Storia
partecipante alle seguenti iniziative: 'regali di inchiostro fra i
tavoli del pub', organizzata dal gruppo facebook 'L'angolo di Madama
Rosmerta', e 'il calendario dell'avvento' organizzata da Coraline sul
forum di Feriscelapenna, con il prompt 'dall’altra arte dello
specchio'.
A Gaia Bessie.
Altrove
Erouc li amotlov li
ottelfirnon
Dieci minuti al giorno.
È il tempo che si concedono Sugawara e Daichi davanti allo
Specchio delle Brame celato nella Stanza delle Necessità,
una parentesi fittizia in cui guardano la felicità senza
viverla davvero. Ma quel desiderio recondito, quella chimera che
è miraggio, disperazione e speranza, li aiuta a ricordare
perché combattono, perché ogni giorno si
svegliano e impugnano la bacchetta invece di ingollare una fiala di
distillato di morte vivente, o di lanciarsi direttamente dalla torre
dei Grifondoro al settimo piano. Loro si ritrovano, nel loro riflesso.
Si riconoscono, in quei contorni, in quella sagoma di corpi, nella
curva delle iridi iniettate di sangue e stanchezza e dolore - quanto, quanto dolore.
È un monito che dice: esistete, bramate, perciò
siete. E allora stringete i denti e resistete.
Un giorno Sugawara domanda a Daichi che cosa vede, dall'altra parte.
''La fine della guerra,'' risponde lui, senza esitare. ''E tu?''
''Pure,'' risponde Sugawara con la medesima immediatezza, il medesimo
sorriso amaro, la medesima voce priva di tremito, una bugia che gli
sfugge dalle labbra come aria arroventata.
È una bugia inutile, comunque. Sugawara mente, Daichi lo sa.
Sugawara sa che Daichi lo sa, si conoscono da quando hanno undici anni,
hanno comprato la loro bacchetta insieme, non ricordano più
neanche cosa significhi avere dei segreti. Ma tanto che importa? La
guerra dovranno combatterla comunque, bugie o no. Perciò
Sugawara mente per il gusto di mentire, mente per abitudine, mente
perché tanto Daichi capirà sempre la
verità, pure se Sugawara smettesse di parlare.
Daichi gli accarezza la testa. ''Non rimanerci troppo, qui davanti.''
Sugawara annuisce. Lo sa, certo che lo sa, altrimenti giungerebbe la
follia, rovinerebbe su di lui come una valanga, verrebbe risucchiato da
un’utopia impalpabile e velata - ma d’altronde
oramai tutto è velato, velato di lacrime, velato di sangue,
velato di morte. E in fondo quelli sono solo dieci minuti, dieci minuti
anche quando di ore ne passano tre, quattro, cinque, tutta la notte.
Dieci minuti che Sugawara sottrae alla realtà torbida e
cupa, dieci minuti al giorno che sanno di miele sulle labbra, miele che
è anche un po’ veleno, il distillato che non ha il
coraggio di bere, dieci minuti al giorno di scorci azzurri e sereni
dell’anima che però sono impalpabili.
Sugawara guarda lo Specchio, e dall'altra parte non vede la fine della
guerra.
Vede la neve.
Vede Shimizu.
*
A Shimizu l'argento piaceva. Shimizu aveva sempre detto che preferiva i
colori della sua casa, i colori dei Serpeverde, a quelli rosso e oro
dei Grifondoro. Sugawara rideva e allora le prestava la sua sciarpa,
l'avvolgeva intorno al suo collo sottile e le labbra di Shimizu si
incurvavano in un sorriso grato. Poi se la tirava su fino al naso,
socchiudeva gli occhi contenta e mormorava grazie. Quel grazie rimaneva
a scaldarsi nelle pieghe delicate della lana, acciambellato come un
gatto fra cuscini.
Poi andavano a lezione, al campo da Quidditch, a prendere una
Burrobirra ai Tre manici di scopa con Daichi e Asahi, sgattaiolavano la
notte fra scale e corridoi incantati, la torre di Astronomia su cui
potevano ammirare un cielo punteggiato di stelle che prometteva una
libertà in cui Shimizu non credeva, e un’amore che
Sugawara percepiva alla sua destra.
A Shimizu piacevano il verde e l'argento, ma Sugawara la trovava
splendida con i colori caldi. Sugawara in realtà la trovava
splendida sempre, e l'avrebbe trovata splendida con indosso qualunque
cosa.
Non con il marchio nero, però. Quello non le stava bene.
Quello era sbagliato.
Eppure c'era. Era lì, un serpente che si contorceva famelico
e minaccioso sul suo avambraccio delicato, verso il polso esile, un
sibilo e un attorcigliarsi di inchiostro indelebile, oscuro,
lancinante. Sembrava che glielo avessero appiccicato addosso, cucito
con forza, perché era innaturale, era impossibile,
era…
''È uno scherzo,'' le aveva detto Sugawara ridendo. ''Stai
scherzando. È un incantesimo di Illusione, mi hai messo
qualcosa nel succo di zucca. O forse sto sognando.''
Shimizu aveva scosso la testa, in diniego. Sugawara lo sapeva, che
Shimizu non scherzava mai. Non che non avesse senso
dell’umorismo, semplicemente le sue labbra erano incapaci di
pronunciare falsità, non trovava un senso nel dire bugie.
Perché sprecare fiato? Meglio il silenzio, a quel punto.
''No,'' aveva risposto infatti. ''È tutto vero. E tu non lo
dirai a nessuno.''
Non era una domanda, la sua. Né un’implorazione,
non lo stava supplicando di mantenere il segreto. Il suo era un ordine.
No, neanche, più che un ordine si trattava di una semplice
constatazione, un dato di fatto.
E così era stato. Sugawara non aveva aperto bocca. Se
Shimizu non era in grado di pronunciare falsità, Sugawara
non aveva fatto altro che mentire, agli altri e a se stesso.
''Eri sotto la maledizione Imperius,'' gli spiegherà Asahi
dopo, tentando di giustificarlo - tentando di tranquillizzare se
stesso. ''Ti ha tappato la bocca così. Con la magia. Non hai
colpe.''
Sugawara annuiva. Doveva annuire per forza, non poteva mica ammettere
che no, lui sotto l’influenza della Maledizione Imperius non
c’era mai stato, lui era stato zitto, muto, perché
Shimizu era splendida, perché gli orli della sua divisa
erano impreziositi di cuciture rosse e dorate, perché
Sugawara non ci aveva mai creduto, non fino in fondo, come se si fosse
trattato di un incubo a occhi aperti.
E adesso, Sugawara guarda lo Specchio. Dall’altra parte
c’è Shimizu che accenna un sorriso, Shimizu con
l'avambraccio immacolato, Shimizu che è una bambina, ha
undici anni, è appena giunta con gli occhioni spalancati in
una scuola che diventerà la sua seconda casa, e indossa un
cappello troppo grande che le copre il naso.
Sugawara si domanda quando sia cominciato. Quando, esattamente, Shimizu
abbia iniziato a cambiare, a volgere la testa verso un futuro diverso,
verso il buio. Quando, esattamente, il filo limpido di cui era fatta la
sua anima abbia iniziato a corrodersi, a sfilacciarsi, una corda che si
tende troppo e che sta per spezzarsi. Quand’è che
Shimizu, Shimizu che era luce eterea e vera, abbia iniziato a tramutare
in ombra.
*
Quando Daichi muore in missione per conto dell’Ordine,
Sugawara non ci crede. Così come non crede al fatto che sia
stata lei, a ucciderlo. Due bugie che si aggiungono alla lunga lista di
quelle che si racconta, così come ancora non crede che lei
abbia davvero il marchio impresso nel braccio - nel cuore.
Davanti allo Specchio, adesso ci va da solo. Sugawara ha smesso di
contare i minuti e le ore, incurante della follia che si intensifica,
che progredisce e si dipana come una ragnatela sotto la pelle, nella
carne. Anzi, in un certo senso, ora le è grato.
Inizia a domandarsi se la vera realtà non sia quella
dall’altra parte della superficie riflettente. Si domanda se
non sia lui stesso, a essere intrappolato al suo interno
Mentre guarda lo Specchio, si domanda se vedrà Daichi.
Dovrebbe vederlo perché gli manca, perché era il
suo migliore amico, perché la sua morte è stato
il trauma più grande che abbia mai vissuto.
E invece no. C’è sempre lei, dall’altra
parte. Shimizu che era rosso e oro, ma che voleva essere verde e
argento. Shimizu che è Shimizu, braccia e pelle ricoperte
dalla neve delicata e soffice che Sugawara vorrebbe sfiorare, mangiare.
Sugawara, nel riflesso, vede lei e vede se stesso passeggiarle accanto,
due corpi poco distanti e due ombre unite, un inverno che pare eterno
sotto le suole delle scarpe.
Sugawara poggia una mano sul vetro e si domanda se non ci sia un modo
per attraversarlo. Si domanda se, continuando a spingere, a premere
forte, il vetro gli permetterà di passare, inglobandolo in
quel ricordo, in quel sogno luminoso che custodisce al suo interno, che
riflette misericordioso e al contempo spietato. Lui sarebbe disposto a
pagare qualunque prezzo.
Sugawara prega, prega, prega che il vetro si ammorbidisca, che diventi
liquido, fammi entrare,
fammi entrare, fammi entrare, ti prego, ti prego.
Ma il vetro, come ogni verità inesorabile, rimane gelido e
indifferente e muto mentre gli mostra bagliori intangibili e inodori di
un passato che Sugawara non potrà più rivivere.
*
Quando la battaglia arriva, Sugawara non vede più nulla. Non
vede la scuola crollare, le armature implodere, non vede i corpi - no,
i cadaveri - dei compagni e degli insegnanti accasciarsi sotto lampi di
luce verde, gridi interrotti sulle labbra, espressioni congelate di
terrore e di rabbia, le ultime proteste contro una morte ingiusta,
improvvisa, sbagliata. Non ode gli strilli straziati,
l’isteria malata, le maledizioni Senza Perdono scagliate a
raffica, le finestre che si spaccano, i quadri e i libri che bruciano,
i Lupi Mannari che sbranano, il vuoto assordante e perenne di quando il
tuo migliore amico ti muore davanti.
Sugawara non sente e non vede niente di tutto questo. Sugawara vede
solo lei dall’altra parte. Lei che cammina nella neve, lei
che dietro di sé lascia impronte minute e leggere, la sua
sciarpa verde e argentata che brilla anche nella nebbia, quella rossa e
dorata appallottolata nella tasca come fosse un difetto da nascondere,
una vergogna. Lei che è neve, eppure gli ricorda la
primavera più florida, una gioia incontenibile a cui
Sugawara si aggrappa, come i barattoli che preparava Asahi, quelli che
all’interno custodivano piccole fiammelle calde che loro si
nascondevano sotto la veste larga, per sopportare meglio il freddo che
riecheggiava fra le mura di pietra e i soffitti alti durante le lezioni
di Trasfigurazione - se soltanto avessero saputo che il gelo
dell’inverno non è neanche lontanamente
paragonabile al gelo vero.
Shimizu cammina nella neve ovattata, fra fiocchi che fluttuano, che
volteggiano sulle note del silenzio, e Sugawara ode solo il rumore dei
suoi passi, gli occhi poggiati sul suo collo sottile, sulla guancia che
vuole accarezzare, sul suo portamento regale, fatato.
Infine Sugawara la vede per davvero. Elegante, dritta, avanza muta
irradiando una potenza terrifica, gli occhi sgranati e inquieti,
feroci. Il suo mantello ora non è né rosso oro,
né verde argento, ma scuro come il suo marchio. Shimizu lo
guarda, lo vede, si avvicina.
''Va’ via,'' gli ordina, profonda e disumana come
l’oceano. ''Va’ via, Sugawara.''
Sugawara si ferma. Ode la sua voce e torna a respirare.
Shimizu sfodera la bacchetta. Gliela punta al petto.
''Va’ via,'' ripete per la terza volta. E qui emerge una
flebile incrinatura di supplica, di dolore represso, un bagliore di
debolezza che le storce le labbra, che le tende le sopracciglia, una
linea di ferro dritta e implacabile che tutt'a un tratto si spezza, si
spacca come il suo cuore.
Ma Sugawara non va via, perché lui oramai vede
esclusivamente dall’altra parte. E questa volta non
c’è nessun vetro, questa volta è libero
di avanzare, un equilibrista folle che procede sospeso sul vuoto, sotto
i piedi una corda fatta di illusione e di amore che si sfalda, si
sgretola e si sbriciola perché amore e illusione sono i due
concetti più sbagliati su cui basare le fondamenta del
benessere della propria anima.
Sugawara vuole prenderle la mano, cancellare via il marchio,
smaterializzarsi in montagna, nel bianco più docile. Shimizu
sgrana gli occhi, implorante, poi raddrizza il busto e giunge
l’indifferenza, una folata spietata che le scroscia sul viso
portandosi via ogni traccia di emozione.
Sugawara la vede: è un’oscurità
argentata, non più neve bensì valanga.
Shimizu schiude la bocca. Mormora. Fruscio di foglie e lame ghiacciate.
Poi un lampo di luce verde.
Sugawara spera, prega, che almeno la morte valga abbastanza come
pedaggio per permettergli di attraversare lo Specchio, e giungere
finalmente dall’altra parte.
Note di Cora:
A Gaia, l’unica persona sulla faccia della terra che per
Natale ha chiesto l’angst. Cioè, non
l’angst con il finale felice, nonono, proprio
l’angst e basta, tragedia della tragedia, morte tortura
depressione senza alcuna speranza di salvezza.
Vabbè, ma le vogliamo bene anche per questo. Comunque! Io
spero che ti sia piaciuta questa cagat-cosina, l’ho scritta
in poco tempo ed è venuta più lunga delle mie
intenzioni originali, quindi perdona eventuali porcate
grammaticali/lessicali ecc ecc ma sono del tutto incapace di scrivere
roba al volo, però ci tenevo proprio a regalarti qualcosa!
Spero che la caratterizzazione sia risultata decente, visto che
è la prima volta che scrivo su di loro e insomma, BUONE
FESTE.
E grazie ovviamente a tutt* voi per essere arrivati sin qui! See ya!
♥
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