Note iniziali: ho
scritto questa fanfiction (è più uno sclero mal
assortito, in verità) ascoltando a ripetizione sempre la
stessa canzone, ovvero 'What could have been' di Sting feat. Ray Chen.
Lascio il testo all'inizio perché la storia si basa su
quello. Buona lettura e grazie! ♥
I am the monster you created
You ripped out all my
parts
And worst of all, for me
to live, I gotta kill the part of me that saw
That I needed you more
I hope you know we had
everything
And you broke me and
left these pieces
I want you to hurt like
you hurt me today and
I want you to lose like
I lose when I play what could have been
Why don't you love who I
am?
I couldn't care what
invention you made me
'Cause I, I was meant to
be yours
I hope you know we had
everything
And you broke me and
left these pieces
I want you to hurt like
you hurt me today and
I want you to lose like
I lose when I play what could have been
*
Ci sono delle farfalle che si nutrono di lacrime.
Farfalle che, nottetempo, si poggiano sulla guancia di qualche
malcapitato con lo stesso silenzio di una candela che si spegne. Poi
distendono la proboscide, la infilano tra le ciglia chiuse e iniziano a
succhiare. Chi dorme neanche se ne accorge.
Atsumu scopre dell’esistenza di queste farfalle nel tipico
modo in cui ci si imbatte in curiosità del genere: durante
un attacco di insonnia, con il corpo che vorrebbe solo ululare per il
disperato bisogno di dormire ma la testa glielo impedisce. Gli occhi
bruciano mentre fissa lo schermo del cellulare che brilla aggressivo
nel buio e c’è quel ronzio che si propaga nelle
orecchie che assomiglia al rumore del sangue quando circola.
C’è qualcosa in quell’immagine, in
quella falena che se ne sta acquattata al buio come una pantera a
succhiare via liquidi dagli occhi di un tizio che dorme, che gli fa
schioccare qualcosa nel cervello. Un ramoscello si spezza
all’improvviso, un quadro appeso al muro, immobile da anni,
decide di cadere senza un apparente perché. È lo
stesso rumore di quando scatta una serratura, tuttavia Atsumu non
capisce se l’abbiano imprigionato in qualche stanza o se al
contrario sia appena stato liberato - lo scopriremo alla fine di questa
storia, immagino.
Perciò Atsumu si mette a sedere, respirando profondamente.
Sono sicuro?
chiede a se stesso.
Sono sicuro,
si risponde.
E chiama Shouyou.
“Tsumu?” risponde Shouyou al terzo squillo.
“È successo qualcosa?”
“No, non è successo nulla. Volevo solo dirti che-
“Ti posso richiamare se non è urgente?”
lo interrompe Shouyou. Atsumu si ammutolisce. Da quanto tempo
è così? Da quanto tempo tenta di parlargli e
Shouyou neanche lo sente? È come se sputasse briciole.
È umiliante.
“Ma solo perché sto iniziando
l'allenamento,” spiega, addolcendo la voce. “Dopo
invece possiamo parlare con calma.”
“Certo,” risponde Atsumu. “Nessun
problema.”
“Sicuro di stare bene?”
“Sì, sì. Tutto okay. A dopo.”
“A dopo, Tsumu. Mi manchi,” aggiunge. “Un
sacco.”
Bugiardo, bugiardo,
bugiardo.
Atsumu sbatte le ciglia e vede farfalle rosso sangue. Moriranno tutte
di fame, quella notte, perché lui le lacrime le ha finite.
“Shouyou,” dice, prima che chiuda la chiamata. Le
labbra si aprono in un sorriso distorto, il riflesso di uno specchio
spaccato. “In realtà, voglio che ci
lasciamo.”
*
La sorpresa è che è facile. Lasciare Shouyou,
chiudere la telefonata con la sua voce ancora impigliata nella linea,
come un animale che cade in una trappola.
“Lasciarci? Ma che stai dic-click.
CLICK.
Ed è così soddisfacente.
Shouyou è morto. Atsumu l’ha ucciso schiacciando
il tasto rosso, l’ha ficcato dentro una tomba e ha sotterrato
la bara dall’altra parte del mondo, dentro
l’oceano.
O forse no. Forse non è Shouyou a essere morto, ma quello
che c’era fra loro. E ogni volta che lo chiama e Atsumu
ignora il telefono che vibra, è un’ulteriore
pugnalata. Un accanimento su un cadavere che non può essere
riportato in vita. Una cosa che era finita già da un bel
pezzo, ma Shouyou non se n’era accorto o se n’era
altamente fregato e Atsumu, debole, ha preferito l’illusione
e ha finto che fosse tutto uguale a prima, solo con l’oceano
in mezzo.
Atsumu guarda la sua relazione d’amore perfetta, la ammira
incantato come se davanti avesse una sirena, le accarezza il viso
gentile e luminoso, le dà un bacio della buonanotte proprio
sulla fronte.
Poi le sputa addosso. La massacra e la brucia, sparge le sue ceneri nel
mare e lascia che il flutto d’acqua salata le conduca
lontano. Chissà, magari arriveranno dall’altra
parte del mondo, magari finiranno ingoiate da un pescecane, magari
arriveranno persino in Brasile, da Shouyou, che si ritroverà
a contemplare ciò che rimane di quello che Atsumu ha tentato
di proteggere fino alla fine. O forse no, forse non vedrà
niente, perché non c’è mai stato
niente. Non per Shouyou, almeno.
La cosa strana, è che Atsumu non è triste. Per i
giorni successivi, Atsumu si sente onnipotente. Potrebbe raccogliere le
stelle dal cielo, mangiarsele, lanciarle addosso alle persone tipo i
semi di cocomero e farle scoppiare. Sarebbe capace di uccidere Dio solo
schioccando la lingua, ma decide di essere misericordioso - magari
è la volta buona che Dio impara cosa sia la vera misericordia -
e di lasciarlo in pace, perché sinceramente non gliene frega
proprio un cazzo, né di Dio né di Shouyou.
Ha solo voglia del campo. Della pallavolo. Di tornare a sentirsi intero.
*
Atsumu ha scoperto che gli esseri umani sono fatti di polvere di
stelle.
C’è una spiegazione scientifica che Atsumu ha
dimenticato non appena l’ha ascoltata, ma il concetto
è quello.
Quando Atsumu l’ha scoperto, si è sentito
pervadere da una sensazione difficile da descrivere a parole, di
stupore e totale meraviglia. Quella sensazione, quel calore che si
è propagato in maniera così intensa lungo tutto
il corpo, è la stessa sensazione che prova quando
è con Shouyou.
Atsumu fa schifo con le metafore, ma l’amore per lui ha la
stessa identica voce del tizio che gli spiega che le stelle non sono
affatto irraggiungibili, ma sono intorno e dentro tutti noi. Tocca il
pulviscolo che vedi la mattina grazie ai buchi delle serrande e
toccherai corpi celesti. E beh, quella sì che è
una notizia che cambia il modo in cui vedi la vita.
Il punto, che non c’entra niente con le stelle ma
c’entra tutto con Shouyou, è che Atsumu non
può amare piano.
Se decide di amare qualcuno, allora deve farlo con la stessa veemenza
di un cannone quando esplode. Atsumu ama come una bomba a orologeria,
tuttavia la detonazione non si affievolisce mai, continua a espandersi
come l’universo e a creare galassie. È un
agglomerato di voce e di corpo che pulsa e che non conosce quiete o
sazietà.
Atsumu è onesto e spericolato, e lo è anche nel
modo in cui ama, perché si strappa il cuore dal petto come
se fosse il gesto più semplice del mondo e te lo mette in
mano, a prescindere da quanto sia azzardato, a prescindere dal fatto
che, nella peggiore delle ipotesi, ad Atsumu potrebbe rimanere un buco
nel petto.
E adesso il buco nel petto ce l’ha per davvero, è
una voragine a forma di Shouyou che odora di oceano, perché
Atsumu ama forte tanto quanto Shouyou uccide in silenzio.
La verità è che non credeva che la distanza
significasse quello. Gli
aerei, la vastità del mondo che si è srotolato
all’improvviso come un tappeto frapponendosi tra loro: non
aveva capito quanto fosse enorme, quello spazio. Credeva che per far
rimpicciolire le cose bastasse socchiudere gli occhi: quando avvicini
le palpebre, anche l’oceano, così temibile e
immenso, diventa nient’altro che una strisciolina azzurra fra
le ciglia. Ma figuriamoci se il mare si lascia ingabbiare in maniera
così stupida. Figuriamoci se Shouyou si lascia comprimere
dalle ciglia di chicchessia.
L’unico a comprimersi è stato lui, annientato da
qualcosa di spaventosamente pesante, una cascata di piombo,
l’amore che finisce.
Atsumu non ha un carattere adatto alle lunghe distanze: è
geloso e ha una paura matta di perdere Shouyou. Shouyou in cambio gli
ha regalato solo silenzi che si sono ingigantiti come bolle sempre
più gonfie finché non sono scoppiate permettendo
alla paranoia di schizzare fuori. Al dubbio basta una fessura minuscola
per insinuarsi e piantare semi, soprattutto se il terreno è
fertile di insicurezze.
Atsumu non credeva di averne così tante, di insicurezze. Era
certo che ce l’avrebbero fatta. Era certo che sarebbero stati
bene, perché erano loro, Atsumu e Shouyou.
Invece la fiducia è crollata labile come un castello di
carte e Atsumu ha scoperto che la fragilità non sempre
è apparente e non sempre si lascia guardare. Delle volte si
nasconde dentro, come un piccolo verme, e non ti accorgi che ti ha
divorato finché un giorno sollevi il braccio e ti ritrovi a
fissarlo mentre si sbriciola al vento. Si sfaldano i
contorni della tua sagoma, la tua ombra si maciulla, e tu assisti a
quel grottesco spettacolo legato alla sedia centrale in prima fila. Non
puoi fare niente, tranne guardare inorridito quello che succede al tuo
cuore e poi raschiare via il sangue dalle tavole del parquet.
Atsumu ha sempre creduto che l’amore fosse meraviglioso.
Meraviglioso e incredibilmente egoista, perché essere
innamorati significa che fuori c’è
l’apocalisse, ma a te non frega un cazzo perché
sei al sicuro con l’unica persona con cui vuoi trascorrere il
resto della tua vita, quindi non importa che fuori la gente venga
sbranata dagli zombie, l'unica cosa che conta è che tu e
Shouyou continuiate a ballare intorno al tavolo della cucina nel vostro
bunker invisibile, che nessuno potrà mai violare.
E invece adesso stai ballando da solo, all’aperto, scalzo
sotto il cielo rosso che in parte ti ricorda le ferite aperte e in
parte i suoi capelli. I grattacieli intorno a te si sfracellano al
suolo e sotto i tuoi piedi ci sono solo chiodi arrugginiti.
E tu balli, balli, balli.
*
Da piccolo, Shouyou aveva un cactus. Minuscolo, una pallina verde
dentro un vaso appena più grande di una tazzina da
caffè. Gli aculei sembravano più lana che spini
veri e propri, tanto erano sottili.
Ricorda sua madre mentre gli ripeteva di NON toccarlo, assolutamente di
NON toccarlo, altrimenti le spine l’avrebbero punto.
Ora, Shouyou non è stupido. E non era stupido neanche da
piccolo. Lui vedeva le spine di quel cactus, ed era perfettamente
consapevole di quanto fossero appuntite pure se all’apparenza
sembravano velluto. Ma, essendo intelligente, Shouyou sapeva anche che,
toccandole piano, con prudenza, non si sarebbe fatto alcun male. E non
gli andava proprio di farsi mettere nel sacco da una pianta
più piccola del pugnetto di sua sorella.
Perciò Shouyou aveva poggiato l’indice sul cactus
con la stessa delicatezza di un fiocco di neve, e indovinate un
po’? Non era bastato. Ma certo che non era bastato. Sua madre
aveva ragione. Sua madre aveva
sempre ragione.
Shouyou aveva allontanato il dito con gli occhi lucidi e tante
minuscole spine sottili come capelli, quasi invisibili, conficcate nel
polpastrello. Nonostante la gentilezza del suo tocco, le spine erano
comunque riuscite a penetrare la pelle. Aveva passato la serata a
piangere silenziosamente mentre sua madre le estraeva una per una con
la pinzetta. Natsu aveva pianto insieme a lui per solidarietà,
lacrimoni grossi come monete che gocciolavano lungo le guance di
entrambi. Non era frustrato per il dolore, sebbene il dito pulsasse, ma
perché si era punto nonostante sapesse in anticipo delle
spine. La prudenza non era bastata. Aveva peccato di arroganza e boom,
fine dei giochi di onnipotenza. Una volta poggiate le pinzette, sua
madre aveva lanciato la piccola pianta grassa direttamente nel secchio
della spazzatura.
Shouyou aveva imparato una lezione: i cactus pungono, a prescindere.
Non lasciatevi ingannare.
Quando Shouyou chiama Atsumu per l’ennesima volta e il
telefono squilla a vuoto, Shouyou si sente esattamente come quella
sera: stupido. Un completo coglione, ha voglia di spaccarsi le nocche
contro la parete, perché sapeva che c’era qualcosa
che non andava, sapeva che era colpa sua, colpa sua e dei suoi silenzi
e dei ‘ti chiamo dopo’ che non sono mai arrivati e
degli impegni e della differenza di orario che si è sempre
rifiutato di considerare e del fatto che faccia schifo a mantenere un
contatto. Lui ha sempre saputo che Atsumu è diverso, che non
vede l’oceano come una cosa bellissima ma come qualcosa di
cui avere paura, e forse in questo è più saggio
di lui, tuttavia Shouyou non ha mosso un dito, non ha combattuto, si
è limitato a voltare la testa dall’altra parte
quando tutto quello che avevano annaspava nel mare, lasciandolo
annegare.
E ora è solo e Atsumu, che ha sempre odiato nuotare, si
è stancato di rincorrerlo e di nuotare per due.
Mi risponderà, pensa Shouyou richiamando per la milionesima
volta. Prima o poi mi risponderà.
Atsumu non lo fa.
Perciò Shouyou impara un’altra lezione:
l’amore fa male, a prescindere. Non lasciatevi ingannare.
*
“Sei diventato cattivo.”
Atsumu sbatte le palpebre un paio di volte. “Come? Che
significa?”
“Esattamente quello che ho detto,” risponde Osamu.
“Sei diventato cattivo.”
Poi gli porge un’altra porzione di onigiri. Atsumu lo fissa
diffidente.
“Cattivo nel senso che Babbo Natale non mi porterà
i regali quest’anno?”
“Lo sai cosa intendo, ‘Tsumu.”
“No, non lo so,” replica Atsumu. “E
sinceramente non me ne frega un cazzo.”
E invece lo sa. E non è vero che non gliene importa. Lo
sente: qualcosa dentro di lui sta bruciando, ma non è un
fuoco caldo, è un fuoco che assomiglia all’acido.
Sono vampate di furia che sfoga buttando giù palloni nella
metà campo avversaria.
Il problema è che Atsumu ha passato troppo tempo a sentirsi
mortificato. A sentirsi non abbastanza.
“Perché non gli hai detto prima quanto stavi male,
invece di tenerti tutto dentro e di scoppiare all’improvviso?
Shouyou-kun avrebbe capito. Avrebbe fatto qualcosa.”
Volevo renderlo fiero,
pensa Atsumu. Volevo
che Shouyou continuasse ad ammirarmi. Non volevo lamentarmi. Non con
lui. Non volevo farmi vedere debole, non quando lui sembrava stare
così bene.
“Non avrebbe fatto un cazzo,” risponde Atsumu - e
dopo che l’ha detto, sente che è vero.
“Parlaci.”
“No.”
“Perché?”
Perché voglio
vederlo disperato.
Disperato e miserabile. Atsumu vuole che pianga sangue, vuole che non
dorma la notte, che rimanga a fissare il soffitto a occhi sbarrati
mentre si chiede dove cazzo abbia sbagliato. Perché lui si
è sentito così: annichilito, con il cuore slabbrato e
sanguinante, pezzi di ruggine conficcati ovunque, mentre una parte di
sé sussurrava c’è
qualcuno migliore di te, ci sarà sempre qualcuno migliore di
te, non sei abbastanza, non sei abbastanza, non sei abbastanza.
“Perché?” insiste suo fratello.
“Perché ce l’ho a morte con
lui,” risponde Atsumu. “Gli direi cose troppo
pesanti.”
“Allora digli questo. Digli che sei troppo incazzato e che
deve darti un po’ di tempo.”
“Non ho bisogno di tempo. Non voglio parlarci mai
più, punto.”
“Quindi hai intenzione di fargliela pagare così?
Troncando ogni contatto senza degnarlo di una spiegazione e vaffanculo?
Tu sei mille volte meglio di questo. Se vuoi lasciarlo
d’accordo, ma almeno parlaci. Così stai solo
facendo del male a te e a lui, sappiamo entrambi quanto lo am-
“Tu non sai un cazzo.”
Forse sono le lacrime che Atsumu tenta a ogni costo di non far
traboccare, che rimangono a tremargli sulle ciglia come pozzanghere, o
forse è la sua voce che si spezza all’improvviso
in un modo così penoso che Atsumu ha voglia di piantare la
testa sotto terra per la vergogna come uno struzzo, ma
l’argomento ‘Shouyou’ muore in
quell’istante.
Osamu si limita a porgergli del cibo senza insistere, e Atsumu tenta di
trovare consolazione nel sapore dolce del riso.
Un po’ funziona.
*
Atsumu diceva che Shouyou era luce.
Shouyou in realtà non l’ha mai trovato un paragone
appropriato: lui si sente più come un buco nero, che
risucchia via tutto ciò che ha intorno, ma gli piaceva il
modo in cui Atsumu lo idealizzava.
Adesso Shouyou scopre che il buco ce l’ha nel corpo,
è a forma di Atsumu e si trova fra le scapole. Si domanda se
esista un modo per ricucirlo, prendere ago e filo e riparare tutto
quello che c’era fra loro.
Ha chiamato Bokuto, poi ha chiamato Sakusa, poi ha chiamato Osamu.
Tutti gli hanno detto la stessa identica cosa: non venire qui.
È troppo arrabbiato, lascialo calmare.
Perciò Shouyou li ha ascoltati, ha annullato il biglietto
perché si fida più di loro che di se stesso, in
quel momento.
La scia di un aereo brilla nel cielo. Shouyou immagina di esserci
dentro. Immagina di avere la fronte poggiata contro il finestrino
tondo. Accanto a lui, la felicità. Shouyou la guarda, le
sorride, le dà un bacio sulle labbra, poi la afferra per il
polso e la scaraventa fuori.
La guarda precipitare verso il basso come una palla di fuoco: presto si
spiaccicherà al suolo. Shouyou dentro di sé spera
che si spiaccichi davanti ad Atsumu perché così
sarà costretto a guardare in alto, verso di lui, ma Atsumu
è troppo lontano e niente di quello che dice, che pensa, o
che fa può raggiungerlo - e così la
felicità di Shouyou muore da sola, invisibile, dritta nel
secchio della spazzatura come il suo cactus, soltanto che questa volta
sua madre non c’entra.
Ma che cazzo, pensa.
E comincia a piangere.
*
“Posso dirti una cosa?” gli aveva domandato Atsumu
una sera.
Pioveva. Atsumu se lo ricorda perché era una pioggia
violenta, quel tipo di pioggia che sembra possa spaccare il vetro della
finestra, ogni goccia sbatteva come una sassolino mentre intorno a loro
c’era solo un silenzio ovattato e il tepore di quando fuori
è inverno ma tu sei sotto il piumone abbracciato alla pelle
nuda e soffice dell’amore della tua vita. Poi era
riecheggiato il boato di un tuono particolarmente forte, e si era
irrigidito.
“Hai paura dei tuoni?” gli aveva domandato Shouyou,
accarezzandogli il braccio.
“No,” aveva risposto Atsumu. “Non dei
tuoni, di quello che sto per dirti. Cioè, non di quello che
sto per dirti, in realtà ho paura del dopo,
perché se poi-
Shouyou aveva sorriso e gli aveva pizzicato la guancia. La voce si era spenta. Poi Atsumu aveva inspirato e gli aveva detto: ti amo tantissimo.
Adesso Atsumu lo sogna.
In realtà non si tratta di sogni veri e propri, quanto
piuttosto di ricordi evocati in dormiveglia, con una dolorosa
consapevolezza e un’amara nostalgia.
Shouyou è accanto a lui, ha gli occhi spalancati e luminosi,
le labbra incurvate in un sorriso grato che è lo specchio
del suo.
Atsumu vede se stesso, dentro gli occhi di Shouyou e sa che Shouyou
vede se stesso dentro ai suoi. E rimanere in silenzio, a fissare la tua
faccia dentro le pupille di qualcun altro, è
un’esperienza talmente intima ed emozionante da sembrare
surreale, quasi onirica.
L’anima di Shouyou ha scelto la sua e ci si struscia contro,
come due gatti che strofinano i musi cercando sollievo nel collo
dell’altro.
Adesso invece Atsumu pensa agli occhi di Shouyou, al modo in cui si
scioglievano dentro i suoi, e ha voglia di strapparli a morsi. Non sono
mai stati sinceri, non sono mai stati trasparenti, non hanno mai
trasmesso amore, ma fra le ciglia tremolanti erano celati soltanto
l’inganno e il veleno. Riflettevano non quello che erano o
che avrebbero potuto essere, ma quello che Atsumu voleva che fossero e
quello che Shouyou - lo sapeva - non sarebbero mai stati.
*
Bokuto lo fissa sconvolto.
“Perché lo stai trattando
così?”
“Se lo merita.”
“No,” dice Bokuto. “No che non se lo
merita. È Hinata.”
“Tu non sai niente di quello che ho passato.”
“Non so niente?” boccheggia Bokuto. Poi molla un
calcio al divano.
“Chi è che ti è stato vicino per tutto
il tempo? Io lo so meglio di chiunque altro quanto hai sofferto. Ma
proprio perché lo so, proprio perché conosco te e
conosco lui, so che non se lo merita. Ti ha chiesto scusa. Sta facendo
di tutto per aggiustare le cose. Vuole venire qui.”
“Non me ne importa. Potrebbe ingoiarsi un porcospino per quel
che mi riguarda, non cambierei idea. Abbiamo chiuso.”
“Allora diglielo! Non gli rispondi neanche al
telefono!”
Atsumu scrolla le spalle, la gola che brucia. Vuole che Bokuto la
smetta di urlare, perché Atsumu non è abituato a
vederlo così furioso.
“Lo sai cosa penso? Che per te non sia finita
affatto.”
Atsumu ride. “È decisamente finita, Bokkun. Mi
dispiace.”
“No. Tu stai facendo tutto questo casino perché
vuoi solo vendicarti. Vuoi che stia male come sei stato male tu. Ma se
per te fosse finita sul serio, gliel’avresti già
detto.”
“Stai straparlando.”
“Lo sai che ho ragione. E da un lato ti capisco, ma adesso
stai esagerando. Io voglio bene a Hinata,” aggiunge poi.
Atsumu sbuffa. “Lo vedo.”
“Però voglio bene anche a te. E ti giuro che non
lo capisco proprio, come hai fatto ad arrivare a questo
punto.”
Non è difficile da capire: è che quando
l’amore della tua vita una sera ti dice che andrà
dall’altra parte del mondo, la realtà un
po’ ti crolla addosso.
Ma Atsumu si è lasciato seppellire dalle macerie in
dignitoso silenzio, poi ha provato a ricostruirle sassolino dopo
sassolino, con la stessa pazienza di una formica, proprio lui che la
pazienza non l’ha mai avuta.
È solo che Shouyou non può essere ingabbiato, in
nessun luogo e in nessuna relazione. È un fatto immutabile,
come una legge universale. C’è e basta: o
l’accetti, o ristagni nel risentimento.
Atsumu non solo l’accettava, ma l’ammirava.
Perché lui ha bisogno di avere certezze sotto i piedi per
camminare, per andare avanti, come suo fratello o la sua casa. Shouyou
invece per rimanere in equilibrio deve avere l’ignoto
intorno, e sotto i piedi nient’altro che una fune
sottilissima. Ed è questa la sua bellezza, è
questo il motivo per cui tutti si incantano a guardare la sua sagoma
stampata sul sole, con la testa all’insù e la
bocca socchiusa dallo stupore mentre si domandano: ma come ci riesce, a fare una
cosa del genere. Perché è pieno,
pieno di coraggio.
Shouyou si espande, attratto con la stessa curiosità di un
bambino da tutto ciò che non conosce e che non comprende. Ed
è per questo che quando hanno iniziato a stare insieme,
Atsumu, più che felice, si è sentito grato, perché
non credeva che Shouyou avrebbe mai voluto legarsi a qualcuno.
Atsumu capisce il suo carattere. Capisce per davvero nonostante faccia
schifo a empatizzare, ed è per questo che l’ha
sempre incoraggiato ad andare - chissene
frega di dove lasci gli altri, chissene frega di dove lasci me, vai e
basta. Probabilmente l’avrebbe incoraggiato
pure se un giorno Shouyou gli avesse detto di voler andare sulla luna.
Però c’è un limite. Atsumu non
può combattere per due. Non può inseguirlo in
silenzio come un fantasma mentre Shouyou non si degna neanche di
voltare la faccia per vedere se c’è ancora. Domani, oggi non ho tempo, non
ho tempo, non ho tempo, diceva, ma beh, l'amore
è fatto di tempo, l'amore il tempo lo crea e poi lo
cristallizza. Se togli quello, cosa ti rimane in mano oltre ai ricordi
del tempo che c’è stato? E Atsumu con i ricordi
non è che ci abbia mai fatto molto. Sono cose consumate che
stanno lì, a impolverarsi e ad appassire, a fare solo male.
La verità è che loro ogni giorno erano sempre
più distanti. E dopo un po’ diventa difficile pure
addormentarsi, se i pensieri ronzano come calabroni e si trasformano in
un nugolo di gelosia, paranoie e disgusto verso te stesso
perché non ce l’hai fatta, perché non
sei riuscito a dargli un motivo affinché gli importasse
qualcosa. Ed è questa sensazione di sconfitta a torcergli lo
stomaco, la sensazione di non essere stato abbastanza importante, la
gigantesca umiliazione di aggrapparsi al telefono perché
è l’unico mezzo che li collega in quel momento. Ma
se la sua relazione si regge in piedi solo grazie alla linea telefonica
che il più delle volte rimane muta, beh, allora
c’è qualcosa che non funziona. Shouyou si
è rifiutato di adattarsi a quella distesa di oceano che li
separa e Atsumu si è lasciato divorare dall’acqua
salata.
“Non me l’ha mai detto,” dice invece a
Bokuto con la voce che si spezza all’improvviso.
Bokuto lo fissa, la rabbia gli svanisce dallo sguardo mentre si siede
accanto a lui. “Cosa?”
“Che mi ama. Non me l’ha mai detto, neanche una
cazzo di volta.”
*
A Shouyou piace credere: nelle cose e nelle persone, emana quel
bagliore dorato tipico di coloro che nutrono un’incrollabile
fede nella vita. Shouyou crede in se stesso, per esempio. Crede nel
domani e nell’importanza del passato, perché i
progressi si notano solo se li confronti con qualcosa che è
già accaduto. Crede nei suoi amici, crede nella sua
famiglia, crede nella sorte predestinata e nella capacità di
poterla cambiare. Crede negli alieni e crede un
pochino pure nelle foglie di tè che gli legge sua nonna.
Non crede nell’amore, però. O almeno, non ci
credeva prima.
Quello dell’amore è un concetto sfuggente e troppo
sfaccettato, difficile da visualizzare o da descrivere. Anche
ciò che prova per la pallavolo non lo definirebbe come
amore, ma piuttosto come un’assoluta e incrollabile devozione
nei confronti di una parte di se stesso.
Poi è arrivato Atsumu.
E Shouyou ha scoperto che l’amore non è un
concetto che va compreso, quanto piuttosto il nome di qualcuno.
*
Aveva baciato Atsumu per la prima volta sotto l’acqua.
Non l’acqua salata dell’oceano, anche se
l’avrebbe preferito, ma quella della piscina che sapeva di
cloro.
Andavano spesso in piscina con la squadra, per allenarsi. A Shouyou
nuotare piaceva, ad Atsumu faceva schifo: borbottava sempre prima di
immergersi con la pelle d’oca nonostante la piscina fosse al
coperto.
Quel giorno, Shouyou gli era andato vicino. Aveva nuotato fino al bordo
vasca mentre Atsumu tentennava. L’aveva guardato e aveva
sorriso, poi lo aveva afferrato per una caviglia spingendolo dentro.
Atsumu si era messo a ridere, provando a liberare la gamba, ma vedendo
che Shouyou non mollava la presa aveva sospirato e si era immerso
emettendo uno strano verso, simile a quello di un’oca che
starnazza.
“Odio l’acqua,” aveva detto, tremando.
“Non è mica così fredda,” gli
aveva risposto Shouyou.
“Per te. Per me è congelata.”
Shouyou gli si era avvicinato con la faccia immersa
nell’acqua a esclusione degli occhi, soffiando via bolle. Le
loro braccia si sfioravano.
“Che c’è?” gli aveva chiesto
Atsumu, sorridendo un po’ agitato.
Shouyou aveva ricambiato il sorriso da sotto l’acqua. Poi
aveva sollevato il viso.
“Andiamo giù,” aveva detto.
“In che senso?”
“Tocchiamo con i piedi il fondo della piscina.”
“Perché?”
“Così ti passa il freddo.”
Atsumu aveva guardato in basso, continuando a battere i denti, poi
aveva sollevato le spalle.
“D’accordo.”
Shouyou aveva contato fino a tre, e poi con le braccia si erano spinti
verso il fondo. Shouyou aveva aperto gli occhi sott’acqua non
appena aveva avvertito il pavimento liscio della piscina sotto i
talloni.
Atsumu aveva le palpebre serrate e le guance gonfie mentre tratteneva
il fiato, con i capelli che si muovevano come meduse intorno alla
fronte, la pelle che rifletteva la luce azzurrina.
Shouyou aveva fluttuato verso di lui. Gli aveva accarezzato i polsi, le
braccia ruvide di brividi. Poi gli aveva preso il viso fra le mani e le
palpebre di Atsumu avevano tremato come se avessero voluto spalancarsi.
Shouyou si era chinato in avanti e gli aveva baciato le labbra morbide,
dolci di cloro.
Poi si era spinto con le gambe verso la superficie, e dopo qualche
istante era riemerso anche Atsumu.
“Mi hai appena baciato,” aveva detto dopo averlo
fissato per qualche istante sconvolto, le guance rosse.
Shouyou aveva sorriso. “Davvero?”
“Davvero.”
*
Perdere qualcuno non è questione di un istante. Non
è una sofferenza che si apre come la corolla di un fiore per
poi chiudersi quando finisci di dire addio. Non è un breve
arco di tempo, non è un segmento sopra un foglio bianco, ma
è un dolore perpetuo e martellante, come gli insetti che di
notte sbatacchiano contro la stessa lampadina, ancora e ancora e ancora
e ancora finché non precipitano a terra. Tonfi scostanti,
aritmici: un cuore che funziona male.
Atsumu crede che forse l’insetto era lui e la luce era
Shouyou.
Ma adesso dov’è finito? Atsumu,
s’intende. Shouyou è dall’altra parte
del mare a fissare la luna che si riflette lattiginosa
sull’acqua che si increspa, più grande,
più bella e pure più salata. Ma Atsumu
dov’è? Sul fondo? Sul fondo di cosa,
dell’oceano? Sotto la sabbia?
Il sale sicuramente c’è, pure dove si trova lui.
Sa più di lacrime che di oceano, in verità. Ha lo
stesso sapore di quella saliva che ti si ammucchia in gola quando
vuoi disperatamente dire qualcosa, ma per un motivo o per un
altro non riesci o non puoi farlo.
È solo che quello che avevano, quello che avevano, quello
che avevano e che toccavano e che respiravano e che custodivano e che
vivevano, tutto quello che c’era fra loro, tutto tutto tutto quanto era-
era-
Era.
*
Che sapore ha il gesso masticato? Shouyou immagina che assomigli al
cemento che gli impasta lingua e gola, ma comunque dev’essere
migliore dello schifo che sta vomitando adesso.
“Mi manca,” geme, poi ridacchia, poi torna a
vomitare.
Qualcuno gli accarezza la spalla. “Shouyou, ti accompagnamo a
casa.”
Shouyou non ha la più pallida idea di chi sia a parlare: in
quel momento le facce intorno a lui si somigliano tutte, Shouyou non
riesce a distinguerle, c’è solo Atsumu che
volteggia nella sua testa.
“Gli ho fatto del male,” biascica, alzandosi e
barcollando. Qualcuno lo afferra per un braccio e lo aiuta a mantenersi
dritto. “L’ho deluso. E ora mi oooodia.”
Qualcuno ridacchia.
Che cazzo ridete, vorrebbe
urlare.
Poi va a sbattere contro un palo. Le risate si intensificano e anche
Shouyou scoppia a ridere mentre si aggrappa al palo come un koala.
“Lo voglio riportare ad Atsumu,” dice.
“Cosa?”
“Il palo. Lo voglio riportare ad Atsumu,” ripete. E
poi: “voglio andare da lui. Mi manca.”
“Shouyou, come ti ci portiamo in Giappone?”
“Non lo so. Lanciatemi, tipo un frisbee.”
Poi si china e vomita ancora fra spasmi di tosse.
Infine abbandona il palo, e in una breve parentesi di cui Shouyou non
ha memoria, i compagni di squadra (o almeno Shouyou pensa che si tratti
di loro) lo riportano a casa.
Shouyou barcolla verso il bagno e si lava i denti per togliersi il
sapore acido della bile mentre il pavimento dondola sotto i suoi piedi.
Ecco, il segreto della sopravvivenza è lì, nel
pavimento che balla più ubriaco di Shouyou e lui che deve
tentare di rimanere in equilibrio.
Perché è stato così stupido? E
perché Atsumu è stato più stupido di
lui? Perché non possono semplicemente stare insieme?
Perché bisogna sempre trasformare le cose belle e facili in
cose complicatissime e contorte?
C’è l’oceano in mezzo, e allora?
Chissene frega, potrebbe esserci una galassia fatta di mare salato fra
loro due e comunque non basterebbe a scalfire minimamente il loro
rapporto. E poi il mare è meraviglioso da guardare. E non
è un ostacolo, alla fine si tratta solo di acqua. Okay,
tantissima acqua, ma pur sempre una pozzanghera. Potrebbero saltarci
dentro e fare ciak ciak con i piedi mentre ballano la macarena, se solo
lo volessero.
Quindi perché diamine Atsumu l’ha piantato? Erano
davvero così fragili? Davvero non si è reso conto
che tutto quello che avevano stava morendo per colpa sua?
Shouyou si butta sul letto e pensa:
ma che cazzo.
E poi:
mi manchi. E il letto
ruota e a me sembra di stare sopra una trottola e mi manchi mi manchi
mi manchi mi manchi, credo di essermi trasformato in un acchiappafantasmi solo che tu non sei un fantasma, sei vivo, quindi non capisco
perché non posso sentirti vicino o forse eri tu che
inseguivi me e io non me ne sono accorto. E perché hai tanta
paura del mare? Perché non ti riesci a fidare di me di
quello che abbiamo e perché io non posso tornare indietro?
Indietro alle notti dove tu eri vicino e andava tutto bene e tu dicevi
di amarmi e io avevo troppa paura per dirti che ti amavo - che ti amo -
anche io perché fra me e te quello più codardo
sono sempre, sempre, sempre stato io, anche se tutti credevano il
contrario, tu compreso?
Ma ti giuro, ti giuro ti
giuro TI GIURO che ti ho dato tutto quello che avevo, anche io mi sono
fidato, avresti potuto uccidermi nel sonno avresti potuto annientarmi
schiacciandomi fra le ciglia e io te l’avrei lasciato fare.
Ti avrei lasciato fare qualunque cosa, e se questo non è
amore allora io non so più niente, perché tu come
la chiami una cosa del genere, come la chiami?
Guardami per favore
guardami guardami guardami, guardami negli occhi e azzardati a dire che
ti sto mentendo, azzardati, azzardati a dire che io e te non ci amavamo
nello stesso modo, che io e te
che io e te
io e te-
eravamo.
*
Seduto a gambe incrociate, Shouyou fissa l’oceano che mormora
sulla battigia. Si fa scorrere la sabbia fra le dita e ricorda di
quando accarezzava i capelli di Atsumu.
Quello che c’è fra loro è
più grande di questo. È molto più
grande dell’oceano, della sabbia, dell’abisso e di
tutto quello che riflette l’acqua e che custodisce dentro.
Perciò Shouyou non capisce. Perché farlo finire?
Perché rinunciare a quello che avevano quando era
così tanto?
Tsumu,
scrive per messaggio. Ti
sei innamorato di qualcun altro?
Atsumu lo chiama.
*
Te la ricordi la notte che non faceva paura?
Te la ricordi la notte dove tu poggiavi l’orecchio sul mio
petto e con le dita mimavi il ritmo del mio battito? E dicevi che
bastava quello per calmarti, e poi ci addormentavamo così,
io mentre ti ascoltavo respirare e tu mentre ascoltavi il mio cuore.
Te la ricordi la notte che nonostante i temporali, nonostante la
pioggia, nonostante gli incubi e l’ansia incagliata nelle
pupille, semplicemente non poteva far paura perché era la
notte in cui allungavo una mano e trovavo il tuo corpo o le tue dita da
stringere e tu mi impedivi di andare giù?
Non c’era niente che potesse farmi paura, di notte. O meglio,
faceva tutto paura, ma finché ti sentivo accanto a me,
contro la mia schiena, c’era anche il coraggio per
combattere, combattere persino il tempo che continuava a scorrere
micidiale e io cominciavo a vedere i miei sogni sfumare e tu iniziavi a
chiederti in silenzio se alla fine, in cima, ci saresti mai arrivato.
È soltanto che a un certo punto, arriva la disillusione. Ed
è come un petardo che scoppia all’improvviso, la
profezia che si realizza, perché ce lo ripetono da quando
nasciamo che le bastonate sulle ginocchia arrivano per tutti, prima o
poi. Ma io non ci pensavo, e neanche tu, vedevamo la vita dorata come
le medaglie che volevamo infilarci intorno al collo e ci crogiolavamo
nell’inganno che sarebbe andato sempre tutto bene e che
avevamo tutto il tempo del mondo perché eravamo fortunati,
poi però abbiamo realizzato che non è vero, non
è vero che niente può toccarci, non è
vero che siamo invincibili, siamo solo esseri umani e quindi la vita ci
passa attraverso e ci ferisce e ci uccide come uccide qualunque altro
uomo. Perciò abbiamo smesso all’improvviso di
vedere i colori come se ci avessero raschiato via gli occhi e il freddo
ci è entrato dentro le ossa pure se era estate, e noi
stavamo nel letto a battere i denti a turno.
A turno, però, smettevamo anche di farci tremare. E io i
tuoi colori li vedevo sempre, pure al buio.
Se te ne fossi andato durante una di quelle notti, il mio cuore si
sarebbe rifiutato di battere perché è viziato e
teatrale e avrebbe protestato e urlato e si sarebbe squarciato come
seta davanti ai tuoi occhi, perché il mio cuore voleva che
tu lo guardassi (guardami Shouyou, guardami, guardami, guardami).
Te la ricordi la notte che non faceva paura? Te la ricordi la notte
così piena di coraggio che la paura la scacciava via? Te la
ricordi la notte in cui credevo, in cui ero sicuro, di non volere di
nient’altro? Di non aver bisogno di nient’altro,
perché c’eri tu e c’era tutta quella
cosa fra noi che pulsava ed era calda ed era sicura ed era bellissima e
soprattutto, soprattutto, era
vera?
Te la ricordi la notte in cui volevo sentirti gridare il mio nome
dentro la gola? Mentre ti scopavo, mentre ti abbracciavo, mentre ti
guardavo dormire o mentre fingevo di dormire e tu guardavi me? E
c’era quel senso di appartenenza reciproca, di
intimità viscerale, di ossigeno di vene e di arterie
collegate, io sistole e tu diastole, che ci teneva allacciati per
l’anima, ci sembrava di avere i cuori collegati con una fune
come il gioco del telefono. E allacciati lo eravamo per davvero,
soltanto per il collo come due che stanno per essere impiccati, e
quello non era un laccio di velluto ma uno fatto di spine, che forava
la pelle, senza medaglia.
Ma a me andava bene. Mi andava bene il sangue, mi andava bene il
dolore, mi andava bene anche morire, finché ti sentivo
respirare contro la mia schiena, finché sentivo il tuo cuore
pulsare direttamente sopra il mio.
Non mi spaventava neanche la paura.
E adesso?
Mi stai ascoltando?
MI
STAI
ASCOLTANDO?
*
Quando Atsumu lo chiama, la prima cosa che dice è
‘ma che cazzo, Shouyou’.
A Shouyou sembra che gli abbiano appena ficcato un fumogeno in gola.
Brucia la lingua, brucia la bocca, forse è sempre stato un
drago e non se n’è mai accorto, forse sta per
sputare fuoco.
“Atsumu,” boccheggia Shouyou con gli occhi
sgranati. “Ma che cazzo.”
Le parolacce vanno avanti per un bel po’. Cazzo, merda, cazzo
cazzo cazzo merda cazzo merda. La cosa divertente è che gli
insulti non sono mai specificatamente rivolti all’uno o
all’altro. Imprecano in maniera generica, come se la colpa
fosse di circostanze misteriose, di entità avverse che un
giorno si sono svegliate e hanno deciso di rendere interessante la
domenica facendoli lasciare.
“Ma come ti viene in mente che mi sia innamorato di qualcun
altro?” dice Atsumu.
Shouyou trema come una foglia. Si concentra sul mare ma il tremore
aumenta.
“Non lo so,” risponde. “Non lo
so.”
Ha voglia di ridere, ha voglia di piangere, è preda
dell’isteria più totale.
“Ci possiamo vedere? Posso venire in Giappone?”
dice. “Ci possiamo vedere?” ripete.
“Posso venire in Giappone. Anche adesso. Ci possiamo
vedere?”
“No,” risponde Atsumu. “Prima
devo capire. E se tu sei con me io non capisco più un
cazzo.”
A Shouyou sembra che Atsumu non capisca un cazzo a prescindere, ma sa
che è la rabbia a parlare, quindi si impone di prendere quel
pensiero e di lanciarlo in mezzo al mare.
“Okay,” risponde. Sente i lacrimoni
ammucchiarsi negli occhi. “Puoi almeno dirmi se ci siamo
lasciati sul serio? Cioè, intendo tipo per sempre. Ci siamo
lasciati per sempre?”
Atsumu non dice nulla, e Shouyou rimane appeso come un pesce alla
lenza.
“Non lo so,” risponde infine Atsumu.
“Che cazzo significa che non lo sai?”
Atsumu sospira. “Mi dispiace,” dice. “Mi
dispiace. Mi dispiace per averti tagliato fuori dalla mia vita senza
mezza spiegazione. Ma io non lo so se voglio tornare insieme a te,
Shouyou. È che sono arrivato al punto in cui questa
relazione mi fa più male che bene. E tu sembri lontanissimo,
e non è solo perché sei dall’altra
parte del mondo.”
E finalmente Atsumu gli parla. Le parole gli scivolano dalle labbra
come il fiotto di una fontana. Gli parla dell’insonnia,
dell’insicurezza, della gelosia, gli chiede scusa e poi lo
manda a cagare per come l’ha trattato e perché
Shouyou non ha alzato mezzo dito, per loro due. Non ha fatto nulla e
Atsumu nel frattempo ingoiava lava e “scusami, scusami se non
ti ho detto nulla, però Shouyou come cazzo hai fatto a non
accorgertene? Come hai fatto a non capire quello che stava succedendo?
Perché a me manchi in continuazione e tu non hai neanche il
tempo per parlare con me dieci minuti al telefono?”
Ecco, pensa
Shouyou, mentre lo ascolta. Questo
è il vero coraggio.
Perché non è facile, parlare con quella
sincerità disarmante. Non è facile mettere di
nuovo il cuore in mano di qualcuno pure se l’hai
già perduto una volta.
Poi Atsumu gli dà del superficiale del cazzo. Gli dice
proprio: “io sono paranoico. Ma tu sei un superficiale del
cazzo. Hai un carattere davvero di merda per una relazione a
distanza.”
E beh, Atsumu ha ragione. Ha proprio ragione. Quindi Shouyou si scusa.
“Scusami,” dice. “Scusami, scusami,
scusami. Lasciami sistemare tutto. Posso fare di meglio. Posso fare
mille volte meglio di così. Ma non posso perderti,
Tsumu.”
Perciò
di’ di sì, pensa. Dimmi di sì. Dimmi
che vuoi stare con me.
Atsumu invece dice: “ho bisogno di tempo.”
Ora, Shouyou davanti a sé ha il mare. Il mare immenso, il
mare che grida di vivere, di andare, di non sprecarne neanche una
goccia di tempo, perché la vita è davvero troppo,
troppo breve per permettersi di rimanere ad aspettare.
“Perché cazzo ti serve del tempo?”
sbotta Shouyou.
“Perché devo capire se voglio farlo. Voglio essere
sicuro. Non voglio dirti sì, certo, ricominciamo da capo, e
poi fra una settimana chiamarti disperato e dirti che non ce la faccio.
Non voglio trasformare la tua vita in un inferno. E soprattutto non
voglio trasformarmi in una persona che arriveresti a
disprezzare.”
Silenzio.
“Shouyou?”
“Cosa.”
“Per favore.”
*
Shouyou si sveglia nel pieno della notte con il batticuore. La stanza
sembra improvvisamente troppo piccola.
Spalanca la bocca: inspira ed espira, ancora e ancora finché
non ridimensiona lo spazio intorno a lui. Una patina di sudore
ghiacciato gli imperla le scapole.
A tentoni, Shouyou accende la abat jour. Poi si volta verso il muro e
prova ad addormentarsi con il bagliore della lampada che indora la
stanza.
Non serve a niente, non è della luce della lampada che ha
bisogno per conciliarsi il sonno, ma di una luce più calda,
dello stesso colore degli occhi di Atsumu e con la sua
voce. Aveva dimenticato cosa significasse avere paura di
notte. Cosa significasse chiudere le palpebre e scivolare nel sonno con
tutti quegli elefanti acciambellati sul petto, la sensazione della vita
che ti sfugge dalle mani e la consapevolezza brutale di non essere
capace di decidere niente. Puoi solo rimanere fermo, abbandonarti alla
corrente, sbattere gli occhi e avere dieci anni, sbatterli di nuovo e
averne più di venti, sbatterli ancora e tenere per mano
l’amore della tua vita, sbatterli ancora e ritrovarti da
solo.
A Shouyou manca il rumore della pioggia e quello del temporale, gli
manca ascoltare Atsumu respirare, gli manca tutto quello che sono stati
e che avrebbero potuto essere e la sensazione della sua pelle sotto le
labbra e il modo in cui si vedevano si stringevano e si mostravano per
quel che erano, non invincibili come quando erano sul campo, ma fragili
come esseri viventi, perché a distruggerti basta un
imprevisto, delle volte i mostri sono dietro l’angolo e
quelli più pericolosi, quelli veri, sono quelli che credi
che non ti troveranno mai. Invece poi lo fanno. E tu li fissi scioccato
mentre loro ti azzannano.
È come se la vita ogni tanto dovesse ricordarti che
c’è sempre un prezzo da pagare, per la
felicità. Che non c’è solo la
pallavolo. Che non può esserci solo la pallavolo,
perché sarebbe un’utopia, ma tu non vivi in
un’utopia, non stai sognando, sei fin troppo sveglio, sei
qui, adesso, guardati intorno, non puoi controllare tutto. Devi capire
che la tristezza quando arriva arriva e basta, e non è colpa
tua. Non è colpa di nessuno.
Shouyou però vuole pensare che può ancora
controllare il legame fra lui e Atsumu. Gli piace pensare - deve
pensare - che dipenda ancora da loro, dalle loro scelte. Non
è un quadro che è caduto da solo, non
è un filo che si è spezzato senza preavviso,
è qualcosa che hanno rotto con una consapevolezza vigliacca.
Ma se sono loro gli artefici di quel teatro, allora significa che
possono riscriverlo, bruciare il palcoscenico, ricominciare da capo.
A Shouyou piace credere nelle cose.
Perciò, ci crede.
*
Pensi che torneremo mai a essere qualcosa? Pensi che avrai mai voglia
di salvare un briciolo di quello che avevamo, anche solo un granello di
sabbia? Pensi che potrai mai perdonarmi? Pensi che io potrò
mai perdonare te?
Credi ai mostri sotto al letto? (Certo che ci credi, li hai visti con i
tuoi occhi.)
Allora credi in noi?
Credi in me?
*
Non è la
fine.
Questo è quello a cui pensava Atsumu, mentre Shouyou
camminava di fianco a lui con una valigia gialla e gigantesca e nella
tasca il biglietto per il Brasile.
Non è la
fine. Non è la fine. Non è la fine.
Questo è quello a cui si aggrappava disperatamente, mentre
intorno a lui c’erano voci ammucchiate e le valigie colorate
di gente che tornava e di gente che partiva, c’erano la
felicità e la tristezza, espressioni tanto diverse che si
sovrapponevano e si mischiavano fra loro come se l’aeroporto
fosse una gigantesca centrifuga. Il rumore delle rotelle e quello dei
passi in corsa gli martellava nella testa e d’improvviso
Atsumu avrebbe soltanto voluto sdraiarsi per terra e rimanere immobile,
perché delle volte il tempo va troppo, troppo, troppo
veloce, come se migliaia di fotogrammi scrosciassero via dalle maniche
tutti insieme, un prestigiatore e le sue colombe.
E poi all’improvviso c’era la fronte di Shouyou
contro la sua, e i suoi palmi premuti sulle sue guance che tremavano.
La fronte di Shouyou che premeva forte, con disperazione,
l’odore di lacrime, l'aeroporto era svanito e ora Atsumu
ascoltava solo il suo respiro.
Non è la
fine, non è la fine, non è la fine.
"Shouyou," aveva sussurrato Atsumu. "Non è la fine, vero?"
Shouyou non aveva risposto.
*
Il suo delirio di onnipotenza è finito da un pezzo. Poi
è finita anche la sofferenza. Atsumu non si sente
più in grado di uccidere Dio, né tantomeno ne ha
voglia.
Si sente strano, in verità. C’è la
destra, c’è la sinistra, lui si trova al centro su
una linea invisibile. La sua percezione è appesantita, come
se fosse immerso dentro la marmellata e avesse lo zucchero filato
dentro la testa.
Non è triste, non è neanche felice. È
stabile. Equilibrato. Il che è decisamente un aggettivo
insolito per lui. Forse sta per morire.
Osamu gli rivolge una lunga occhiata. Atsumu si sente trapassato da
parte a parte.
“Ti posso dire una cosa?”
“No,” risponde Atsumu.
“Te la dirò comunque.”
Atsumu scuote la testa e alza gli occhi al cielo.
“Fa’ come ti pare.”
“Va bene lasciare qualcuno che ami.”
“Come?”
“Va bene lasciare qualcuno che ami. Non devi sentirti in
colpa per quello che hai fatto con Shouyou.”
“Non mi sento in colpa.”
“Sta’ zitto e fammi finire,” ringhia
Osamu. Atsumu chiude la bocca.
“Quello che voglio dire è che le cose non durano
per sempre. Anche se delle volte sembra di sì. E tu magari
lasciando Shouyou ti sei sentito in colpa perché hai fatto
finire una cosa che sembrava perfetta, e magari credi di aver sputato
in faccia alla fortuna o al destino - chiamalo come ti pare. E ti senti
pure ingrato, pensi che non avresti mai dovuto farlo perché
è un po’ come se avessi rinunciato al paradiso, ma
non è così. Hai il diritto di rifiutare. Hai il
diritto di dire di no pure alle cose belle.”
“Ti posso registrare?” lo interrompe Atsumu.
“Cioè, sarebbe un peccato se Suna si perdesse
tutto questo.”
“Guarda che si vede che ti stai per mettere a piangere,
perciò non mi interrompere e io in cambio
continuerò a fingere di non essermene accorto.”
Atsumu spalanca la bocca per ribattere, ma poi gli tremano gli occhi
come pozzanghere e quindi si limita ad annuire, puntando lo sguardo
sulla superficie del bancone.
“Quello che voglio farti capire,” riprende Osamu,
“è che tu puoi fare il cazzo che ti pare. Puoi
lasciare Shouyou senza sentirti in dovere di proteggerlo.
Perché Shouyou guarirà, così come
guarirai anche tu, pure se adesso sembra impossibile. Ma è
così che andranno le cose. Prima o poi starete entrambi bene
e la vostra storia rimarrà nel passato. Ma la domanda
è: vuoi davvero che rimanga nel passato? Vuoi davvero
lasciarti tutto alle spalle?
“Tu puoi stare senza Shouyou. Shouyou può stare
senza te. Perché quando ti innamori di qualcuno funziona
così, credi che non puoi vivere senza quella persona e poi
scopri che è una bugia. Ma il fatto che possiate vivere
separati non significa che lo vogliate. Io credo che tu voglia stare
con lui. E credo che anche lui voglia stare con te. E credo sia
sbagliato forzare una rottura che nessuno dei due vuole, soprattutto se
entrambi siete disposti a fare meglio rispetto a quello che avete fatto
fino ad adesso.”
“Io non-” comincia Atsumu con la voce rotta, dopo
un istante di silenzio. “Io non so se ho il diritto di
tornare indietro. Che cosa dovrei dirgli? Che mi dispiace? Che
è stato tutto per niente?”
“Non è stato tutto per niente,” risponde
Osamu. “Tu hai capito delle cose. Shouyou-kun pure. Si era
accumulata troppa tensione e ha finito per esplodere,
com’è anche normale. Si litiga in una relazione,
Tsumu. Non puoi pretendere che tutto proceda per il meglio, soprattutto
in una situazione non proprio facilissima come la vostra, con una
distanza del genere. Ma non è troppo tardi, non siete mica
finiti. Devi un attimo ridimensionare il problema, perché
non è successo niente di irreparabile. Va tutto
bene.”
“Okay,” dice Atsumu. “Okay.”
Osamu sospira e spalanca le braccia. Atsumu lo abbraccia e nasconde la
faccia umida di lacrime nel suo collo.
“Prima l’hai detta una cazzata,” gli dice
infine.
“Quale cazzata?” domanda Osamu. “Era un
discorso perfetto.”
“Che tutte le cose non durano per sempre. È una
cazzata.”
Poi Atsumu lo stringe più forte. “Io e te siamo
per sempre.”
“Ah,” dice Osamu, e ora piange un pochino pure lui.
“Immagino di sì. Ho detto proprio una
cazzata.”
*
Atsumu fa schifo con le metafore, è vero, ma mentre si
decolora le ricrescita viene fulminato da un’immagine che gli
fa pensare ‘beh, minchia.
Questa sì che è poesia.’
L’amore tra lui e Shouyou è come una partita di
Twister: all’inizio è stato facile, poggiare mani
e piedi sui giusti colori, ma poi i loro corpi hanno iniziato a cozzare
fra loro, a incassare gomitate e ginocchiate, e mantenere
l’equilibrio è diventato praticamente impossibile.
Al posto del tappetino di plastica, però, loro giocano sul
mare.
Pensateci un secondo: l’amore è come una partita
di Twister sul mare. La potenza di questa metafora.
Atsumu annuisce compiaciuto al suo stesso riflesso. In quel momento,
Sakusa attraversa il corridoio alle sue spalle e sibila un
‘testa di cazzo.’
“Ma se non ho detto niente?” protesta Atsumu ad
alta voce.
“No, ma avevi la faccia di quando pensi qualche
cagata.”
“È la mia faccia di sempre.”
“Appunto.”
Forse Sakusa è psichico, pensa Atsumu. Laureato,
pallavolista pagato, psichico. E pure un po’ stronzo.
È proprio vero che c’è chi nasce con
tutto.
Dopo aver risciacquato la decolorazione, Atsumu si guarda allo
specchio: la ricrescita scura è scomparsa e Atsumu sente
l’universo intorno a lui che si riequilibra,
l’armonia cosmica. Beh, più o meno.
C’è una lieve pendenza che oramai è una
costante.
“Dovresti partire.”
Atsumu fissa Sakusa dal riflesso dello specchio. Ha le braccia conserte
e le sopracciglia leggermente inarcate. Gli fa pensare a un gatto
schizzinoso.
“Per andare dove?”
“A fanculo,” risponde Sakusa, scuotendo la testa.
“In Brasile, Miya. Dove altro vorresti andare?”
Da nessuna parte, pensa Atsumu. Perché non posso avere tutto
senza muovermi?
“Perché io?” chiede invece.
“Perché non può essere Shouyou a venire
qui?”
“Perché sei tu quello che ha paura. Della distanza
e dell’oceano. Perciò sei tu che devi
affrontarla.”
Psichico, laureato, ben pagato, un po’ stronzo e pure saggio.
Cristo, quanto è fastidioso.
*
“Shouyou, ma tu prima mi amavi?”
“Ma che cazzo,” risponde Shouyou
dall’altra parte del telefono. Atsumu sente il rumore
dell’oceano in sottofondo, e gli viene voglia di guardarlo.
“Certo che ti amavo. Ti amo anche adesso. Tempo
presente.”
Silenzio.
“Atsumu?”
“Non me l’hai mai detto. Perché non me
l’hai mai detto?”
“Non lo so,” risponde Shouyou, agitato.
“Atsumu, ho fatto davvero così schifo da non
riuscire a farti capire neanche questo? Che ti amo?”
*
A Shouyou piace credere nelle cose e nelle persone. Quando Atsumu gli
dice di aver comprato un biglietto per San Paolo, però,
Shouyou non ci crede.
Mentre lo aspetta all’aeroporto con le mani che tremano,
sbatte le ciglia e torna ad avere dieci anni. Poi le sbatte di nuovo e
ne ha più di venti. Le sbatte ancora e
c’è l’amore della sua vita che dorme
accanto a lui. Le sbatte ancora e c’è la
solitudine, quella che non ti fa vedere più niente.
Le sbatte ancora e c’è Atsumu, che si osserva
sperduto intorno trascinandosi dietro un grosso trolley arancione.
Atsumu, Atsumu, Atsumu.
Poi c’è la sua fronte che preme forte sulla sua, i
suoi palmi sulle sue guance, l’odore di lacrime e di risate e
la voce che non esce. Shouyou assaggia il sapore delle stelle sulle
labbra, Shouyou sente il coraggio che scaccia la paura e il buco sulla
schiena che si riempie di luce dorata. Abbracciarlo, sentire la forma
delle sue ossa contro le sue, è come tornare a casa.
Però quella casa è senza tetto e si
può vedere tuuuuutto il cielo.
“Tsumu,” sussurra Shouyou. Tsumu, Tsumu, Tsumu.
“Non è la fine, vero?”
Atsumu scuote la testa.
Come potrebbero, loro due, fare qualcosa che sia finire?
*
Sono sulla spiaggia. È il tramonto.
“Ho scoperto una cosa,” gli dice Atsumu.
“Cosa?”
“Posso vivere senza di te,” gli dice. Shouyou
stringe la sua mano in uno spasmo. “Ma non voglio.”
Shouyou gli poggia la guancia sulla spalla. Strofina il naso contro la
sua pelle, Atsumu gli bacia la fronte.
Ora, Shouyou con le metafore è un po’
più bravo di Atsumu. Perciò, se dovesse
descrivere il loro amore, vi direbbe: immaginate qualcosa di denso,
salato, profondo chilometri, un amore tanto immenso da poter ingoiare
il mondo. Immaginate un amore che batte sotto la sabbia. Il cuore
dell’acqua che pulsa e che fa circolare le correnti come se
fossero sangue. Immaginate una farfalla che mangia le lacrime.
Immaginate il mare.
Note d'autore
Hi, beautiful people. Cioè, grazie per essere arrivati fino
in fondo. Questa è una roba estremamente sconclusionata ma
sono nel pieno di un blocco atroce e invece di cancellare l'ennesima
storia mi sono forzata di pubblicarla, però prendetela per
quello che è, ovvero una bozza che non ha avuto la spinta
giusta per trasformarsi in una storia vera e propria. È un
po' un groviglio mal assortito di roba di cui avrei voluto parlare e di
concetti che avrei voluto approfondire, ma magari un giorno la
riprenderò in mano e la sistemerò! Nel frattempo,
grazie per aver letto ed essere arrivati sin qui, davvero! ♥
See ya ♥
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