A Greta
Blackjessamine ♥
Quando
la corda finisce
C’è una piattaforma sospesa nel vuoto.
È un semicerchio in legno scuro, ampio quanto basta a
contenere i suoi piedi minuti.
Davanti
a Inej si spalanca il nulla: incombe minaccioso sotto e sopra, una
valanga priva di fondo, boato di silenzio (paura). Non è
né notte né giorno, non ci sono le stelle, o la
luna. Non è neanche tempesta, mancano il cielo cupo e le
nuvole gravide di pioggia. A Inej quel vuoto ricorda il mare, disumano
e profondo.
Sopra
questo mare, sopra questo nulla, agganciata alla piattaforma su cui
Inej poggia, c’è una corda. È un filo
dorato, un capello che traccia una linea, un solco, un bagliore
iridescente nel grigio di cui non si distingue la fine,
l’altro capo.
Inej
respira. Serra le palpebre (buio), pensa ai suoi genitori (luce), apre
gli occhi di scatto (coraggio) e avanza il primo passo (scalzo).
È
abituata a camminare su una corda, da sola. Adesso però
è diverso, perché sotto di lei non
c’è la terra, non c’è una
superficie pronta ad accoglierla, a frantumare le sue ossa. Adesso
c’è il nulla che continua, il vuoto-mare muto ed
eterno che si dipana come una ragnatela, che attraversa la sua anima.
Perdere l’equilibrio significherebbe cadere per sempre, senza
schianto. E per un funambolo non esiste vergogna più grande.
Quindi
Inej prega e si concentra, rendendo grazie a un Sankto per ogni passo
che non scivola, per ogni passo che rimane saldo sulla corda tesa come
la sua fronte, sotto i talloni, fra gli alluci.
Un
vento freddo le sferza il viso. Folate irruente incidono la pelle,
intrufolandosi sotto i vestiti, sui seni, fra le cosce. Folate che
ricordano mani, mani che lei vorrebbe allontanare, mordere a sangue,
spaccare, tranciare all’altezza dei gomiti.
Le
onde voraci dell’oceano vuoto tentano di agguantarle le
caviglie, arpionandosi a lei come uncini per poi trascinarla
giù mentre il tempo avanza indifferente.
Il
nulla la violenta, la deruba e Inej, nuda ed esposta, perde il
privilegio della voce, del silenzio, di scegliere, di rifiutare. Il
vuoto ingloba il suo corpo, il suo volto, il suo cuore e Inej,
impotente e disincarnata, può solo continuare a camminare
(spalle dritte, non cadere, non cadere, non cadere).
E
Inej non cade, però perde tutto. Perde tutto, tranne
l’equilibrio.
Inej
cammina su quel segno impalpabile di grafite, fatto di conchiglie,
vista offuscata e portamento fiero, in balia dei lividi, delle fruste,
dei contratti vincolanti, delle bocche avide sulla sua pelle,
finché vede qualcosa dall’altra parte: la fine
della corda.
C’è
una nebbia confusa: sagome brulicanti, amorfe, prive di nome -
somigliano a lei.
Inej
accelera, l’impazienza che per la prima volta tradisce
l’espressione adiafora con cui ha cucito sulla corda un passo
dopo l’altro, un tremore delle guance in cui emergono lo
strazio di quello che ha subito, l’ingiustizia e il dolore di
non avere nessuno a cui chiedere aiuto - ancora pochi attimi,
è quasi arrivata, è
lì.
La
corda si spezza, traditrice. O forse è lei a scivolare, a
sabotare se stessa. Viene travolta dal vuoto sotto, intorno, dentro, il vuoto
disumano che la chiama, che la esige.
Inej
va
giù.
Chiude
gli occhi.
Qualcosa
arresta la caduta, e Inej si ritrova a penzolare nel nulla.
I
guanti scuri di Kaz la tengono stretta per i polsi. Inej lo guarda
sorpresa, e Kaz
scuote la testa.
A reggere Kaz per le caviglie c’è Jesper, che le
urla un ‘come
andiamo, Inej?’ da dietro la sua spalla, prima
di farle l’occhiolino. Wylan soffoca uno strillo spaventato,
aggrappato alla schiena di Jesper come un koala per impedirgli di
sprofondare nel vuoto. Nina cinguetta un ‘tira, mio bel
fjerdiano!’, prima di scoppiare a ridere
isterica mentre Matthias impreca perché per Djel, non è
possibile che succeda sempre qualcosa.
Inej
non ha più la corda sotto i piedi, ma adesso a sorreggerla
c’è quella specie di corda umana sbilenca,
cozzante e squilibrata, che però la tira su.
Ansimanti,
frastornati, si ritrovano tutti e sei a pochi centimetri dal
precipizio, salvi.
''Grazie,''
dice Inej, non appena ritrova il fiato - e la voce, e il corpo, e il
cuore, si riappropria di parte di ciò che l’abisso
le ha tolto, ricostruirà il resto. Grazie.
Poi
si alza. Spalle dritte, scarpette di gomma ai piedi e pugnali
più affilati del vento che l’ha violata.
In
equilibrio, su una corda, Spettro, non più da sola.
Note di Cora
Ciao Greta! Perdonami per questa cosa orrenda al volo, ma ci tenevo
tanto a farti un regalino visto che adoro follemente tutto quello che
scrivi hahaha. Grazie per aver letto (mi dispiace, spero di tornare con
qualcosa di decente!) e niente, grazie per scrivere e per condividere
qui ogni tuo lavoro!
E ovviamente grazie a tutt* voi per essere arrivati sin qui!
See ya! ♥
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