The rat who has
seen the stars
“Dannazione, Levi—” è più un gemito che un rimprovero.
“Non dovresti essere qui—”
Levi prende un respiro profondo, volta la testa dall’altro
lato del cuscino ingiallito.
Gli occhi non li apre neppure.
Non ha bisogno di farlo per vedere l’espressione contrariata del volto di
Erwin, bastano i suoi stivali contro le assi del pavimento, che scricchiolano
ad ogni passo, lamentosi più di lui.
“Ti avevo detto di andare da Hange. Perché non lo hai
fatto?”
“Avrebbe infilato le sue manacce ovunque, come al suo solito.”
Erwin sospira grave. Levi fa altrettanto.
Siede sul bordo del materasso irregolare, su di un punto che quasi non fa
sentire la sua presenza.
Lo fa ogni qualvolta vuole dargli fastidio o almeno, questo è quello che si
ritrova a pensare Levi.
(Perché Erwin sa quanto ami averlo lì, seduto sul suo letto. Lo ama così tanto
da amare anche le ragioni che lo portano ad avere Erwin lì – il che è
decisamente un paradosso).
La mano che gli si posa sulla fronte è una mano gentile, e fa male.
Levi sussulta.
“Per quanto ancora hai intenzione di restare in questo
stato?”
Il vento umido batte contro la finestra; le sue lingue si
insinuano attraverso i cardini e lo ghermiscono come rovi.
“Passerà,” continua ad occhi chiusi, impegnato a camuffare il freddo con il
fastidio. “Non è niente che non abbia già vissuto.”
“No, non è così. È ancora tutto nuovo per te,” asserisce
Erwin stanco.
La mano ancora sulla sua fronte, pesante e dolorosa. “Laggiù l’aria è
differente.”
“È l’aria dei culi dei privilegiati che vivono in superficie, lo so.”
“Non è solo questo,” si corregge, “Qui è pieno di roba che
potrebbe ucciderti,”
Sembra una beffa.
La pezzuola sbrodola l’acqua in eccesso nel bacile, ha lo stesso suono della
pioggia.
Levi la ricorda ancora, la prima pioggia che ha visto e sentito sulla pelle.
Pensa sia un po’ colpa sua se i volti di Farlan e
Isabel abbiano cominciato a svanire dalla sua mente così in fretta; è come se
bagnandoli, la pioggia ne avesse accelerato la decomposizione.
Levi continua a tenere gli occhi chiusi, perché non ama l’acqua negli occhi.
Di nessuna natura essa sia.
Continua a farlo anche quando la pezzuola completamente strizzata di Erwin
prende il posto delle sue mani.
La loro assenza fa male come solo la loro assenza sa fare.
“Il tuo volto è in fiamme,”
“Passerà—” dice, quasi a labbra serrate.
I rovi gelati si stringono e si annodano creando solchi intorno al suo volto,
alle caviglie, alle braccia, al torace, che si incazzano e si gonfiano
pretendendo di uscire dalla paratia di pelle che li costringe a stare ancora al
loro posto.
“Dovresti andare da Hange.” Ci riprova, Erwin.
Il vento fuori dalla finestra minaccia di abbattere i vetri sputando pioggia e
ansiti, e sospiri che fanno vibrare tutto, incluso il suo mondo.
“Dovresti andare davvero da lei, Levi.”
Un lembo della pezzuola gli lecca le tempie.
Levi scosta la testa infastidito, sfiletta aria tra i denti.
“Non voglio andare da quella quattrocchi di merda.” lamenta con voce incrinata.
Forse più di quanto dovrebbe e vorrebbe. “Lasciami scegliere, per una buona
volta.”
“Se non lo farai tu, allora sarò costretto a chiamarla io per te.”
Levi apre gli occhi. Anche se la odia davvero, l’acqua negli
occhi.
“Stai mentendo”
Soprattutto, odia quella che nasce come gocce, per poi tramutarsi in rivoli.
Ma ha bisogno di vederla la smorfia di Erwin, questa volta.
Ha bisogno di vedere come le sue labbra si serrino, e le pieghe agli angoli
degli occhi si infittiscano.
“Non ti ha ancora perdonato dall’ultima missione.”
Erwin schiude la bocca, e Levi rimane incantato dalla
tristezza che il suo volto emana.
Lo osserva mentre ferito piega il collo imponendosi una imperturbabilità che
vacilla.
Ritira la pezzuola dalla sua fronte, pensa a cosa dire.
“Hange è un ufficiale di alto rango. Sono sicuro farebbe un’eccezione, vista le
tue condizioni.” finge di non essere a disagio, ma lo è.
“Non lo farebbe comunque.”
Erwin puntella i palmi, abbandona l’angolo del letto senza far rumore. Ritto
come un albero secolare, impone e ricompone la sua autorità.
“Hange non parlerebbe con te.” Insiste Levi, lo sfida
ancora.
Erwin volta le spalle.
“Allora dovrai andare tu da lei.”
E quell’ordine è capace di farsi sentire anche più
dell’ululato del vento.
Più della pioggia che diventa grandine, più di una tormenta di spilli e schegge
che si ammassano tutte contro la finestra e picchiano, picchiano, picchiano
affinché il vetro cede e si incrina.
“Vai da Hange, Levi.”
Levi digrigna i denti, volta la testa dall’altro lato del cuscino, gelido e
umido.
“Sei un fottuto bugiardo, Erwin.”
**
“Non è ancora finita.”
Un gemito lancinante, e Levi si sveglia.
Lo fa mentre è ancora riverso a faccia in giù. La bocca e le narici invase
dallo sterro, gli occhi pieni di fango, e sangue e merda e Dio solo sa
cos’altro.
“Stringi i denti,”
“Non è ancora finita, Levi—”
La voce di Erwin arriva prima della sua agonia.
Prima che senta il suo braccio destro venire come tranciato di netto da mani
che stringono lacci e annodano e piegano e bruciano ubbidendo a protocolli
dettati da una bacchetta su una lavagna in ardesia e non certo da urla.
Neanche se quelle sono le sue.
E non è neanche come si racconta, no.
Il fatto che il cuore di Erwin adesso batta contro il suo orecchio (in
dimostrazione che non ha ancora mantenuto la sua promessa di sacrificarlo a
qualcosa di oscuro, così come di tanto in tanto urla ai quattro venti di fronte
a un centinaio di soldati incantati) può averlo ingannato, certo – può avergli
dato una parvenza di conforto, insieme a quel palmo che impedisce alla sua
testa sudicia di andare altrove, ma la verità è che se a un certo punto Levi
smette di urlare, è perché non ha più voce né aria.
Perché altrimenti avrebbe continuato a farlo, anche solo per il semplice fatto
di essersi pisciato sotto.
“Shhhh,” lo culla, come al
solito (come lo ha sempre cullato in momenti simili senza che lui ne riesca
anche solo a capire il motivo), “Sei stato bravo, Levi—”
E Levi vorrebbe vederlo, perché da che ha memoria, non c’è
mai stato nessun ‘sei stato bravo’ di Erwin
che non sia stato detto anche dai suoi occhi buoni, ma la controluce è una
bestia crudele che gli dice ‘shhhh, accontentati,
Levi. È già tanto se puoi ancora vedere qualcosa, sai?’ – e Levi lo
fa; scende a compromessi, si accontenta.
In fondo, chi nasce topo di fogna non sa neanche cosa siano le
ambizioni, e anche quando lo scoprisse, sa che comunque, non se ne farebbe
nulla.
(Solo perché un topo di fogna ha visto le stelle non significa certo che siano
lì per lui.)
“Ora ascoltami,” dice, e lo dicono anche i suoi pollici
sugli angoli degli occhi, “ascoltami bene, Levi.”
‘Accontentati, Levi—'
“So che è difficile da credere, ma non è ancora finita.”
Il terreno trema: un centinaio di giganti stanno arrivando lì tutti insieme,
tutti di corsa.
Ricongiunti dal grido di qualcuno, si lanciano ed esplodono sotto una
controffensiva di cannoni e lance fulmine.
“Cosa vuoi che faccia?”
Erwin piega la sua schiena in avanti. Gli stringe i fianchi con le gambe come a
tener saldi e caldi entrambi.
“C’è il mare laggiù, riesci a vederlo?”
No che non ci riesce, cazzo.
In quegli occhi c’è finito di tutto, c’è finito ogni orrore. Erwin
sembra capirlo prima che il braccio buono (sempre che Levi lo abbia ancora, un
braccio buono) possa anche solo tendersi.
Il fruscio di tessuto fende l’aria con un piccolo schioppo, poi il solito lembo
di fazzoletto – il suo fazzoletto – sugli
occhi.
Il fazzoletto che Erwin sembra portare con sé con il solo scopo di restituirgli
qualcosa che gli è stato tolto, che sia la vista o la calma, quando ne
ripulisce il viso dal fango. Sempre.
“Riesci a vederlo adesso?”
Prima di guardare l’indice sfocato di Erwin, Levi poggia lo sguardo su punti
più amichevoli di quella luce così violenta: è in una grotta; una tana, con
molte probabilità.
Nell’oscurità alle loro spalle, animali famelici potrebbero voler addentare le
loro carni più di quei titani che si agitano lì fuori, ma non importa.
Non ha memoria di come ci sia finito lì, né ha il tempo di rifletterci.
“Levi, concentrati—” richiama Erwin, indirizza il suo mento verso il punto che
vuole che veda.
Le sue retine bruciano anche se ridotte in fessure. Il
bagliore della luce esterna è insopportabile.
“Lo vedi il mare?” insiste. “Si fonde con il cielo. È importante
che tu veda l’orizzonte. Riesci a distinguerlo?”
“S-sì.”
Erwin ha la risposta che desidera. Sente il suo torace sgonfiarsi mentre esala
un respiro che sa di sogni traditi.
Lo fa solo per un attimo. Poi, lo sente di nuovo addosso. Sente la mano di
Erwin chiudersi sulla stoffa del suo torace, l’altra – del tutto inattesa, inaspettata
– circondargli la schiena.
“Muoviamoci. Hange e gli altri sono già dall’altro lato.”
“Hange e gli altri?”
Non si cura di dar risposta al suo sibilo confuso.
Erwin lo costringe in piedi insieme a lui, ma le sue gambe non funzionano.
Per qualche ragione, nessuno dei due ne è sorpreso.
“Non rimane molto tempo. Dobbiamo andare.”
“Vai tu,” dice, senza quell’indugiare che lo avrebbe reso
realistico. “Io non posso attraversarlo.”
Levi ringrazia il suo collo ciondolante in avanti e la schiena ingobbita.
Perché gli permettono di nascondere il volto, e questo un po’ lo scherma alla
vergogna: sa che le braccia di Erwin non lo lasceranno e probabilmente, sa
anche che è l’unica ragione per cui parla così.
“Non puoi non farcela, Levi. Devi raggiungerli anche tu.”
“E come cazzo pensi che io possa farlo? Non sento le gambe,
idiota—”
Ritrova le sue gambe avvizzite avvolte nel mantello del
comandante prima ancora che una nuova protesta finisca di disperdere nell’aria
ciò che secondo lui Erwin Smith non può fare, e altre stronzate.
“Ti porto io. Andiamo.”
Risuona nel suo torace in due tempi, in leggero in
disaccordo con il ritmo del suo cuore.
**
“Non mi chiedi perché ti ho convocato?”
“Non voglio gonfiare ulteriormente il tuo ego.”
Levi trova che con il frinire delle cicale in sottofondo,
quella frase riecheggi proprio bene.
Non ha permesso a quel coglione di Flagon di
trascinarlo per il bavero come avrebbe voluto: da Erwin, Levi è andato con i
suoi piedi.
“Caposq—” Flagon si
interrompe, “Comandante”, si corregge
arrossendo, “l’ordine era quello di attendere nel suo ufficio, ma questo—”
ancora, la sua lingua incespica in parole che crede non si addicano al livello
da sé supposto “—questa sorta di ratto di fogna dimostra giorno dopo
giorno di non conoscere le più basilari norme di civile convivenza!”
“Va tutto bene, Flagon. Puoi
andare. Ci penso io a lui.”
È pomeriggio inoltrato, eppure la luce del giorno è ancora talmente potente da
rendere le braccia che Erwin immerge nel secchio come incandescenti. Tira su
l’acqua sugli avambracci scoperti senza fare troppo rumore, non schizza nemmeno
più di tanto. Ciò che solleva, è più simile a quella spruzzata di punti
luminosi di cui si è già tinto il cielo lilla che sulla testa di Levi ha preso
il posto della roccia.
“Allora?”
“Oggi Hange ti ha atteso in infermeria per ore, ma non ti
sei fatto vivo.”
“Ah,” Levi espira, fa finta che farlo non faccia così male.
“Adesso tu e la quattrocchi di merda vi parlate di nuovo?”
Neanche il suo silenzio fa poi così male, si dice.
“Chi te lo ha detto?”
“Mi è stato riferito.” Erwin immerge di nuovo le braccia,
sciacqua anche il viso. Ancora punti luminosi, Erwin Smith è una fottuta
creatura celestiale, cazzo. “Non è
difficile sapere quando Hange è alla ricerca di qualcosa o qualcuno—”
“E ti hanno anche riferito il perché?”
Erwin finisce di asciugarsi volto e braccia con un telo che
ha raccolto dal bordo del pozzo e che ha lo stesso colore della sua camicia, e
se non sembrasse emanare luce già così, allora arriva anche il tramonto alle
sue spalle a rendere la sua figura ancora più insostenibile alla vista.
Erwin tace nel tempo in cui riorganizza le immagini formate dalla sua mente,
poi borbotta qualcosa tra sé e sé che alla fine, gli tende le labbra in uno di
quei suoi sorrisi fastidiosi che Levi non ha ancora imparato a decifrare.
“Dai, vieni qui—” dice sogghignando bonario. Uno dei carri lì accanto ha ancora
delle scorte, Erwin sembra sapere bene dove mettere le mani, quali bauli e
casse aprire.
Si volta all’improvviso: “Riesci a camminare?”
“Come cazzo sarei venuto qui, secondo te?” imprecando
mentalmente ad ogni passo, ecco come.
Sull’erba avanza a piccoli passi: non si è ancora abituato a sentirla
scricchiolare sotto i suoi piedi, ma la preferisce alla pietra; è più gentile
con le sue ossa malandate.
Erwin lo solleva di peso sul bordo del carro quando
incespica fin troppo.
Lui si lascia sollevare, perché sì – incespica fin troppo.
Quasi non si accorge delle mani di Erwin che gli liberano il
torace da stoffa, imbracature, garze – tutta roba di cui sente di non aver più
bisogno dal momento in cui arriva quel tocco, saldo e fresco.
I suoi denti liberano un brivido e con esso, anche tutta la volontà di non
dargli alcuna soddisfazione.
“Maledizione,” borbotta Levi a capo chino; la testa bionda
di Erwin fa finta di non sentire, le mani bianche di non esitare.
“Posso rifare la medicazione e cambiare il bendaggio,” dice
serio, srotolando un rotolo di garza sul palmo, “Poi però dovrai andare da
Hange e farti sistemare meglio da lei. Con queste cose è più brava di me.”
“Con queste cose fa schifo più di te, vorrai dire.”
Divertito, Erwin leva uno sbuffo dal naso. La sua mano sulla
nuca lo piega in avanti, più di quanto la sutura che ha sulla schiena avrebbe
bisogno per essere esposta a ciò che rimane del giorno, ma meno di quanto ne
abbia bisogno lui.
Levi recupera la distanza, affonda il naso contro la sua
spalla; scopre così che anche la luce ha un odore.
**
“Raccontami del sottosuolo,”
Nello stesso luogo, in un momento del passato poco definito,
Levi aveva visto Erwin lavarsi le braccia circondato da un luccichio simile a
quello delle stelle.
Quelle stesse braccia sono adesso strette intorno al suo corpo, e le stelle
sono tornate al cielo.
Nulla sarebbe fuori posto, se non la curiosità spicciola di Erwin che si
solleva nell’aria fredda della notte con piccoli sbuffi candidi.
“Del sottosuolo?”
“Sì.”
Levi muove un po’ la testa di lato. È così vicino ad Erwin
che le sue ciglia sfiorano il suo collo nudo come tante piccole dita che si
accertano della sua presenza.
Riflette sulla domanda. Fuori posto.
“Non ho niente da dirti sul sottosuolo che già non sai.”
Torna a guardare le stelle vibrare.
“In realtà, non so molto al riguardo,” dice Erwin, “Non me
ne hai mai parlato davvero.”
Ed è così onesto nella sua ammissione, così ingenuo anche
solo nel modo in cui la annuncia che per qualche ragione, Levi prova disagio:
all’improvviso, è come se realizzasse di essere rannicchiato sulla spalla di un
ragazzino.
“Cosa vuoi sapere?” Calca il fastidio, giusto per non fargli sapere di non
avere idea da dove cominciare.
La spalla sotto la sua guancia si contrae, Erwin finge disinteresse.
“Raccontami qualcosa. Qualunque cosa.”
Levi sente la fronte aggrottarsi come ogni qualvolta si trova di fronte a
qualcosa che non capisce (e Levi ha imparato a temere qualsiasi cosa non
capisca. Anzi, potrebbe partire direttamente da lì: nel sottosuolo, non capire
equivale spesso a morire).
“Le stagioni, ad esempio—” avanza, in suo soccorso. “Tenete
conto delle stagioni, lì sotto?”
“Di cosa cazzo stai parlando?”
“Oppure le stelle.” incalza ancora, cambiando subito
argomento. “Gli abitanti sanno della loro esistenza?”
Le dita che Erwin infila tra i capelli della sua nuca sono lì anche per
levigare le parole che sta per formulare, come se il suo animo non potesse
permettersi spigolature, o altre crudeltà.
Levi non sa perché sappia queste cose del comandante; come
le abbia scoperte, quando le abbia imparate – sa solo che le sa, il che non è
per forza un bene.
Se non le sapesse, adesso non starebbe certo lì a sospirare decidendo di
accontentarlo.
“Laggiù nessuno sa un cazzo di niente di queste stronzate, e
anche se lo sapessero, non gliene fregherebbe nulla.”
“Davvero pensi sia così?”
“Certo che è così.”
Levi si volta pigro su di un fianco e all’improvviso, si
sente come autorizzato ad allungare un braccio verso quel torace grande e caldo
che ha sotto la coperta accanto a sé.
L’unica mano rimasta ad Erwin gli preme sulla coscia nuda e lo stringe al suo
costato. Ed è più di quanto Levi sperasse, per questo cede ancora un po’.
Solo un pochino, si dice ad occhi chiusi.
“Chi nasce nel sottosuolo trascorre la propria vita a
tentare di raggiungere il mondo in superficie.”
blatera Levi, i suoi polpastrelli scorrono sulle linee irregolari che Erwin ha
sul petto, vecchie cicatrici guarite più o meno bene. Poggia la testa sul suo
torace, la sua voce ha un eco diverso.
“Anche quello è un po’ come guardare alle stelle.”
Levi apre gli occhi.
“Da sempre le osserviamo ponendoci domande e interrogativi.
Sembra che le stelle siano state messe lì proprio per ricordarci che siamo
tutti alla ricerca di qualcosa che non possiamo avere, di un mondo che non ci
appartiene ma a cui aspiriamo…”
L’odore dolciastro del sambuco lì accanto era inizialmente
gradevole. Levi non sa dire quand’è che abbia cominciato a dargli la nausea.
“La gente del sottosuolo desidera il mondo in superficie,
noi quello oltre alle mura. La gente oltre le mura, chissà…” si interrompe, fa
una pausa per sospirare, “probabilmente guarderà le stelle e penserà che siano
solo stelle…”
“La gente oltre le mura? Ma che diavolo stai dic—”
“Tu cosa desideri, Levi?”
Non è la domanda, ma la velocità con cui ogni centimetro del suo essere sarebbe
pronto a gridare la risposta, a lacerarlo.
Levi desidera solo che domani lui non vada. Solo questo.
Desidera che Erwin affidi il comando dell’operazione di recupero del Wall Maria ad Hange, o a Klaus, o a qualsiasi altro soldato
di merda della sua legione, e che lui rimanga lì.
Desidera solo che Erwin non guardasse quelle stelle con gli occhi di chi aspira
a qualcosa che non può avere.
Non ha bisogno di rifletterci, non ha bisogno di sentire la domanda un’altra
volta.
Levi desidera solo essere abbastanza quando, in realtà, è solo un topo.
Un ratto a cui il caso ha concesso di uscire fuori dalle fogne e vedere le
stelle.
“Perdonami, mi rendo conto che è una cosa strana da chiedere…”
Le scuse si disperdono nell’immobilità del firmamento e delle sue labbra.
Levi ingoia qualcosa che fa rumore. Puntella i gomiti sulla
coperta umida di guazza, cerca di scorgere il viso di Erwin, nel buio ma la
luce è sufficiente solo ad illuminarne appena i tratti.
“Dì un po’: la quattrocchi di merda ti ha per caso fatto bere uno di quegli
intrugli che cerca propinare a tutti prima di ogni battaglia, o cosa?”
Il petto di Erwin si solleva in piccoli sbuffi divertiti, ma
di divertente, Levi non trova proprio nulla.
Scuote la testa.
“No, Hange non mi ha dato proprio nulla, questa volta.”
**
“Comandante!”
“Comandante Erwin!”
“Allarme! Il Comandante Erwin è stato colpito!”
Levi sa due–tre cosette circa l’uso del pugnale.
Sa ad esempio che una lama che si muove verso l’alto è in grado di provocare
notevoli danni alla spina dorsale, e che raramente lascia scampo. Sa che
colpire alle spalle è da vigliacchi, ma spesso chi lo fa non ha altra
soluzione: o lui, o l’altro. O gli altri. E in casi simili, beh…
Sa anche che chi colpisce con un tale fendente per poi scappare non è uno
qualunque, perché ci vuole una certa assuefazione a questo genere di cose per
restare sulle proprie gambe dopo aver pugnalato un uomo, ancora di più se
quell’uomo è il Comandante del Corpo di Ricerca.
Sotto al portico, Erwin cade a terra e nessuno dei presenti riesce a frenare la
sua caduta.
Miche corre
all’inseguimento dell’assassino, Moblit grida il suo nome prostrato al suo fianco
insieme ad altri soldati che in pochi istanti gli si riversano intorno.
Levi non si muove.
Sotto la pioggia battente osserva la scena con l’immobilità di chi vede di
fronte ai suoi occhi qualcuno sfilare la via la stringa che tiene insieme tutto
il suo corpo, e freme.
Freme senza dire nulla. Freme perché in quelle urla è tutto confuso, stonato, inafferrabile.
Tutto è come adesso è Erwin, che all’improvviso smette di essere Erwin e
diventa un ricordo lontano, seppellito e sbiadito nel tempo, come i ricordi
d’infanzia.
Come qualcosa di cui non riesce a scandire bene l’ordine degli eventi, il prima
dal dopo.
Il sogno da ciò che è reale.
Ciò che ha vissuto da ciò che ha solo immaginato, o desiderato, o bramato come
si brama solo l’aria.
Ed è anche colpa
della pioggia, pensa Levi. Perché la ricorda ancora, la prima pioggia che sentì
sulla propria pelle. Ricorda anche che lo confuse a tal punto da fargli credere
fosse una cosa bella.
“Erwin—” Ogni lettera del suo nome ha un prezzo, e Levi è disposto a pagarlo
tutto: tagli aguzzi alle labbra, chiodi, aghi che tirano fili che Levi non
riesce a vedere. Tutto. “Erw—Erwin.”
Le sue gambe si
muovono. Lo fanno anche se sono più simili a paletti piantati in una terra
piena di ostacoli rigonfi. Levi abbassa gli occhi, e dove c’era il lastricato
trova un tappeto di corpi dormienti, forse cadaveri, incastrati uno accanto
all'altro come cucchiai.
È già accaduto in
passato.
Erwin aveva anche dato un nome a questa cosa, Hange ne aveva spiegato i
dettagli dopo averlo esaminato così a lungo da scoprire di avere convissuto per
tutti i suoi anni con parti del proprio corpo di cui ignorava l’esistenza.
Quelle cose non sono realmente lì. Non lo erano allora e non lo sono
neanche adesso.
E se non sono lì, non è necessario neanche che guardi quei volti nel tentativo
di riconoscerne i tratti.
Se non lo farà, non avrà neanche la nausea, si dice. Non finirà in un angolo
dei depositi con occhi barrati e la testa tra le mani, perché Erwin non potrà
comunque recuperarlo questa volta, e senza Erwin è un casino.
Senza Erwin, è un gran casino.
Ma è tutto a posto: se li ignorerà, loro lo ignoreranno. Potranno continuare a
dormire indisturbati, lavati dalla pioggia e lui potrà avanzare.
Lui potrà raggiungere Erwin prima che i fantasmi di quegli stessi corpi lo
portino via.
Levi li scansa uno
dopo l’altro con rispettoso contegno, solleva le gambe pesanti e dolenti, raggiunge
il portico.
“Erwin!” prova a
gridare, ma non esce che un sibilo. Inciampa, incespica. “Erwin!”
Ma non cade, non
cede – non si arrende.
Ed è ridicolo che una sola mano che sbuca dall’oscurità di una colonna l’abbia
vinta dove centinaia di braccia tese come steli hanno fallito.
Gli copre la bocca
bagnata, non ha bisogno neanche di premere più di tanto: lo trascina con sé
nell’ombra prima che abbia il tempo di realizzarlo.
“Non ti muovere.”
Riconosce quel fiato umido contro il suo orecchio.
“Hang—”
“Zitto!” Serra la
stretta, scuote le guance dissuadendole dal voltarsi. Levi perde il respiro. “Non
una sola parola, Levi.”
Ma è la lama calda del pugnale puntato alla gola però a compiere il vero
disastro.
Parla alla pelle, rivela verità che solo lei è in grado di interpretare. Il
sangue di Erwin.
Quello che gli sta sbavando minaccioso addosso, è il sangue di Erwin.
Ne porta in qualche modo anche l’odore, la viscosità– ne porta ciò che la sua
persona sarà in grado di riconoscere sempre, ovunque, per sempre.
“Non costringermi a fare a te ciò che ho fatto ad Erwin.”
In condizioni normali una frase simile porterebbe il cervello a mollare
qualsiasi cosa sia stato impegnato a fare, per poi farlo esplodere.
Levi non è sicuro che non lo abbia già fatto.
Levi non è neanche sicuro di non augurarsi che non lo abbia già
fatto.
Attraverso lo spazio
tra le dita, Levi aspira come se stesse immagazzinando aria a sufficienza per
urlare, pur sapendo di non poterlo fare.
Avanza di qualche
passo sotto la spinta del torace di Hange; la lama del pugnale sempre al collo,
la mano alla bocca. Preme più di quanto le spalle gli concederebbero prima che
gli stimoli di dolore confermino che sì, il cervello è ancora lì– grazie
tante. Non è detto possa usarlo, però.
Hange-ha-ucciso-Erwin è un ingranaggio rotto, un liquido colloso che ne
rallenta il funzionamento.
Hange scruta
guardinga intorno a sé, attende che un gruppetto di reclute affannate raggiunga
l’altro lato del patio, poi serra il petto alla sua schiena, e lo costringe a
seguirla.
“Dobbiamo andare via
da qui, forza. Muoviamoci!”
“Via dove?”
Lo spinge a calpestare insolente tutti i cadaveri dalle braccia tese verso
stelle invisibili, la domanda sembra adesso rimbalzare di palmo in palmo, proprio
su di loro.
Dove?
“Via.”
**
“Levi—”
L’inferno è questo. Levi non ha dubbi.
È il suono della voce di Erwin che si confonde con lo
sfolgorio di una torcia indispettita ma non arresa alla pioggia. Sono le chiome
di alberi giganti che si agitano intrappolate in un cielo nero e denso come il
carbone, è quello stato di terrore, di confusione e di paradossale lucidità che
subentra in sogno nell’istante in cui ci si accorge che non è un sogno ma il
preludio di un incubo, e non ci si sveglia.
Perché non si è ancora in grado di farlo. Perché si è stretti così forte sotto
quelle mani un tempo amiche che nulla al di fuori di quella morsa appare reale.
“Erw—”
Hange arresta il passo.
Lo fa come se per tutta la vita non avesse fatto altro che esercitarsi per quel
momento, in quel posto, su quell’erba.
Si volta di colpo, lo trascina con sé nel movimento, e Levi lo vede.
Vede la luce della sua fiaccola dar vita alla sua figura
solo per metà, ed è così bello, Erwin.
È così bello che se non le sue labbra, a dirglielo saranno allora i suoi occhi,
che si riempiono d’acqua, che scende giù sulle dita di Hange e dice ‘quanto
sei bello, Erwin. Quanto sei bello.’ (e ‘quanto mi sei mancato, Erwin, quanto
mi sei mancato’).
“Sei viv—”
“Shhh, zitto!” è un
sussurro incrinato, fragile ed incerto come mai un ordine dovrebbe esserlo.
La punta del coltello che punge e ferisce il suo pomo d’Adamo aggiusta il tiro,
ma Levi non sussulta nemmeno.
“Un altro passo e gli riservo il tuo stesso trattamento,
Erwin. Io non scherzo.”
Erwin prende un respiro, stira le labbra in una linea
sottile, e sì – è l’Inferno.
Levi lo pensa davvero.
“Abbassa quel pugnale, Hange. Tu non lo farai.”
“Vuoi vedere?”
Erwin scuote la testa, Hange striscia la lama del pugnale da
un punto all’altro del volto di Levi, che vorrebbe urlare, e lo potrebbe anche
fare, visto che non ha più le sue dita umidicce sulla bocca, ma non riesce.
Perché Erwin non si muove, ed Erwin non può non muoversi. Non ha senso che non
si muova.
Non può osservare come una statua di granito la quattrocchi di merda sclerata e
starsene lì, fermo sotto la pioggia battente a guardare, e respirare, e
scuotere la testa piano mentre il suo cuore – Dio, perché riesce a sentire il
suo cuore? – non si agita. Non si scompone, non si ferma come si è fermato il
suo a un certo punto e diamine – diamine, Erwin, perché osservi tutto questo
e non fai niente?
È quanto le sue lacrime nuove – quelle rosse, quelle versate
da un occhio che si spegne – gli dicono.
“Ti basta come prova, Erwin?”
Erwin chiude gli occhi, abbassa il capo. Rimane per un
attimo così, poi scuote ancora la testa.
Lo fa in un modo diverso da prima.
“Posso fargli anche di peggio, se vuoi.”
“Erw—”
“Ti ho detto di stare zitto!”
“Non serve che tu faccia altro, Hange,” si interrompe, fa
una pausa.
“Sai anche tu che non è così che sono andate le cose.”
Lo sterno dietro la sua schiena rimane per qualche istante
fermo e immobile.
Poi, riprende a respirare ad un ritmo nuovo, lento, controllato.
Erwin comincia ad avanzare, e
Levi sente il bisogno viscerale di andargli incontro, di raggiungerlo prima che
lo faccia lui, e non sa neanche il perché, e non sa il perché pensi che il suo
desiderio sia così forte da poter essere percepito anche da Hange, e anche da
Erwin, e anche da tutto quel bosco di alberi giganti che di colpo comincia ad
agitare le fronde scosso da un vento ostile che prima non c’era, e che gli sputa
in faccia pioggia e lamenti, e mormorii convulsi mentre inciampa sotto la
spinta del braccio di Hange che lo trascina con sé, arretrando.
“Stai indietro.”
“Sono dalla tua parte, Hange.”
“Stai indietro, ho detto!”
Hange si arresta, e lo sente anche lui, il ciaf-ciaf sotto la suola dei
suoi stivali.
Lo sente prima di avvertire lo sciabordio dell’acqua oscura che intravede sotto
di sé con la coda dell’unico occhio che gli è rimasto. La quattrocchi di
merda impazzita indietreggia ancora di qualche passo, cede al ricatto
quando ha la conferma che no, non è una semplice pozzanghera.
Alle loro caviglie c’è un lago o un fiume. Forse persino il mare. Quella
distesa blu che Levi non ricorda se ha già visto o se ha solo immaginato
ascoltando i discorsi sciocchi delle reclute in uno di quei momenti in cui ha
pensato che sì, il mare poteva anche farsi fottere.
Da bravo ratto, non avrebbe saputo cosa farsene di una distesa d’acqua salata.
Da bravo ratto, lui alle stelle avrebbe continuato a chiedere Erwin.
“Dannazione—” la presa di Hange si allenta, i muscoli delle sue braccia perdono
tonicità mentre volta la testa a destra e poi a sinistra delle sue spalle,
braccata. “Dannazione.”
Erwin rallenta il passo, c’è della rispettosa pietà nella
scelta di farlo.
E viene da ridere, è quasi una barzelletta di cattivo gusto, come tante altre
cose da un po’ di tempo a questa parte.
Come quella pioggia divenuta una manciata di aghi pungenti che Levi sente
picchiettare sulla schiena, come se non fosse già carica d’acqua.
Ma è solo un sottofondo, e i sottofondi sono facili da
ignorare, no?
C’è il respiro di Hange che si ingrossa, si inceppa più volte mentre abbassa le
braccia ai fianchi, e Levi sa che non avrà una seconda occasione: se vuole
allontanarsi, deve farlo subito. Eppure, qualcosa dentro di sé lo fa esitare,
una sorta di senso di pentimento, come ingratitudine verso qualcosa – ma
cosa, di preciso, Levi non sa dirlo. Ed anche questa volta – Levi ne è sicuro –
è colpa di quella cazzo di pioggia.
Avanza di un passo, poi incerto, di un altro. Smuove l’acqua
sotto ai suoi piedi, si sorprende di riuscire a compierne un terzo, quasi ne è
deluso, ma Erwin è così vicino, e il suo unico occhio così abbagliato da quella
torcia che d’improvviso sembra avvolgerlo per intero e irradiare luce come un
sole, e va bene così.
Va assolutamente bene così.
La stretta al braccio arriva al quarto, ed è una presa silenziosa, di quelle
che non credono molto in quello che fanno, ma ci provano lo stesso.
“Levi—” Hange leva il suo nome, insieme alle lacrime, o una collera indicibile,
o tutt’e due.
“Levi, stammi a sentire.” Si sforza di rimodulare il tono; il filo dei pensieri che tenta cautamente di
articolare viaggia nell’aria trasportato da piccoli spifferi sottili, e a Levi
sembra quasi di poterli sentire tutti, come quelle dita che si puntellano al
suo braccio.
“Non ascoltarlo.” Paga quella frase con più dolore di quanto riesca a
sopportare.
“Qualunque cosa Erwin ti dica, tu non ascoltarlo. Non devi ascoltarlo, Levi.
Promettimi che non lo farai!”
“Non è necessaria alcuna promessa, Hange.” dice Erwin, ma Hange è coerente, e
non lo ascolta.
Anche senza vederla, Levi sa che questa Hange non ascolta.
Serra la stretta al braccio, le unghie grattano.
“Levi, promettimi che non lo farai. Promettimelo!”
Levi si volta, si accorge solo adesso di vederla in viso per la prima volta: è
come aveva immaginato di ritrovarla.
Stanca, smagrita – il residuato di una fierezza che non esiste più.
Levi la guarda per un po’. Guarda le sue nocche inarcate sul suo braccio,
guarda la palpebra dell’unico occhio rimastole raggrinzirsi.
Corruga le sopracciglia: “Perché dici questo?”
Hange inspira, storce la bocca, la sua voce si rompe per sempre.
“Perché quello non è Erwin.”
Al bagliore di un lampo che le illumina la faccia, Levi vede le lacrime
brillare.
Lo stesso si irradia poi nello stomaco, e non è sorpreso, no – lui lo conosce.
È un vecchio dolore, una carneficina delle viscere che è nata e cresciuta
insieme a lui. Fin troppo familiare.
Arriva, e le sue interiora si torcono, i suoi polmoni esplodono sotto l’aria
che non riesce ad esalare, e forse è proprio per questo che alla fine, glieli
concede davvero, quei passi indietro che Hange gli chiede.
“C-ci sono
giganti che sono in grado di assumere le sembianze della persona che più
desideri rivedere.” balbetta incerta.
“Cosa?”
“Io e Moblit avevamo cominciato a sospettarlo già da
qualche tempo, ma—” freme, le mani che affretta sulle sue guance giungono improvvise ed inopportune.
Levi solleva le braccia, getta indietro la
testa.
“Che cazzata è mai questa, quattrocchi di merd—”
“Ha ragione.”
La solennità di Erwin rende il martellare che Levi ha nelle
tempie ancora più marcato. Poi, come se avesse sino ad allora mantenuto quella
parvenza solo per beffa, Erwin piega il capo, rilassa il viso, e sorride.
“La seconda parte è una trovata ingegnosa, c’è da dirlo. I miei complimenti per
l’inventiva, Hange.” dice, “Ma la prima è vera, Levi. Hange ha ragione.”
Ed è strano,
il luccichio che adesso vede tutt’intorno. Direbbe siano stelle, o lucciole, o
il sollevarsi di piccoli aliti di fuoco di un mondo che brucia su sé stesso
perché Erwin ha pronunciato le parole che mettono fine all’incanto, ma poi si
rende conto che è solo la mancanza di ossigeno a fargli vedere quelle stelle,
perché respirare non è più una priorità.
(E a quel punto, viene anche da chiedersi se le stelle a cui ha affidato i suoi
desideri non siano solo l’illusione di un ratto del sottosuolo che ha smesso di
respirare).
“Ma è vero anche che quella non è Hange—”
“Erwin, ti prego—” geme Hange, ed anche il bosco che un
fulmine incendia lì, da qualche parte, in lontananza.
“Nel mio caso, è stata la scuola—” dice Erwin, dopo una
pausa diluita nel tempo di un altro universo, “C’era mio padre, c’erano i miei
compagni – c’eri anche tu. E ci hai provato, sai?”
“Provato –?”
“A salvarmi, intendo. “
E suona più o meno come l’eco di un cuore che si spezza in tanti pezzi.
E Dio, Levi neanche sapeva di averlo ancora, un cuore da farsi spezzare in
tanti pezzi.
“Hai anche tentato di uccidere mio padre, volevi che andassi
con te.” aggiunge, “È davvero difficile distinguere i ricordi dagli stimoli
esterni, da ciò che la tua mente crea e ciò che invece è esistito davvero, e
da— tutto il resto. Guarda Hange, ad esempio,”
Non si era neanche accorto che è crollata sulle ginocchia,
ingoiata per metà dalla fanghiglia alla quale si è già arresa.
“La vera Hange è lì fuori. Sta lottando per strapparti alla
morte, e mi sta supplicando di aiutarla.”
“Hange non
supplica.”
Erwin chiude
gli occhi, sorridere mestamente. “Ti assicuro che lo sta facendo. Le è bastato
sentire il mio nome sulle tue labbra perché cominciasse a farlo.”
Ma l’immagine di Hange che supplica non arriva. Arrivano le
lacrime, invece. Tornano, per essere precisi.
E non dicono nulla, questa volta. Non parlano, non commentano – niente.
Sbucano fuori dal suo unico occhio quasi per scherno. Quasi per la semplice
voglia di distorcere l’immagine di Erwin sempre più difficile da sostenere.
“La
disperazione fa fare cose insolite, Levi. Supplicare un uomo che non è più tra
i vivi, chiedere alla persona che ami di cercare una verità e una vendetta che
porterà solo a tutto questo…”
Prima della
mente, sono i muscoli, e le ossa, e piccoli agglomerati di nervi intrecciati
sotto la sua pelle, a ricordare.
“Ti ho fatto
una promessa, Erwin—” La sua bocca sembra muoversi da sola, la sente storta,
dolorante, impigliata da fremiti (e fili) che, in loro assenza, la porterebbero
a spalancarsi e urlare, urlare, urlare.
“Le promesse vanno
mantenute solo se quanto promesso è davvero importante, Levi.”
Erwin lo
fissa, ma lui non riesce più a vederlo sotto quell’impiastro che ha in volto.
Vede solo una massa gelatinosa irradiare luce; qualcosa gli dice che stia
sorridendo.
“Quante
cazzate, Erwin—” Levi gonfia il petto, prende fiato – “Non è forse la verità la
cosa più importante per te?”
“La cosa più
importante per me è che tu viva,” ammette, “e che io possa essere ancora per
molto tempo ciò che chiederai le stelle.”
Il vento muta, e con lui anche la pioggia
cambia rumore e direzione. Sparpaglia i capelli di Levi ovunque, le lacrime,
beh – quelle brutte stronze riprendono solo adesso a parlare.
Ma Levi non vuole sentire. Non ha voglia di sentire i loro patetici ‘non
voglio, non voglio, Erwin, non voglio’ perché se le ascoltasse, non sa se
riuscirebbe poi a dar retta a quella mano di Hange che timida e previdente
torna a cingergli il braccio. Non sa se riuscirebbe a dirgli addio, non sa se
riuscirebbe davvero a farlo ancora, un’altra volta, senza sentire la sua
vita consumarsi, il suo stomaco e la sua anima lacerarsi insieme a quel
pensiero.
“Adesso va’ da
Hange, Levi. Va’ da lei, prima che sia troppo tardi. Saprà cosa fare.”
E non ci sono che un paio di centimetri da quel braccio che Erwin stende e che
guizza di luce.
Un piccolo passo, uno strattone neanche tanto forte alla quattrocchi, e sarebbe
fatta, Levi lo sa.
“Puoi farcela,
Levi—” esala Hange, lo lusinga con parole lievi e con le rughe della fronte che
si ripiegano su sé stesse come le piccole onde sotto di loro “Tu sei più forte
di tutto questo—”
Ed è una vera
e propria bastardata.
“Tu sei più
forte di tutto questo!”
Far decidere tutto a lui, è una vera e propria bastardata.
Levi stringe le
mani alla testa mentre cede, o peggio – scivola all’indietro. Crolla alla presa
della quattrocchi che infila le sue manacce dappertutto, lo avvinghia e
lo trascina oltre l’acqua come un naufrago, ma al contrario. E mentre
l’incendio di luce in cui brucia Erwin si fa sempre più distante portando con
sé parti di sé che ha perso per sempre, Levi sì – lo pensa davvero.
“Sei un fottuto bastardo, Erwin Smith—”
“Levi—!”
Non sente il passaggio dal sonno alla veglia. Quando riapre gli occhi, è come
se niente fosse cambiato. Nulla.
È tutto lì, esattamente come lo è stato. La pioggia, gli alberi, il freddo che trafigge
le ossa.
Tutto è cielo. Cielo e stelle. Stelle visibili anche attraverso le nubi nere.
Cambia l’intensità con cui brillano, forse – ma del resto, non tutte le stelle
brillano allo stesso modo.
Levi è pronto ad accettarlo anche così, forse è questa accettazione a farlo
rabbrividire – a far dire ad ogni singola parte irrazionale del suo essere, ‘no,
no, che cazzo dici, Levi, no—'.
Una mano sgraziata sul volto, sul petto, sul collo, e pungolati, i suoi nervi
tornano a funzionare, dando il via ad un crescendo dolore che si irradia sino a
diventare l’unica dimensione in grado di percepire, e Cristo.
“Levi,” grida
la quattrocchi, quella vera. “Levi, mi senti? – Levi!” lo fa forse più
di quanto potrebbe. La sua voce distorta ricorda il verso di
un animale notturno, qualcosa che si nasconde tra le fronde degli alberi, che
come lei, Levi sente frusciare, ma non vede.
E vorrebbe
piangere quando in un impeto sgarbato, Hange gli solleva la schiena e lo porta al
suo petto, stringendolo e cullandolo, e ripetendo il suo nome ai timpani come
temesse possa averlo scordato.
Vorrebbe
piangere, Levi – ma rinuncia: sa che sarebbe solo il sottofondo inutile ad un
pianto molto più accorato, molto più efferato, e non ne ha la forza né le
energie.
“Grazie—grazie, Erwin—grazie!” leva Hange confusa tra ansiti e singhiozzi,
mentre solleva il mento al cielo e le dita vagano, e si piegano, e poi si
incastrano sulla sua nuca gelata, ancora, ancora, alla ricerca di un appiglio,
un gancio, qualcosa che possa frenare il suo pianto, e dirle che sì – ha vinto.
Lei e Erwin hanno
vinto.
Levi espira, rilascia l’aria contro il suo collo, le dà la conferma che
cerca: questo mondo ha ancora un ratto che ha visto le stelle.
Fine
__
NOTE:
Scritta
per la Saint Lucia's day challenge
- gruppo Hurt/Comfort Italia
- Fanart and Fanfiction - GRUPPO NUOVO) Prompt:
"Tu invece no”.
Betata da Giulia,
Eikomidori
e Asuka, che hanno fatto anche da pre-reader (in
poche parole, le ho massacrate con sta roba per settimane)
Un’altra di quelle fanfiction incomprensibili che ho deciso comunque di
scrivere. Spero vi sia piaciuta!
Grazie
per la lettura!