Figlia, come osi sfidare tuo padre?

di Superkattiveh
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VITTIMA DELLA MIA VITTORIA

Parte II - Figlia, come osi sfidare tuo padre?



Capitolo I - Il respiro dei bambini




Un chiacchiericcio animato risuonava per la Sala di Controllo.
Gli Strateghi parlavano in continuazione fra loro per scambiarsi informazioni, suggerimenti, ipotesi e opinioni sui Giochi che stavano orchestrando. Raramente il silenzio calava in Sala, di solito negli istanti che precedevano il Bagno di Sangue o altri eventi eccezionali, come per esempio l’ultimo combattimento – il più atteso. Gli Strateghi erano umani, dopotutto, e anche loro si lasciavano prendere dall’eccitazione crescente, soprattutto quando il tempo era agli sgoccioli e le cose da tenere sotto controllo diventavano sempre di meno. Quando il campo si riduceva agli ultimi due, perfino i più vigili si lasciavano coinvolgere dallo spettacolo.
Non lei, però.

La Stratega dalla treccia austera evitava la conversazione finché poteva e taceva anche nei momenti più salienti: non per coinvolgimento, quanto per quieta analisi. Era il suo lavoro occuparsi delle statistiche e dei resoconti tecnici una volta terminati i Giochi, non doveva perdersi neanche un secondo della competizione. Ciononostante, quando il timer segnò l’inizio del suo quarto d’ora di pausa, Felix scattò in piedi e uscì sull’ampia balconata che circondava la Sala di Comando, osservando come il cielo, lentamente, virava verso l’arancione del tramonto.
Erano state delle prime sette ore veramente emozionanti, questo andava ammesso. I Tributi di quell’anno sembravano particolarmente carichi, sanguinari, ottimo materiale con cui lavorare. I cuccioli che avevano creato in laboratorio crescevano a ritmi spaventosi e Seneca aveva fatto pressioni affinché allungassero il brodo per permettere agli ibridi di essere usati nei Giochi.
Felix non aveva idea di come avrebbero dovuto fare.
Con undici Tributi già spazzati via, il gruppo dei Favoriti praticamente intero e gli altri sprovveduti nascosti qui e là sarebbe stato difficile allungare il brodo e mantenere i Giochi accattivanti.

Sospirò e la mano cercò il pacchetto di sigarette nella tasca. Ne prese una e l’accese, impaziente di sentire il fumo graffiarle la gola e riempirle i polmoni. Nel momento in cui avvertì il sapore acre della nicotina in bocca espirò, rilassando dei muscoli che non sapeva di aver contratto.
«Cara Felix!» una voce richiamò la sua attenzione. Strabo Duchamp. La ragazza dovette sforzarsi per non alzare gli occhi al cielo. Rispondergli le richiese uno sforzo ancora maggiore.
«Strabo»
Come se non si fossero visti cinque minuti prima in Sala di Comando, come se non avessero passato quella settimana insieme fra briefing e riunioni, come se lui non la seguisse con lo sguardo ovunque andasse e indugiasse troppo là dove la divisa aderiva ai suoi seni ormai perfetti.
Una volta, forse, Felix avrebbe provato un piacere quasi crudele nel conoscere il suo desiderio e negarglielo. Una gioia meschina per quel dono che non aveva voluto e che era stata costretta ad accettare. Ma il caro prezzo con cui aveva comprato il privilegio di essere ammirata solo da lontano non cessava di disgustarla. L’ennesimo tiro l’aiutò a focalizzare la mente altrove.
«…veramente degli ottimi Tributi» concluse Strabo.
Felix lo osservò con freddezza. Sulla trentina, pelle diafana che faceva a pugni con i capelli rossi, occhi modificati chirurgicamente per apparire violetti. Falso. Viscido. Proprio come lei.
«Hai ragione» niente compiaceva di più Strabo che sentirsi dire di avere ragione. «Ottimi Tributi veramente.»

Si rese conto con tristezza che la sua sigaretta era finita e lasciò la cicca in uno dei grandi posacenere messi a disposizione, lo sguardo che cadde su un edifico un po’ più giù. Il Centro d’Addestramento si trovava solo ad un chilometro di distanza da lì: riusciva a vederlo perfettamente dall’alto della terrazza, benché il terzo piano le fosse precluso. Con una morsa allo stomaco, si ritrovò a domandarsi cosa stessero facendo Beetee e Wiress in quel momento. La ragazzina era morta. Il Distretto 3 giocava solo con un quindicenne che l’ultima volta che Felix aveva controllato, si nascondeva in una caverna vicino al fiume.
Chissà cosa sta facendo Isaac.
Sicuramente guardava i Giochi in Piazza, oppure a casa sua, in compagnia del padre. Dopo quello che era successo, Isaac trovava intollerabile seguire gli Hunger Games con la madre. La sera, però, sarebbe andato a casa sua a fare compagnia a Ned, e avrebbero parlato al telefono. Mancavano ancora quattro ore alla sua pausa. Quattro e mezza dalla telefonata. Isaac sarebbe rimasto a dormire e avrebbero parlato anche il giorno dopo appena svegli.
«La mia pausa è finita» disse Felix infischiandosene di qualsiasi cosa Strabo stesse dicendo e riponendo il pacchetto di sigarette nella tasca. Ne aveva appena fumata una e già contava i minuti che la separavano dalla successiva.

Anche il fatto che avesse ceduto alle sigarette la disgustava. Perché la prima gliel’avevano offerta loro e lei non era riuscita dire di no. Perché alla primissima riunione con gli Strateghi non avevano fatto altro che bivaccare e quella era stata la cosa più leggera che le fosse stata offerta. Perché credeva che se non avesse avuto qualcosa a cui aggrapparsi in quella pena che le era stata inferta, avrebbe cominciato a perdere pezzi di sé per strada. La verità che non importava a nessuno, però, era un’altra.
Felix non aveva voluto dire di no.
Felix aveva voluto concedersi quella debolezza nonostante ne avesse già troppe.
Felix non riusciva a non odiarsi per questo.

Quando camminava per i corridoi vetrati degli edifici dedicati agli Strateghi, Felix guardava dritta davanti a sé, perché trovava intollerabile anche solo intravedere il proprio riflesso. Quella divisa bianca che tanto le calzava a pennello aveva il potere di travolgerla e ribaltare ogni cosa che credeva di sapere su di sé e sul mondo. Meglio non guardare. Meglio camminare a testa alta e con le spalle rigide. Meglio affrontare le minacce altrui ed evitare i giudizi che lei stessa si infliggeva.

Così rientrò nella Sala di Comando, leggermente in anticipo ma del tutto indifferente al tempo rubato alla sua pausa, e sedette alla postazione, gli occhi fissi sulla mappa al centro della Sala. L’Arena era piuttosto semplice, ma in linea con l’estetica di Seneca. L’anno precedente aveva optato per una città abbandonata, ma nel suo primissimo anno come Capo Stratega la sua scelta era ricaduta su una foresta innevata alle pendici di una montagna. Anche la sua barba non mentiva: quelle onde perfettamente disegnate tradivano l’ammirazione dell’uomo per i paesaggi naturali. Se Felix avesse dovuto azzardare un’ipotesi, avrebbe detto che anche l’Arena per i Giochi successivi sarebbe stata di stampo naturalistico. Qualcosa di speciale, per via dell’Edizione della Memoria, ma la ragazza decise di fermare il treno dei propri pensieri lì. Aveva già abbastanza da fare in quel momento senza pensare alla prossima edizione.

«Le statistiche aggiornate?» domandò una collega.
«Eccole» Felix cercò l’username della donna sul proprio tablet e premette invio.
«Perfetto» lei le sorrise, ma Felix non si prese neanche la briga di fingere di ricambiare. «Le prossime fra quattro ore, poi toccherà a Stubbs.»
Felix osservò i tributi sparpagliati sulla mappa, indugiando sul ragazzo del Distretto 3. Era ancora rintanato nella caverna che aveva trovato e a giudicare dalla distanza che lo separava dai Favoriti avrebbe fatto meglio a rimanerci.

Chi si stava allontanando era la ragazza del Distretto 12. Ogni volta che Felix andava a controllarla il suo numerino si allontanava – pochi centimetri sulla mappa, diverse centinaia di metri nella realtà. Con dei semplici tocchi sul tablet poteva selezionare un’area a sua scelta sulla mappa e adattarla alla scala che preferiva, perfino 1:1. Non ne aveva bisogno al momento, certo. Avrebbe tenuto sotto controllo la ragazza del 12 come il ragazzo del Distretto 11, che esplorava il campo di grano all’estremità opposta dell’Arena. La sua piccola compagna di Distretto volteggiava nel folto della foresta, e sembrava essere una delle poche ad aver idea di ciò che stava facendo.

Chi non si stava comportando come pronosticato era il Ragazzo Innamorato. Bravo, davvero, un ottimo attore. La sua performance era stata convincente. Se solo avesse avuto una compagna altrettanto all’altezza, forse avrebbe potuto ingannarla. Ma la ragazza che si era offerta volontaria per la sorella si era dimenticata di lui nel momento in cui aveva messo piede nell’Arena, mentre lui seguiva i Favoriti coperto dal loro stesso baccano. Felix non poteva negare che fosse merito loro se quell’anno la percentuale di scommesse fosse alle stelle, ma fosse stata negli abitanti della Capitale avrebbe puntato su chiunque altro. Andava detto che però loro erano stupidi e lei no.
Quando il timer finalmente scattò, Felix aveva aggiornato le statistiche per le scommesse e le aveva inviate a chi di dovere. L’ultimo dei controlli a campione non le rivelò niente che già non sapesse e uscì dalla Sala di Controllo senza degnare nessuno, nemmeno Seneca – che la ignorava altrettanto disinteressato – di un saluto.

Il suo appartamento era nel campus degli Strateghi. Nonostante fosse piuttosto tardi l’aria era calda e avvolgente, pesante come una pesca matura. Nel momento in cui mise piede all’interno del lussuosissimo salone, Felix corse al telefono e digitò le cifre che del numero di casa sua.
Rispose al primo squillo.
«Ciao, splendore.»
Il sorriso nella voce di Isaac era palpabile.
«Eri attaccato al telefono?» Felix suo malgrado avvertì le labbra incurvarsi di un millimetro verso l’alto.
«No, passavo solo di qui. Come va?»
«Al solito» non andava mai bene. «Voi invece?»
«Un po’ peggio del solito» ammise il ragazzo e Felix avvertì il cuore accelerare i battiti.
«Mio padre sta bene? E’ successo qualcosa?»
«No, no, tranquilla» Isaac ridacchiò nervoso. «E’ che… non ha preso proprio bene la morte di Peyton-»
«Chi?»
Una pausa, durante la quale Felix avvertì Isaac sospirare. Quando parlò, il tono era di chi spiegava una cosa ovvia a qualcuno di molto stupido.
«La ragazzina del Distretto 3? Sai, il nostro tributo?»
Felix aggrottò le sopracciglia. Continuava a sfuggirle il motivo per cui suo padre dovesse aver preso male la sua morte.
«La quindicenne. Quella morta al Bagno di Sangue.»
«E’ solo un tributo» disse la Stratega. «Ce ne è un altro ancora in gara.»
«Comunque, non importa» Felix poteva quasi avvertire Isaac che scrollava le spalle come per lasciarsi indietro quella parte della conversazione. «Ora sta molto meglio. Ancora un po’ giù, ma stanotte resto qui, quindi ci penso io.»
«Grazie» mormorò Felix. Detestava lasciare suo padre da solo, specialmente durante i Giochi. Ma da quando aveva accettato quel lavoro, non poteva farne a meno. Sapere che Isaac gli faceva compagnia non solo la rassicurava, la rendeva grata. Non aveva ancora capito perché. Era solo riuscita a identificare quel sentimento, ma dargli voce richiedeva uno sforzo impossibile da parte sua.
«Tu come stai?» gli chiese Felix appoggiando la testa al muro.
«Mi manchi» rispose la voce all’altro capo del filo, ogni traccia di leggerezza svanita nel nulla. «Spero che i Giochi finiscano subito per poterti rivedere al più presto.»
Anche tu mi manchi, pensò Felix. La voce nella sua testa suonava come un rantolio soppresso. «Le statistiche sono ancora incerte a riguardo» disse invece.
«Sì, sì, lo so» quasi riusciva a vederlo alzare gli occhi. «Ci sentiamo domani?»
«Certo» e anche dopodomani sera, e il giorno dopo ancora. «Mi passi papà?»
«Eccolo – Ned? E’ Felix» Isaac le mandò un bacio attraverso la cornetta. «A domani, allora»
«A domani.»
«Pronto? Felix?»
«Ciao, papà» la ragazza avvertì le labbra distendersi in un sorriso che sembrava sull’orlo delle lacrime. «Come stai?»
«Mi manchi» ripeté suo padre.
«Anche tu» rispose Felix, perché a lui poteva dirlo. «Ma devo svolgere il mio lavoro al meglio, lo sai.»
«Come ti ho insegnato io»
«Esatto» convenne la ragazza. Quando gli parlava così, le sembrava di essere un genitore che confortava il figlio. Era sbagliato, sleale nei confronti di suo padre, e anche se quello era il meglio che sapeva fare, non era abbastanza, non era neanche lontanamente abbastanza.
Si addormentò nell’immensità del suo letto, abbracciata ad un cuscino, desiderando che avesse l’odore di un ragazzo distante centinaia di chilometri da lei e la sua stessa risata.




Quando il cannone risuonò sancendo la definitiva sconfitta del Distretto 8, Anice riuscì a non piangere. Cecelia trafficava con l’accendino che sembrava non volersi accendere, così la sua pupilla glielo prese delicatamente dalle mani e lo accese senza troppi problemi.
«Grazie» borbottò la donna inspirando profondamente. «Che stupida, che stupida»
Anice avrebbe voluto rispondere di non dire così, ma non ce la faceva. In cuor suo era d’accordo con Cecelia. Glielo avevano detto, no? Glielo avevano detto o no che non doveva assolutamente e in nessun caso accendere un fuoco in piena notte? Certo che glielo avevano detto! E se lo aveva capito Anice, bloccata in una gabbia congelata, perché non poteva capirlo anche lei?
«Stupida proprio» commentò la voce sarcastica di Johanna.
Anice si voltò verso di lei, priva di ogni tipo di risentimento. Era completamente d’accordo con l’altra Vincitrice, stravaccata sul divano e con le braccia distese sullo schienale, un banchetto ricchissimo davanti a lei.
«Adesso ti siedi bella comoda accanto a me e ci godiamo lo spettacolo» le disse Johanna. «O hai intenzione di tornare a casa? Dimmi di no, altrimenti resto sola in questa gabbia di matti.»
«Povera Johanna» Anice le sorrise. «Guarda che Finnick è ancora qua.»
«Sai quanto me ne frega» Johanna si osservò le unghie con fare annoiato. «Pure lui ha già perso un Tributo e non se lo aspettava»
«E questo è un male perché…?»
«Ma allora vi fanno proprio scemi al Distretto 8» la Vincitrice alzò gli occhi al cielo e le fece cenno di sedersi. «Perché, mia cara piccola Anice, lui è come te. Ora darà il mille per mille per far vincere quella che gli è rimasta e non ci degnerà di uno sguardo.»
«Ci?» quella parola aveva un bel suono, soprattutto perché la distraeva dalla tristezza che cresceva dentro.
«Certo» Johanna si strinse fra le spalle. «Noi ce ne staremo qui a farci i cazzi nostri mentre loro sgobbano invano perché tanto vincerà quel bestione del Distretto 2 e lo sai.»

Anice non riusciva a darle torto. Il ragazzo del Distretto 2 la riempiva di ansia nonostante non dovesse affrontarlo né parlarci in alcun modo. Poteva anche essere biondo e avere gli occhi azzurri, ma la differenza fisica non bastava a non ricordarle Ruben, colui che era stato il suo più grande ostacolo. La brutalità e la noncuranza esibita dal tributo di quell’anno erano identiche a quelle dei suoi Giochi, e se le cose fossero andate diversamente, Ruben sarebbe stato lì al posto suo, magari proprio a fare da Mentore.
Certo, non proprio lì. Qualcosa le diceva che Johanna non avrebbe invitato Ruben a sedere accanto a lei, e il pensiero la rincuorò.
«Alla fine il ragazzo innamorato non è così dolce come appare, eh?»
Anice alzò gli occhi al cielo: «Ma perché devi rigirare il dito nella piaga?»
«Perché» rispose la ragazza con un sorriso maligno «è la parte più divertente di tutto il gioco. Vedere come cambiano le persone in quel posto di merda»
Anice si guardò attorno, circospetta, ma nessuno prestava loro attenzione in quel chiasso che era la Sala dei Mentori. Erano liberi di circolare e andare dove volevano all’interno del campus adibito per i Giochi: alcuni di loro cinguettavano con potenziali sponsor, gli accompagnatori che correvano di qui e di là per accaparrarsi quanti più contratti possibile, ma la maggior parte – come lei e Cecelia poco prima, o Beetee e Wiress – osservavano corrucciati il maxischermo, senza nemmeno sforzarsi di cercare qualcuno a cui chiedere. Perché scomodarsi?
Il loro maschio era morto al Bagno di Sangue e la femmina si era ammazzata con le sue stesse mani. La stupidità era pericolosa, e infatti quella sera avrebbe rivisto il viso della ragazza un’ultima volta, prima che anche lei diventasse un vago ricordo nella sua testa, nascosto dietro una cortina di nebbia creata per non soffrire troppo.

«Tutti uccidiamo, lì dentro» mormorò lei. «E anche se fosse un pacifista, non è mica innamorato del mio tributo.»
«Sì, come no» commentò Johanna. «Innamorato. Di quella lì?»
«Così dicono» Anice si strinse fra le spalle e prese una caramella dal tavolo. «Lei però è pessima»
«E lui è carino» Johanna si fiondò su un drink dorato e frizzante. «Potrebbe avere chiunque e prende quella ragazzetta rachitica là? Che sa fare poi? Sa solo salire sugli alberi e a malapena fare le giravolte.»
Anice ridacchiò e scosse la testa. «Sei proprio impossibile. Non ti sta bene mai niente»
«Tu mi stai bene» rispose Johanna tracannando il drink. «Sei la meno peggio qui dentro.»
«E Blight?»
«Non è che se veniamo dallo stesso Distretto allora dobbiamo per forza essere amici»
Forse aveva ragione. Per lei e Cecelia non era così, però. Da quel poco che aveva potuto parlare con loro, si era anche resa conto che i mentori del Distretto 3 condividevano un legame piuttosto profondo che andava oltre la semplice amicizia. Perfino Haymitch e Chaff erano amici. Il problema di Johanna… era semplicemente Johanna. Anice, purtroppo, capiva perfettamente perché.
«E noi?» le chiese piegando la testa sulla spalla. «Siamo amiche?»
«Beh, se me lo chiedi sei proprio scema» Johanna la scansò con un po’ troppa forza – non si rendeva conto che Anice non era una taglialegna come lei – ma Anice riuscì ad intravedere un sorriso sulle sue labbra.
«Comunque non andrà molto lontano» Johanna scelse un drink dal tavolo e glielo offrì, poi ne prese un altro per sé. «Fidati, io queste cose me le sento dentro»
«Certo, certo» commentò Anice sorseggiando attraverso la cannuccia. Strizzò gli occhi per il bruciore dell’alcool sotto le risa della coetanea. «E cosa te lo fa pensare, o grande divinatrice?»
«Perché quella non solo è una pessima attrice, ma le manca pure l’acqua» Johanna indicò la sedicenne che si nascondeva fra le fronde, allontanandosi il più possibile dai Favoriti e dal suo cosiddetto innamorato.

Chissà come la faceva sentire vederlo in testa ad una battuta di caccia in cui il premio era proprio lei. O forse si erano messi d’accordo prima? Anice non ne aveva idea, soprattutto perché concordava con Johanna: era veramente una pessima attrice.
«Non ci avevo fatto caso» mormorò Anice girando l’ombrellino del suo drink con fare assente. «All’acqua, dico»
«Beh, se entrambi i tuoi Tributi muoiono al Bagno di Sangue ti devi pur concentrare su qualcun altro»
«E perché proprio lei, se ti sta così antipatica?»
«Che palle, Anice» Johanna alzò gli occhi al cielo. «Perché questo interrogatorio? Hai deciso di vendermi ai Pacificatori, per caso?»
«Ma ti pare» mormorò la ragazza, lo sguardo basso e perso. Non era una cosa carina da dire. Affatto. Johanna sapeva cosa le era successo. Perché le diceva quelle cose? Faceva sempre così. Un momento prima si stava bene, a ridere per non piangere, e poi era proprio la sua cosiddetta amica a spingerla sull’orlo delle lacrime.
«Ti consiglio di trovare un altro preferito, cara Anice.» Se Johanna aveva capito che quella era stata un’uscita a dir poco infelice, non lo diede a vedere. Bevve il suo drink tutto d’un fiato e si sporse con i gomiti sulle ginocchia, gli occhi fissi sul maxischermo. «Tu concentrati sul ragazzo innamorato, dai. Così facciamo coppia»
«Che bello, Johanna» replicò Anice con un filo di voce. «Voglio proprio fare coppia con te»
Forse, in un’altra occasione, sarebbe sembrata sincera.



I due giorni senza morti si sentivano tutti.
La ragazza del 12 c’era andata vicinissima, ad un pelo dal disidratarsi a morte. Felix, che osservava tutto dalla Sala di Controllo, aveva sperato di no per un semplice motivo: perdere lei in quel modo così banale e anticlimatico avrebbe fatto calare a picco l’indice di interesse di quella edizione, e allora non sarebbero bastati tutti gli ibridi del mondo per recuperare una frazione dell’interesse generato da lei e dal suo fantomatico fidanzato.
Perciò, quando Seneca annunciò che avrebbero riscaldato gli animi, Felix non fu affatto sorpresa. Una sorta di Deus ex Machina al contrario, che invece di offrire la salvezza ai Tributi li spingeva nelle fauci del serpente.
Concentrati.

Non stavano per ipnotizzare la ragazza per condurla in una fredda cupola rosata, stavano per bruciarla viva. Era diverso.
Diverso da quello che avevano fatto a lei proprio in quella stanza, forse proprio in quella postazione, quando i due giorni di noia avevano costretto i suoi colleghi a correre ai ripari. Nessuno là dentro, nemmeno lei, immaginava che un giorno, quello che era stato un tributo dalle probabilità di vittoria così basse, si sarebbe seduto lì con loro, quasi come una pari.
Seneca teneva il tempo con la mano: «Fuoco fra tre, due uno…»
La corteccia degli alberi si incendiò all’istante. Felix stessa azionò le ventole nascoste nel finto cielo dell’Arena. Valutò se aumentare progressivamente la potenza o spingere al massimo, ma considerando che la ragazza dormiva placida sull’albero e che le telecamere, al momento, mandavano in onda il chiassoso gruppo di Favoriti, optò per un’azione immediata. Il forte vento caldo spirò potente e l’incendio crebbe a dismisura.
«Bravi così, ragazzi» Seneca osservava il maxischermo attento, i brillanti occhi azzurri fissi sull’obiettivo. Il fuoco cresceva in potenza ed estensione, tanto che Felix non necessitava del termometro che segnalava il progressivo aumento della temperatura. I bordi delle videocamere si fecero appena appena sfuocati e gli schiocchi del legno che si spezzava, contorceva e infine bruciava allertarono la ragazza, che, finalmente, si svegliò.
Aveva solo due opzioni davanti a sé: correre nella direzione opposta, oppure bruciare e rendere onore al proprio soprannome. Felix non dubitava che fosse quello il motivo che aveva spinto Seneca a scegliere il fuoco, invece che l’orda di serpenti che potevano svegliare premendo un tasto sulla consolle. Seneca veniva apprezzato proprio per queste sottigliezze e per l’ambiente sereno che offriva ai colleghi durante i Giochi.
«Vai con una palla di fuoco» ordinò il Capostratega e la ragazza fece appena in tempo ad evitarla che un’altra seguì a raffica la prima, facendola rotolare a terra.
Poteva correre in direzione opposta dell’incendio oppure bruciare; in nessun caso avrebbe trovato la salvezza.
«A meno di un chilometro c’è il gruppo di Uno-Due-Quattro» annunciò Felix con voce monocorde. Non esistevano Favoriti nella Sala di Controllo. «Se cambiamo la direzione del vento la spingiamo lì.»
«Perfetto» Seneca le diede l’ok e Felix spense delle ventole per attivarne altre. L’incendio crebbe immediatamente là dove l’aveva voluto, e questo cambio repentino unito ad un improvviso albero caduto impedì al Tributo di schivare l’ennesima palla di fuoco, che la colpì alla gamba.
L’urlo – sia di dolore che di sorpresa – venne accolto con indifferenza nella Sala. Seneca ordinò che le palle di fuoco cessassero e che il fuoco venisse tenuto sotto controllo, abbastanza da spingerla esattamente dove volevano.

Felix fece esattamente come richiesto. Mantenne il vento costante e ne aumentò il calore, per alimentare quello dell’incendio, e la ragazza del Distretto 12 continuò a correre – ad inciampare – fra le fronde, finché non cadde nel fiume con un sospiro di sollievo.
I Favoriti sbucarono proprio in quell’istante, come lei aveva previsto. Ruotò il controller e le ventole si spensero, e all’unisono dieci Strateghi alzarono le leve che azionavano l’impianto di raffreddamento istantaneo. Il fuoco si estinse quasi immediatamente, lasciando la vegetazione nera e morta. Niente avrebbe disturbato lo spettacolo che avevano architettato.
«Eccola là! E’ là!» urlò il ragazzo del Distretto 1 e tutto il gruppo si precipitò all’inseguimento, con il ragazzo innamorato in ultima fila. Decisamente una brutta giornata per gli innamorati sfortunati del Distretto 12.

Felix aprì una panoramica dell’Arena sul suo schermo, attenta a non perdersi eventuali azioni interessanti da parti di altri Tributi. Ormai avevano architettato quell’uccisione e l’azione era in mano ai Tributi: arrivava un momento in cui perfino gli Strateghi dovevano lasciar perdere le fila dei pupazzi e far in modo che le marionette agissero da sole. Nel frattempo, era compito di Felix assicurarsi che gli altri partecipanti non rubassero la scena a ciò che avevano pianificato e promesso al pubblico, ed intervenire se necessario. Erano tutti in solitaria e abbastanza distanti dal gruppo Uno-Due-Quattro e compagnia, nessuno dei quali intento in azioni interessanti. Felix ritornò al maxischermo in tempo per sentire la battuta di scherno della ragazza del 12, ora appollaiata su un albero, e la risposta del suo compagno.
«Aspettiamola qui. Dovrà scendere prima o poi, o morirà di fame. E la uccidiamo.»
La frase venne accolta da occhi sgranati e sguardi confusi dalla maggior parte dei suoi colleghi, quelli coinvolti dall’aspetto umano del gioco. Felix invece strinse gli occhi, pensierosa.

Il ragazzo del Distretto 12 era letteralmente incappato nel gruppo dei Favoriti due ore dopo l’inizio dei Giochi. Aveva barattato la sua vita in cambio di guidarli verso la sua fidanzata, che offendeva l’orgoglio del ragazzo del Distretto 2 per aver preso un voto più alto di lui. Ma Katniss – così si chiamava la ragazza sospesa sui rami – aveva fatto qualcosa che tutte le spade del mondo non potevano ottenere: li aveva sfidati. E quella era stata l’unica cosa di lei che pareva sincera.
Felix non poteva negare di aver sentito qualcosa di vaghissimo agitarsi in lei, e forse, se il suo obiettivo fosse stato quello di ucciderla, anche lei al posto del Capo Stratega le avrebbe assegnato un voto così alto. Ma qualcosa che le diceva che Seneca non l’aveva fatto per metterle un bersaglio in testa, quanto per capitalizzare sulle emozioni che quei due del Distretto 12 avevano creato. L’intervista era stata la ciliegina sulla torta. Ma una volta iniziati i Giochi veri e propri si erano persi di vista e la commediola, almeno ai suoi occhi, era crollata ancor prima di cominciare. Gli indici di gradimento però dicevano tutto il contrario.
E quindi erano giunti a quell’impasse.
Avrebbero gettato la loro maschera di innamorati sventurati che non convinceva chi aveva un minimo di cervello o avrebbero continuato ad ingannare gli stolti?
Lo avrebbero scoperto nelle ore successive, quando le marionette avrebbero danzato da sole e i burattinai stessi si sarebbero tramutati in spettatori.



Cecelia entrò in camera sua come una furia: «Anice, accendi la tv! Presto, presto, presto!»
Anice cadde dal letto nell’allungarsi per prendere il telecomando e cambiò immediatamente canale, sintonizzandosi dai sondaggi di Claudius alla diretta dei Giochi.
Il ragazzo che doveva tenere d’occhio – Peeta, così si chiamava – dormiva ai piedi dell’albero in cui era intrappolata la sua cosiddetta amata. Fin qui, nulla di nuovo. L’ultima volta che si era collegata, qualche ora prima, le cose erano più o meno le stesse. Aveva osservato i Favoriti preparare l’accampamento sotto l’albero, la ragazza ricevere un paracadute con una medicina, e poi era tornata nei suoi appartamenti con Cecelia. Stava quasi per prendere sonno.
Ma Katniss – inevitabilmente aveva imparato il suo nome – non sonnecchiava in cima all’albero. Stava… segando un ramo?
«Glielo ha detto la ragazzina, quella del Distretto 11» le disse Cecelia, indicandole qualcosa sullo schermo. «Guarda che c’è là»
E Anice lo vide. Un nido enorme, con delle vespe che svolazzavano dentro e fuori quasi inconsapevoli del rischio che correvano.
«Per chi non lo sapesse, il veleno degli Aghi Inseguitori causa lancinanti dolori, allucinazioni, e, in casi estremi, la morte» la informò con tono grave la voce di Caesar dallo schermo.
«Cazzo» esclamò la ragazza. «Questa sì che è roba da matti!»
«Sssh» la interruppe Cecelia, come se la voce di Anice potesse far desistere la ragazza da suo intento. Intanto, la ragazzina del Distretto 11 sembrava volatilizzata, e Katniss sempre più sofferente per via delle punture che inevitabilmente riceveva.

Ci fu un istante di silenzio prima che il ramo si spezzasse e il nido crollasse al suolo. La lama seghettata del coltello, non incontrando resistenza, tacque e il ramo restò sospeso nell’aria per un secondo solo, forse nemmeno quello. Poi, come se possedesse una gravità propria, il nido trascinò giù con sé il ramo e la colonia di vespe, che cadde al suolo e si ruppe come uova sul pavimento.
Il lieve ronzio che aveva animato il nido si trasformò in un brulicante rumore assetato di sangue mentre gli Aghi Inseguitori si riversavano sulle povere vittime che scappavano urlando. Anice si ritrovò a provare suo malgrado pietà per loro e a sperare che ce la facessero – soprattutto quello che doveva controllare lei, Peeta.
«Che bomba» fu il commento di Cecelia, che osservava la scena senza tradire alcuna emozione. «Meno male che i miei figli ancora non li vedono i Giochi.»
Già, meno male, perché quella vista poteva far venire gli incubi veramente.
Il gruppo si era diviso, la ragazza del Distretto 1 era rimasta indietro e un nugolo di vespe copriva il suo corpo. Chiedeva aiuto, ma nessuno sarebbe accorso per lei. E infatti, si accasciò al suolo, sola, ma il cannone che suonò non fu per lei.
La ragazza del Distretto 4, che aveva raggiunto il lago assieme al resto del gruppo, galleggiava in mezzo al lago, dove presto un hovercraft sarebbe venuto per recuperarla.
Le immagini scorrevano velocissime, avanti e indietro fra l’albero e il lago, fra tributi che cercavano sollievo dalle punture nell’acqua e Katniss che barcollava nel tentativo di rubare l’arco alla ragazza del Distretto 1, ormai irriconoscibile. Il cannone annunciò anche la sua morte e Katniss trasalì. Non sembrava in grado di strappare l’arco dalle mani bitorzolute del cadavere, e Anice giudicò quella scelta curiosa.
«Non capisco perché si sta accanendo sull’arco» disse. «Io scapperei se fossi in lei, il bestione del Distretto 2 la sta raggiungendo.»
«Forse vuole giocarsela fino all’ultimo» ipotizzò Cecelia. «Un’arma in più è sempre meglio di niente e dopotutto non mi sembra in grado di intendere e di volere. Forse morirà per il veleno.»
«O per lui» mormorò Anice, seguendo il Favorito del 2 con lo sguardo. Si stava avvicinando al campo, una maschera assassina in volto, incurante delle vespe superstiti che svolazzavano sperdute, caricandole con la spada. Solo un pazzo poteva aspettarsi di colpirle con la lama. Anice avvertì il proprio stomaco stringersi in una morsa.
Il ragazzo innamorato, però, giunse per primo da lei.
«Katniss, che cosa fai? Scappa!»
Katniss sbattè le palpebre, confusa.
«CORRI!»
Peeta la spinse via proprio nell’attimo in cui il maschio Distretto 2 fece la sua comparsa nella radura, il bel viso reso grottesco dalle punture pulsanti. Anche Katniss dovette vederlo perché corse via sbattendo contro un albero.
Peeta cercò di parlare: «Cato, non…»
Ma Cato non gli lasciò finire la frase che mulinò la spada contro di lui. Un colpo letale, se fosse stato in salute, ma il veleno degli Aghi Inseguitori doveva aver fatto effetto perché invece colpì Peeta solo di striscio sulla gamba. Peeta cadde ululando per il dolore ed ebbe la forza di dargli un calcio con la gamba sana prima di strisciare via da lì. Il calcio del ragazzo non sembrava molto potente, ma bastò per far perdere l’equilibrio ad un Cato già estremamente provato, che perse la presa sulla spada e si accasciò contro un tronco, urlando improperi contro i due innamorati del Distretto 12.

«E così hanno deciso di continuare la sceneggiata» disse Anice stringendo le ginocchia al petto. Ma era davvero una sceneggiata? Per un istante, la preoccupazione nella voce del ragazzo le era sembrata così vera…
«Lui è proprio bravo» commentò Cecelia annuendo. «Lei era troppo fatta per fingere e forse è meglio così. Ha quasi ucciso pure lui con questa geniale trovata»
«Lei è pessima» confermò Anice, che osservava Katniss vagare per la foresta piangendo rinchiusa nel mondo del veleno degli Aghi Inseguitori. «E’ merito di Peeta se la commedia regge. Sembrava tutto vero…»
Il dubbio si insinuò nella voce di Anice, suo malgrado. Dovevano fingere per forza, era chiaro. Quell’idea era inusuale e potenzialmente fallimentare – uno dei due doveva morire, nel più roseo degli scenari – ma a suo modo geniale, innovativa. Fingere di amarsi e di essere finiti in un gioco più grande di loro.
Ma in una situazione di vita o di morte come quella, di vita o di morte per Aghi Inseguitori, come poteva un attore provato dal veleno e dalle ferite continuare a fingere? Come poteva rischiare di morire per qualcuno che fingeva di amare?
Peeta doveva sapere che portava sulle spalle il peso di tutta la messinscena e che quella era il suo unico modo per vincere, per questo fingeva così bene. Quanto era grande la forza di volontà che albergava in quel ragazzo?
Anice scosse la testa. «Johanna se la starà ridendo»
«Perché?»
«Perché la ragazza di Finnick è morta» ora anche lui si sarebbe aggiunto al loro club. «In più si è scelta i due del Distretto 12 da tenere d’occhio per passare il tempo. Oggi sì che hanno dato spettacolo»
«Vai sul canale di Claudius, vediamo là»
Katniss cadde finalmente a terra, alla mercè di tutti, e le due Mentori del Distretto 8 cambiarono canale.



Il settimo giorno dei Giochi, Felix Facilis osservò corrucciata la coppia Undici-Dodici allearsi e tenersi al sicuro dal gruppo dei Favoriti, ormai dimezzato. Non aveva potuto fare a meno di provare una punta di cauta ammirazione per il ragazzo del Distretto 3 che si era unito a loro. Non per il gesto in sé, quanto per la brillante idea che aveva tirato fuori solo due giorni prima, proprio mentre il bestione del Distretto 2 stava per calare la spada sul suo fragile collo.
«Aspetta! Posso farle esplodere! Le mine! Posso riattivarle!»
A quel punto, non si era destata solo la curiosità del gruppo Uno-Due, ma anche quella degli Strateghi. Compresa l’ultima arrivata.
«Ma lo può fare?» aveva domandato qualcuno in sala.
Certo, aveva pensato Felix, lo sguardo concentrato sullo schermo, dove il quindicenne si affrettava a disseppellire la prima mina per dimostrare ai suoi futuri assassini che diceva la verità. Ed era stato bravo, davvero. Perfino i Favoriti erano rimasti a bocca aperta e avevano convenuto di lasciarlo in vita – per il momento. Non solo, avevano perfino seguito le sue direttive per un piano veramente brillante.
«Potremmo creare una trappola» disse con voce tremula il tributo di cui Felix ignorava il nome. «Potremmo… prendere le provviste e racchiuderle nel cerchio delle mine riattivate e attirare qui gli altri…»
«Gli ordini qui li diamo noi, Tre» aveva risposto la femmina del Due, occhieggiando il suo compagno di distretto. C’era un certo cameratismo fra di loro che non era passato inosservato agli occhi vigili degli Strateghi, una certa sintonia che li rendeva appaganti da guardare anche quando uccidevano le loro vittime. Brutali, certo, non erano eleganti nell’uccidere, nessuno dei due, ma i sondaggi dimostravano che i loro spettacoli erano altamente graditi.
Solo che erano così sporadici.

Dovevano uccidere qualcuno, e alla svelta. Non potevano cavarsela troppo a lungo con la scusa degli aghi inseguitori, e dallo sguardo che il maschio del Distretto 2 rivolse alla compagna, Felix capì che se ne rendevano conto anche loro.
Per la prima volta in quell’Edizione, il silenzio calò nella Sala di Controllo. Tutti erano in attesa della risposta che avrebbe dato una svolta decisiva ai Giochi. E’ questo il bello dei Giochi, diceva sempre Seneca nei suoi discorsi motivazionali, che sono i Tributi a scegliere il loro destino. Noi, semplicemente, li accompagniamo lungo la strada.
Felix, che era stata un tributo, non la pensava proprio così. Nemmeno in quel momento, mentre attendeva con pazienza che il maschio del Due prendesse una decisione. Il tributo del Tre poteva riattivare le mine impiegandoci ore e ore di duro e disciplinato lavoro. Ma se a Seneca fosse parso più interessante uno scenario diverso, a Felix sarebbe bastato un secondo per attivarle da remoto e far saltare in aria il malcapitato.
«Fa’ quel che hai promesso» sentenziò infine il tributo del Due. «Ma bada di fare il tuo lavoro per bene mentre io e Clove andiamo in ricognizione. Marvel ti aiuterà»
Marvel non protestò, il ragazzo del Tre annuì e il silenzio calato nella Sala di Controllo si infranse mentre gli Strateghi tornavano al lavoro, animati dalla prospettiva di uno spettacolo esplosivo.
Inutile dire quanto Caesar e Claudius ricamarono sopra quella storia, per non parlare delle aspettative che Seneca, intervistato ad intervalli di tempo regolari, nutriva con i suoi commenti entusiasti e i sorrisi ammiccanti. Sul proprio tablet, Felix vedeva gli ascolti schizzare alle stelle e le scommesse farsi sempre più audaci.
Meno gente di prima, però, investiva sugli amanti sventurati del Distretto 12. Felix non ne era sorpresa. Il ragazzo era da qualche parte a dissanguarsi lentamente, vicino alla riva del fiume. La ragazza preferiva allearsi con la bambina del Distretto 11 piuttosto che andarlo a cercare.
Felix era contenta di avere ragione, come sempre. Ma la infastidiva quell’alleanza tanto improbabile.
Entrambi i tributi del Distretto 11 erano in vita ed entrambi avevano dimostrato di possedere delle abilità invidiabili: non solo conoscenza dei vegetali di cui si nutrivano e resistenza ad un ambiente ostile, ma anche inventiva e creatività. Felix non dimenticava che era stata proprio la bambina del Distretto 11 a suggerire alla ragazza del 12 di segare il ramo ospite del nido di aghi inseguitori.

Loro due erano state le vere artefici degli spettacoli di quei Giochi. In quanto Stratega – e lei era solo una Stratega, solo questo era, non avrebbe potuto essere nient’altro in tutta la sua vita – avrebbe dovuto essere felice che una squadra del genere avesse unito di nuovo le forze.
Ma era sbagliato. Era sbagliato che la sedicenne desse speranza alla dodicenne, che si raggomitolassero insieme nel loro sacco a pelo ad osservare il cielo privo di caduti, era sbagliato che indugiassero in quel contatto umano che nell’Arena non era concesso. Felix lo avvertiva come un infrangere le regole, come se fosse un attacco personale, diretto proprio contro di lei, che piegava la testa come tutti.
«Sono molto tenere, non è vero?» le disse Isaac al telefono quella sera.
«E’ un’alleanza insolita» rispose Felix, che si sentiva ribollire le viscere nel ventre. «Non durerà. Lei la ucciderà non appena ne avrà l’occasione.»
Non ne era veramente convinta, ma una parte di sé quasi ci sperava.
«Non credo» rispose Isaac, e Felix riuscì ad immaginare perfettamente il modo in cui si arrotolava il filo del telefono attorno alle dita. «Katniss si è offerta volontaria per la sorella che ha la stessa età di Rue. Solo… anche io mi domando quanto durerà»
«Questi Giochi sono molto impegnativi…» Felix sospirò nella cornetta. «Ho un turno molto presto domani mattina, devo chiudere.»
«Secondo te chi vincerà?» le domandò a bruciapelo il ragazzo.
«Non il Distretto 3» rispose la Stratega, conscia che nel momento in cui il loro tributo avrebbe terminato di sistemare le mine e la trappola, la sua utilità avrebbe fatto il suo corso.
«E’ un peccato, però. Sono sicuro che fosse il primo della sua classe. Peccato che non gli abbia portato niente di buono.»
Solo qualche giorno in più, pensò la ragazza. Era stanca, così stanca. Ed era certa che il giorno dopo sarebbe toccato a lei proiettare i volti dei caduti in cielo. Il Distretto 3 sarebbe finito fuori dai Giochi molto presto.
«Quando Beetee e Wiress torneranno li saluterai per me?» domandò lei.
«Certo» Felix chiuse gli occhi beandosi della dolcezza del suo tono. Non vedeva l’ora di tornare a casa.
Il giorno dopo, le cose sì che si fecero eccitanti. Felix quasi ebbe difficoltà a gestire l’impennata di scommesse registrate sul tuo tablet. Ma fece il suo dovere. Impedì ai vari baccelli di attivarsi se toccati, mantenne sotto controllo i tributi non coinvolti nel piano di Dodici e Undici, provò perfino un moto di ammirazione per Cinque, che aveva così abilmente evitato le mine.
Non batté ciglio quando Cato spezzò il collo al ragazzo del Tre.


«Sembra, quindi che ne siano rimasti otto, Caesar!»
«E che otto!» esclamò il presentatore tutto contento. «Abbiamo il gruppo dei Favoriti dimezzato e il resto dei tributi sembra perfettamente in grado di dargli del filo da torcere, perfino i giocatori più inaspettati!»
Ovviamente si riferiva a Rue, e probabilmente alla stessa Katniss. Ma anche la ragazza del Distretto 5 – Finch, le pareva – non era da sottovalutare. Le sue risa sulle macerie fumanti delle provviste le faceva domandare se però non stesse iniziando a perdere la testa, lì dentro.
Succederebbe anche a me, pensò Anice corrucciata, a quest’ora, i miei Giochi erano finiti e già stavo impazzendo.
La Vincitrice guardava lo schermo dove Caesar e Claudius discutevano animatamente del piano di Katniss, ma i suoi occhi erano ciechi. Vedeva solo un cielo bloccato in una perenne alba rosata, la neve intrisa di sangue, gli occhi violetti della volpe che la fissavano nella desolazione.
«Ci sei?» Johanna le sventolò una mano davanti agli occhi.
«Mh?» Anice sbattè le palpebre una, due volte, infine annuì. «Sì, scusa, mi ero un attimo persa nei pensieri…»
«L’ho visto» rispose l’altra Vincitrice, nervosa nonostante ostentasse la solita boria.
Visto che i tributi di tutti le presenti erano morti, ma nessuna aveva deciso di tornare a casa, le ex-Mentori si erano ritirate in un salotto privato, per poter assistere ai Giochi in pace. Lontane dagli occhi dei papabili Sponsor, non dovevano fingere alcunchè, se non l’ovvio.
Lo schermo mostrava Katniss che si muoveva guardinga nella vegetazione. Si intravedeva ancora il fumo dell’esplosione e la sedicenne, da cacciatrice, avanzava con la freccia già incoccata.
«E’ così palese che cacci di frodo» Johanna sbuffò. «E ovviamente nessuno la punirà per questo.»
Anice non si prese nemmeno la briga di rispondere. Avvertiva quella morsa alla bocca dello stomaco che ti prende solo quando sai che qualcosa sta per accadere, ma senza sapere esattamente cosa. Qualcosa di brutto, ecco la sola certezza. Non aveva dubbi sul fatto che in quel momento Katniss provasse lo stesso.
Per un istante, il cuore di Anice si sollevò nell’udire il motivetto a quattro note della bambina; Katniss si preparò a rispondere… e le grida di Rue infransero le loro speranze.

Katniss corse a perdifiato nel bosco, la telecamera puntata su di lei. Imporre il suo punto di vista si sarebbe tradotto in un boom di ascolti, di questo Anice non dubitava, come non dubitava nemmeno che alla resa dei conti finale dei suoi Giochi fosse stata lei il punto di vista principale.
E perché no? Ruben sapeva dove doveva andare e anche se aveva scordato contro chi avrebbe combattuto era certo di vincere. Anice, d’altro canto, sapeva solo che sarebbe morta per mano di un Favorito. La suspanse si crea empatizzando col più debole, dopotutto.
Anice si chiese perché stesse riflettendo così tanto suoi Giochi, quando faceva di tutto per dimenticarli da tre anni. C’era qualcosa dentro di lei che si muoveva, qualcosa che le faceva guardare quei giochi come se a partecipare fosse una persona a lei cara, e non ventiquattro sconosciuti che solo tre anni prima avevano significato terrore e incertezza per lei.
La stessa Cecelia fissava lo schermo con gli occhi sgranati.

Rue era intrappolata in una rete e chiamava aiuto, cercava Katniss, urlava e si dibatteva per sfuggire alla trappola. Per un istante sembrò che le cose si sarebbero sistemate: Katniss tagliò la corda con il suo coltello, l’abbracciò, le disse che ora che c’era lei era al sicuro. Ma qualcuno si mosse, proprio all’angolo più estremo dell’inquadratura.
Anice e tutta Panem videro con gli occhi di Katniss la lancia che penetrava nello stomaco di Rue, la macchia rossa che si allargava sulla sua maglietta, il corpicino che si afflosciava come un fiore reciso. La freccia di Katniss che trapassava il collo di Marvel, il singulto del ragazzo, il cannone che ne seguì.
Non v’era traccia di emozioni sul volto della Ragazza di Fuoco, impassibile mentre osservava il corpo esanime di Marvel. In quel momento Anice si rese conto che quella era l’ultima cosa che le sue prede vedevano prima di spirare.
Il colpo del cannone parve far ritornare in sé stessa la ragazza, che gettò arco e provviste a terra. Katniss stringeva la mano di Rue come se fosse lei in punto di morte, e non viceversa.

«Hai fatto saltare il loro cibo?» domandò la bimba con voce tremula.
«Fino all’ultima briciola»
«Tu devi vincere» sembrava che ogni parola le rubasse un po’ di vita. Stava morendo. Era così piccola…
Non parlare, pensò Anice suo malgrado, non parlare, risparmia le forze, andrà tutto bene.
Ma chi stava consolando? Rue o Delaine?
«Non andare via» supplicò Rue.
Katniss poggiò il suo capo sulle ginocchia e le sistemò i capelli dietro le orecchie, in un gesto così familiare, visto così tante volte e ormai precluso, che la vista di Anice si appannò.
«Certo che no. Sto qui con te…»
«Canta»

Le lacrime scivolarono sulle guance di Anice mentre vedeva Katniss guardarsi attorno alla ricerca di chissà cosa, gli occhi grigi che si soffermarono irrequieti sul corpo del ragazzo che aveva appena ucciso, lo sguardo che implorava aiuto.
Le ricordò qualcuno, una Vincitrice di qualche anno prima di lei, ma non avrebbe saputo dire chi. Era troppo occupata a cercare di esaudire l’ultimo desiderio di Rue. Nella sua mente echeggiavano le parole della ballata che aveva cantato sotto la doccia di ritorno al Distretto 8, quando il domani le sembrava veramente più gentile, e che le nubi dell’oggi non potessero durare per sempre. Quando credeva che vincere le avesse veramente garantito la vita senza paura che le era stata promessa.
Ma Katniss non conosceva quella canzone, e ne intonò un’altra, con una voce talmente dolce e sola e vulnerabile che Anice custodì nel suo cuore fino all’ultimo giorno.

«Là in fondo al prato, all’ombra del pino
C’è un letto d’erba, un soffice cuscino
Il capo tua posa e chiudi gli occhi stanchi
Quando li riaprirai, il sole avrai davanti.
Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio,
qui le margherite ti proteggon da ogni cruccio,
qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare
qui è il luogo in cui ti voglio amare»

Una parte di Anice riuscì perfino a stupirsi della bellezza della voce di Katniss. Non stava fingendo il suo dolore. Quelle lacrime, quei singhiozzi, erano veri. Quella era un’altra sorella che moriva.
Quante, ancora? Quante bambine prima che l’appetito di Capitol City si sarebbe saziato? Quanto c’era voluto perché Anice si rendesse conto che le cose non dovessero andare per forza così? Un’altra bambina, un’altra sorella. Un’altra innocente che risvegliasse la coscienza della colpevole.

«Là in fondo al prato, nel folto celato
C’è un manto di foglie di luna illuminato.
Scorda le angustie, le pene abbandona.
Quando verrà mattina, spariranno a una a una.
Qui sei al sicuro, qui sei al calduccio,
qui le margherite ti proteggon da ogni cruccio.
Qui sogna dolci sogni che il domani farà avverare
Qui è il luogo in cui ti voglio amare.»

Il silenzio cadde. Il cannone suonò. Johanna diede un calcio al tavolino e fece per andarsene, poi, come ripensandoci, optò per appoggiarsi sullo schienale del divano. Le telecamere interruppero il collegamento proprio mentre Katniss si chinava per baciare sulla fronte la piccola Rue.
Caesar e Claudius erano commossi quasi quanto Anice, che avvertiva le mani tremare e il cuore fremere nel petto.
Ancora quella cosa che si agitava nel suo petto.
Ancora quelle lacrime che non riusciva a controllare.
Ancora quel dolore che non aveva diritto di provare.
Lei aveva ucciso la ragazza che aveva confortato, nei suoi Giochi. Lei anche aveva stretto amicizia e l’aveva ammirata, aveva perfino fatto il tifo per lei. E poi aveva aperto un sorriso di sangue sulla sua gola e le aveva rubato i vestiti per stare al caldo.
Katniss invece…
Sono due cose diverse, si disse tentando di trattenere i singhiozzi, ma era veramente così? Lo erano sul serio, oppure aveva ragione?
Dyneema le aveva detto che le sue azioni nell’Arena non definivano chi era. E allora cosa? E allora cosa?
Glielo aveva chiesto e non aveva ricevuto risposta, ma più guardava quell’Edizione, più si convinceva che Dyneema avesse torto e che nemmeno Anice stessa avesse ragione.

Lei e Cecelia si guardarono negli occhi e scambiarono la stessa occhiata con Johanna. Non c’era bisogno di parole, lo sapevano tutte: erano le azioni in quella specifica Edizione, in quella specifica Arena, che avrebbero – avevano – definito le persone che erano.
Quell’ultima immagine, quell’ultimo fotogramma prima che il girato venisse brutalmente tagliato per passare ad altro, confermò alle tre Vincitrici che quello che era accaduto lì dentro avrebbe cambiato tutto. Gli Strateghi erano costretti a mostrare il recupero del corpo e non poterono evitarlo.
Katniss aveva ricoperto di fiori il corpo di Rue.









NdA:
Ciao a tutt
ə e auguri! Dopo poco più di un anno di attesa, siamo tornate con la seconda parte di Vittima della Mia Vittoria, e finalmente si entra in territorio noto: d'ora in poi, seguiremo gli eventi della saga dal punto di vista delle nostre amate Felix e Anice! Questa seconda sarà più breve della prima, ma non meno ricca di emozioni. Come potete vedere, la salute mentale scarseggia in questi lidi.
Il titolo della parte due è un verso tradotto della canzone Abraham's Daughter degli Arcade Fire, tratta dalla colonna sonora del primo film di Hunger Games. Il banner invece è una creazione di Marta, che ha scelto come fiore l'elleboro il cui significato è il cambiamento.
Speriamo di farvi un regalo gradito <3 attendiamo con ansia il vostro parere.
A prestissimissimo e auguri di buone feste a tuttə!

Superkattiveh






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