orribile!
Guarda il resto dello scheletro, dev’essere stato colpito con
violenza, poi
deve essere caduto su questo focolare e sarà morto bruciato
vivo. Guarda le
coste, sono molto più bruciate rispetto al resto delle altre
ossa.»
«Come
fai a
sapere tutte queste cose?» Chiese incuriosito Ioan.
«Ho
servito per
molti anni nell’esercito di Atlas come medico. Non sono mai
stato un grande
combattente; certo me la cavo, ma non resisterei molto a lungo in uno
scontro,
in compenso sono molto abile con le arti curative e
alchemiche.»
«Mi
insegnerai
qualcosa?»
«Tutto
quello che
posso, a tempo debito però, ora andiamo.»
Si
avviarono
verso quello che doveva essere l’edificio più
grande del paese, ovvero il
tempio. Mentre avanzavano, la morte e la distruzione aumentavano.
Sempre più
corpi carbonizzati si incontravano sulla via, sempre più
desolazione. La
visione che sconvolse più Ioan fu lo scheletro di un bambino
che, a detta di
Davven, non doveva avere più di sei mesi. Rimase disgustato
nel constatare cosa
potesse fare la violenza cieca dell’uomo.
Quando
arrivarono
nei pressi dello scheletro di quello che doveva essere stato il tempio
cittadino, il cumulo di ossa che trovarono fu veramente impressionante.
Erano
accatastate una sopra le altre, ulteriori erano disperse intorno a
quell’area.
«E
così è qui che
hanno compiuto la mattanza. Hanno ucciso qualsiasi cosa gli si parasse
davanti;
poi hanno radunato qui il resto della popolazione e hanno trucidato
tutti, per
poi dare fuoco all’intero villaggio. Chi diamine
può aver fatto una cosa del
genere?» Mormorò.
«Davven,
vieni a
vedere qui, c’è un altro cumulo di resti
umani!»
Si
avviò nella
parte retrostante di quello che una volta doveva essere stato
l’abside del
tempio, la cui parete lesionata in più punti e prossima al
crollo, resisteva
ancora stoicamente. Il cumulo di ossa era impressionante, anche se non
era
paragonabile a quello precedente. Lo esaminò attentamente.
«No
Ioan, queste
sono ossa animali. Mio dio, neanche loro si sono salvati da questo
scempio.»
Ossa di cani, gatti, maiali, capre, agnelli e cavalli, tutti
accatastati lì.
Osservò
scrupolosamente quelli che dovevano essere i resti di un agnellino,
dalle
dimensioni non doveva avere più di qualche mese.
Esaminò con attenzione tutto
il terreno circostante, alla ricerca di altri indizi. Quando ebbe
finito, fu
capace di teorizzare quando fosse accaduto quel massacro.
«Tutto
questo
dev’essere avvenuto tra l’estate e
l’autunno di due anni fa.»
«Come
fai a dirlo
con tanta certezza?»
«Queste.»
E gli
mostrò una serie di scheletri di agnelli di
un’età compresa tra i tre ed i sei
mesi. «Gli agnelli nascono in primavera; considerata
l’età di questi resti ed
il loro stato di decomposizione, il tutto deve essere avvenuto
all’incirca due
anni fa, in un periodo compreso tra l’inizio
dell’estate e l’autunno.»
«Sei
riuscito a
ricavare tutte queste informazioni da delle semplici ossa?»
«Nulla
è semplice
in natura, tienilo sempre bene a mente Ioan. Ora andiamo.»
Ripassarono
dall’abside, lo sguardo di Ioan fu attratto da uno strano
baluginio, che
proveniva da quello che una volta doveva essere stato un altare. Smosse
il
leggero strato di cenere che ricopriva l’oggetto. Era una
fibbia in argento, a
forma di giglio.
Stava
per
prenderla, ma Davven fu più lesto. Lo vide osservarla a
lungo; poi, la sua
espressione in volto si fece cupa.
«Dobbiamo
andarcene subito di qui.» Esordì.
«Cosa
succede?»
«Non
lo so, per
questo dobbiamo andare via. Ho molte domande da porre e il tempo
stringe.
Inoltre, è giunto il momento d’iniziare il tuo
allenamento.»
La
nave era
ancorata alla fonda, Azmir si era rifiutato categoricamente di
proseguire la
navigazione durante le ore notturne, anche se il loro obiettivo non era
molto
distante. Non aveva voluto sentire ragioni. Semplicemente non riteneva
utile e
pratico proseguire; secondo la sua opinione sarebbe stato uno spreco di
energie
inutili, molto meglio aspettare la mattina seguente, poiché
la brezza di mare
li avrebbe dolcemente sospinti verso il loro obiettivo.
Ioan
non riusciva
a prendere sonno quella sera. Nonostante fossero passate più
di ventiquattro
ore, non riusciva a ricacciare in un angolo della sua mente le immagini
di
distruzione e morte a cui aveva assistito. Era abituato a veder calare
la falce
del triste mietitore, ma non in quel modo; lo scheletro del bambino di
appena
sei mesi lo aveva pesantemente sconvolto, continuava a chiedersi chi
fosse
capace di una barbarie di quel genere.
Salì
sul ponte
per prendere una boccata d’aria, magari l’aria
fresca della notte lo avrebbe
aiutato a schiarirsi le idee. Gettò uno sguardo verso il
cielo trapunto di
stelle, quando notò, con la coda dell’occhio, un
bagliore provenire dalla sua
sinistra. Si girò a guardare esterrefatto quello strano
fenomeno.
«Incredibile,
vero?»
«Davven!»
«Anche
tu non
riesci a prendere sonno?»
«No.»
«Cosa
ti turba?»
«Syras…quel
massacro perpetrato nei confronti di quelle persone innocenti,
perché?»
«Fidati,
lo
scopriremo.»
«Pensi
che a Giz
troveremo una risposta alle nostre domande?»
«È
probabile,
dopotutto è la capitale del regno di Niv.»
«Lo
spero.»
«Permetti
una
domanda?»
«Certo.»
«Come
mai vedere
certe cose ti ha sconvolto tanto? Sei un combattente, tu stesso hai
ucciso…»
«Ma
non in quel
modo! Ho ucciso per difendere la mia vita, non per il gusto di farlo!
Non
ucciderei mai un bambino.» Rispose pieno di rabbia Ioan. Vide
Davven sorridere.
«Perché quel ghigno compiaciuto sulla
faccia?»
«Perché,
nonostante tutto, sei una persona buona. Comunque, ho visto che hai
notato quel
bagliore.» Indicò il fascio di luce nel cielo.
«Vuoi sapere cos’è?»
«Sì.»
«È
la luce del
faro del porto di Giz.»
«Stai
scherzando!?»
«Nient’affatto.»
«Ma
siamo ad
oltre 22 miglia dalla costa, non può essere
possibile!»
«Dici?
Domani
mattina lo vedrai con i tuoi stessi occhi e mi darai ragione. Ora va a
dormire,
sarà una lunga giornata.»
Davven
aveva
maledettamente ragione, quel faro era qualcosa di straordinario. Il
corpo più
in basso aveva una forma ettagonale, a cui si sovrapponeva uno
pentagonale, più
in alto ancora una costruzione cilindrica, a cui si sovrapponeva una
stella
bronzea a sette punte. L’altezza doveva sfiorare
all’incirca i centocinquanta
metri.
«Davven»
sussurrò
«non dubiterò mai più delle tue
parole.» Vide l’uomo sorridere.
«Stammi
vicino
quando scendiamo dalla nave, Giz è una città
enorme, con oltre due milioni di
abitanti, perdersi è facile.»
Se
l’ingresso
monumentale della città, un portale con due fornici
denominato la porta
dell’eliodromo, era sbalorditivo per la ricchezza decorativa,
il loro
obiettivo, ovvero un tempio a pianta circolare, lo lasciò
letteralmente senza
parole. Nessun edificio di Abis era minimamente paragonabile a quello,
sarebbe
sembrato una stalla a confronto.
«Resta
qui, ti
dico io quando entrare.» Attese lì diversi minuti
e nel mentre osservò con
molto interesse il ciclo musivo del periptero. Perse la cognizione del
tempo,
solo uno strattone del suo compagno di viaggio lo riportò
alla realtà.
Seguì
Davven
all’interno dell’edificio sacro e rimase senza
fiato nel vedere la scultura
crisoelefantina illuminata dal fascio di luce, che entrava dall’oculum della cupola.
Meraviglia, pura meraviglia, non c’era
nessun’altra parola per descrivere quello che stava
osservando.
«Allora,
capo dei sacerdoti di Thamir, hai finito di fare il
cascamorto con le ragazzine?»
Il
sacerdote si
voltò stupito nel sentire quella voce.
«Davven?!»
«Adda,
amico mio,
da quanto tempo!» E lo abbracciò.
«Mio
dio, due
lunghissimi anni! Finalmente sei qui! Chi è questo bel
giovane accanto a te?»
«Il
motivo per
cui me ne sono andato, finalmente la mia ricerca è
conclusa.»
«Oh,
capisco. Gli
hai accennato qualcosa?»
«No,
ho preferito
portarlo prima in questo luogo.»
«Cosa
dovresti
dirmi?» S’intromise Ioan.
«Seguitemi
giù
nelle cripte, non è saggio rimanere qui.» Disse
Adda.
Ioan seguì i due
uomini che facevano strada, gettò lo sguardo alla statua
un’ultima volta, prima
che le tenebre lo inghiottissero.
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