Home
Sick Home
Sono passati vent’anni da quando ha calcato quelle strade
per l’ultima volta, ma da allora non è cambiato
niente.
Ethan si ricorda perfettamente ogni cosa, ogni angolo di
ogni via polverosa, ricorda gli edifici diroccati in cui Davi gli
intimava di
non addentrarsi – ma lui lo faceva lo stesso –,
ricorda il negozietto di frutta
e verdura dove a volte sua madre gli chiedeva di andare a comprare
qualche
zucchina, ricorda i murales ormai sbiaditi con cui alcuni ragazzini
annoiati
avevano marchiato le pareti di nessuno.
Il vociare che si diffonde nell’aria non è
cambiato, così
come il suono lontano della banda che passa per strada a ritmo di samba.
Fin da piccolo è sempre stato molto bravo a crearsi delle
mappe mentali e orientarsi, se è stato in un posto
sicuramente non se l’è
scordato. E così, dopo due decenni in cui non ha calcato
quell’asfalto
trapuntato di solchi, si ritrova a procedere a passo sicuro in
direzione del
luogo che non avrebbe mai pensato di rivedere.
Ha perso il conto di quanti mezzi ha dovuto prendere –
aerei, treni, pullman – per giungere fin lì,
l’unica cosa certa è che si è
sentito disorientato ovunque, in ogni momento. Della sua vecchia vita
sono
rimasti solo la chitarra classica che porta in spalla – la
prima, la più vecchia,
quella su cui ha imparato a suonare – e il borsone contenente
qualche indumento
e alcuni vinili. Tutti gli altri punti di riferimento sono evaporati,
ha
sentito il suolo cedere sotto i suoi piedi per la millesima volta nella
sua
vita.
Ci sono due oggetti che non avrebbe mai potuto
abbandonare: la maglietta con il logo dei Led Zeppelin che Davi gli ha
regalato
per il suo undicesimo compleanno – ormai troppo piccola,
sbiadita e incrostata
di avventure – e il walkman che Ives gli ha comprato per
Natale quando erano
ancora ragazzini e avevano cominciato a racimolare i primi soldi grazie
alla
band – Ethan allora si era arrabbiato, non sopportava
l’idea che il suo
migliore amico spendesse così tanto per lui.
Fa male, ripensare a quei momenti gli apre una voragine
nel petto, ma non vuole nemmeno cancellare tutto ciò dalla
sua memoria. Non
potrebbe in ogni caso: i ricordi sono un po’ come i tatuaggi
che gli marchiano
la pelle, cicatrici di una guerra che combatte contro il mondo da
venticinque
anni.
Quando è atterrato in Brasile ha regalato la sua vecchia
giacca a un senzatetto – d’altro canto lui stesso
non può considerarsi altro
che questo, un uomo senza casa – perché non gli
sarebbe più servita; l’aria
bollente di Bahia non ha nulla a che vedere con l’inverno
losangelino. Si sente
stupido ad ammetterlo, ma in quel momento si è sentito come
se gli avessero
portato via un altro pezzetto di sé.
Ora che si ritrova a camminare sotto il sole forte della sua
città, con la brezza umida che gli si attacca alla pelle,
prova un misto di
nostalgia, disprezzo e malinconia. Perché forse quello
è sempre stato il luogo
a cui appartiene – forse a quel luogo non appartiene affatto
e la sua vera casa
è Los Angeles.
Le sue sneakers consumate – non solo il tessuto, ma anche
le suole cominciano a sbriciolarsi sotto i suoi passi – lo
conducono fino a
quella struttura maledetta, a quella facciata triste col portoncino in
legno
sfibrato e le due finestre sempre uguali, sempre senza tapparelle.
Chissà se il portoncino cigola ancora quando viene
aperto.
Chissà se l’odore di cipolle e spezie si spande
ancora in
ogni stanza, incollandosi ai mobili.
Chissà se esiste ancora il ripostiglio dalle mura
ammuffite in cui non si sente nessun rumore, nemmeno quello delle
campane che
battono forte il mezzogiorno.
Chissà se Thiago ha ancora quell’irritante
sorrisetto di
scherno di chi è consapevole di avere tutti dalla sua parte.
Si ferma.
Con quale faccia si presenta alla porta della casa in cui
è nato dopo tutto quel tempo? Dopo essere scappato
all’età di cinque anni
insieme a tre dei suoi fratelli e aver lasciato sua madre e la sua
sorellina
minore a soffrire per mano di un violento alcolista.
All’epoca voleva solo
fuggire, stare con le persone che lo facevano sentire al sicuro.
Là dentro nessuno lo riconoscerà,
l’ultima volta che
l’hanno visto era un bambino.
Si sente quasi in colpa, si sente uno schifo a essere lì,
ma è l’unico luogo che gli è venuto in
mente quando ha appreso che sarebbe dovuto
scappare dagli Stati Uniti.
Scappare, ecco la parola chiave della sua
esistenza.
Si muove in automatico, con la mente annebbiata di chi
non ha più la forza di pensare: si avvicina
all’ingresso e bussa. Non si chiede
cosa succederà, chi aprirà o cosa
dirà; non è mai stato abituato a speculare
sulle proprie azioni.
Trascorrono alcuni minuti, poi il portoncino si schiude e
Ethan lo riconosce, quel cigolio familiare che stride fin dentro le
orecchie.
La luce accecante del tardo mattino illumina la figura esile di una
ragazza sui
vent’anni, dai lunghi capelli lisci e neri e due occhi
grandissimi, identici a
quelli di Ethan.
Non appena scorge il nuovo arrivato, sobbalza e si porta
una mano davanti alle labbra, intimorita; forse aspettava qualcun
altro, forse
si aspettava qualsiasi cosa tranne di ritrovarsi davanti uno
sconosciuto che
però le somiglia così tanto.
Ethan pensa che sia bellissima, ma non nello stesso modo
in cui l’ha pensato di tutte le ragazze che si è
portato a letto: è bella in
modo puro, genuino, quasi familiare.
“Lília?”
ha il coraggio di spezzare il silenzio lui. Non gli capita spesso di
sentirsi
così a disagio e insicuro nel rivolgersi a qualcun altro.
Lei continua a squadrarlo da capo
a piedi, esaminando ogni suo minimo dettaglio in cerca di un indizio
che le
fornisca qualche risposta. Dopo un lungo e teso silenzio, esala:
“Tu sei uno di
quei fratelli che sono fuggiti”.
Non è una domanda. Ha
riconosciuto il sangue del suo sangue, Ethan glielo legge nelle iridi
scure.
“Ethan” afferma lui
annuendo,
quasi timoroso di rivelare la sua identità e scoprire la
reazione di sua
sorella: gli urlerà di andarsene, lo spingerà
via, lo guarderà con disprezzo.
Ma lei non fa nulla di tutto
ciò.
I suoi occhi sono ancora sgranati, sul suo volto giovane e bello da
togliere il
fiato è dipinta l’indecisione.
“Perché sei tornato?” sussurra infine.
Ethan non glielo vuole dire, non
vuole raccontarle che il loro fratello più grande
– uno dei più importanti
spacciatori di Los Angeles – è stato arrestato
dopo vent’anni in cui ha venduto
a milioni di ragazzi un biglietto di sola andata per la loro fine. Non
vuole
spiegarle che è dovuto fuggire per non essere collegato a
lui in alcun modo e
perché non gli è rimasto più niente
– Davi era tutto, colui che lo manteneva,
l’unico a cui importava ancora di lui, la persona che non
l’ha buttato in mezzo
alla strada nonostante negli ultimi tre anni abbia solo bevuto come una
spugna.
“Sei Lília?”
ripete quindi,
sperando di riuscire a sviare il discorso.
“No, sono Ofélia.
Quando ve ne
siete andati, mamma era incinta di me.” Le sue parole sono
piatte, quasi
glaciali.
Allora Ethan ricompone i pezzi
del puzzle e si sente ancora peggio: si trova davanti alla sorellina
che non ha
mai visto nascere, che ha abbandonato ancora prima di poterla
accogliere. Non
aveva nemmeno idea che fosse una ragazza e non un ragazzo.
Non sa cosa dire. Non è mai
stato
bravo in questo.
Ofélia ha il respiro accelerato
e
il viso leggermente pallido. “Senti,” riprende la
parola con voce rotta, “io
non so se posso farti entrare, non so cosa… devo chiedere a
mamma. E Lília non
è ancora tornata… aspetta un attimo.”
Detto ciò, socchiude l’uscio e scompare
nel corridoio immerso nella penombra che – da quel poco che
Ethan è riuscito a
scorgere – non è cambiato per niente.
Non può biasimare
Ofélia e la sua
incertezza: avrà al massimo vent’anni e sul viso
ha ancora l’innocenza
dell’adolescenza, si ritrova a fronteggiare una situazione
che non aveva mai
preso in considerazione e a decidere se fidarsi di qualcuno che per lei
è uno
sconosciuto.
Ethan non aveva sperato di essere
riaccolto come un figliol prodigo, non è affatto deluso
dalla piega che stanno
prendendo gli eventi, tutt’altro; si sente fortunato per il
fatto che non gli
sia stata sbattuta la porta in faccia all’istante.
L’aria attorno a lui è
tesa,
sente il peso della chitarra e del borsone ancora più
pressante sulle spalle.
Cerca di affinare l’udito per cercare di carpire qualche
stralcio di
conversazione dalle viscere dalla casa, ma non sente niente. Per un
attimo gli
pare di riconoscere la voce di sua madre – se la ricorda
ancora dopo tutti
questi anni? – e la trova strana, come preda di un lamento.
Gli vengono i brividi.
Dopo qualche minuto ecco che
Ofélia compare nuovamente sulla soglia,
l’espressione tirata di chi non è
riuscito a venire a capo di un problema. “Vieni dentro.
Lília tornerà a momenti
per il pranzo, sarà lei a decidere.”
Vorrebbe chiedere cosa ha detto
la madre a riguardo, ma fare domande non è da lui.
In casa tutto è rimasto uguale,
ma a Ethan sembra tutto più piccolo; si ricorda ancora
quando era costretto a
mettersi in punta di piedi per osservare i poveri e scarni oggetti che
erano
ordinatamente disposti sulle mensole in legno.
Là dentro non
c’è niente, non è
stato aggiunto né tolto un granello di polvere.
L’unica differenza è il
silenzio surreale che striscia in ogni stanza – quando era
piccolo lui non
esisteva la pace, c’erano sei figli in giro per casa.
Ofélia lo conduce fino alla
piccola cucina deserta, come a presentargliela per la prima volta.
Effettivamente si sente proprio come un ospite, non si permette nemmeno
di poggiare
i suoi bagagli o di prendere posto. Si guarda attorno spaesato come se
fosse appena
stato catapultato dentro una vecchia cartolina.
E improvvisamente si rende conto
dell’assenza di suo padre. Si ritrova a ringraziare il dio in
cui non crede per
questo, perché se se lo ritrovasse davanti ora lo potrebbe
uccidere a mani
nude.
“Mamma sta riposando,
è in camera
sua” rompe il silenzio Ofélia, probabilmente nel
tentativo di stemperare
l’atmosfera. “Sai… lei… non
sta molto bene ultimamente.”
Ethan la osserva mentre mette in
ordine gli utensili da cucina, passa lo straccio sul tavolo e sul piano
cottura, sciacqua alcuni pentolini e porta fuori delle verdure dal
frigorifero.
Tiene sempre lo sguardo basso, non si volta mai a guardarlo.
C’è una straordinaria
delicatezza
in tutto ciò che fa – Ethan si ritrova a pensare
che Ofélia somigli tanto a
Olivia, la sua adorata sorella maggiore.
“Non so quando sia cominciato,
forse quando papà è morto o forse addirittura
quando ha perso Cristóvão…”
“Nostro padre è
morto?” la
interrompe bruscamente Ethan, sollevando forse eccessivamente il tono
di voce.
La ragazza sobbalza.
“Sì, ormai
sei anni fa. Stava male. Noi gliel’abbiamo detto di smettere
di bere, ma…”
Ethan si ritrova a sorridere,
mentre un’ondata di euforia e soddisfazione lo invade. Non
poteva ricevere
notizia migliore: l’uomo che ha creato una famiglia per poi
distruggerla, che
ha picchiato i figli e lasciato in loro cicatrici ancora più
profonde, che ha
maltrattato, massacrato e messo incinta la moglie anche quando lei non
ne
poteva più, aveva smesso di esistere. Non solo Ethan ne
è felice, ma quelle
sensazioni non lo fanno sentire affatto in colpa.
Proprio in quel momento Ofélia
si
volta e i loro occhi si incrociano; quelli della ragazza sono velati di
tristezza. Ethan si domanda se veramente stia soffrendo al ricordo del
padre.
“Era un pezzo di merda”
afferma
quindi, per mettere in chiaro il suo punto di vista. Forse non il
miglior modo
per fare una buona impressione sulla sorella che non ha mai conosciuto
prima,
ma non riesce a fingere ed essere incoerente con se stesso.
“Era
pur sempre nostro padre” ribatte lei.
“Era un uomo egoista che non ha
fatto che maltrattare la sua famiglia. Questo è
ciò che ho vissuto io.”
Ofélia ora ha il capo ben
sollevato e un atteggiamento risoluto. “Mamma ci ha insegnato
a volergli bene
nonostante tutto. Bisogna sempre perdonare, solo così Dio ci
avrà in gloria.”
Ethan si trattiene dal riderle in
faccia; ha già capito che quel discorso è
destinato a concludersi lì, è appena
andato a sbattere contro il muro della cieca fede che lui non ha mai
avuto.
“Cosa stavi dicendo prima? nostra madre, la sua
salute…”
Ofélia abbassa nuovamente lo
sguardo e prende ad affettare una carota. “Non sta bene, la
sua testa… non
funziona più come prima. A volte dice delle cose senza
senso, a volte vede cose
che non esistono… a volte si sveglia nel cuore della notte e
inizia a
lamentarsi senza motivo. Abbiamo chiamato un medico, gli abbiamo
chiesto di
visitarla per capire cos’abbia, ma lui ci ha detto che non si
può fare niente e
si deve solo avere pazienza.”
Quelle parole a Ethan fanno
veramente male, forse è la prima vera emozione forte che
prova da giorni:
evidentemente sua madre è impazzita per il troppo dolore
accumulato durante
l’arco della sua vita, il suo perenne stato di sottomissione
ha dato il colpo
di grazia a una mente fragile e incapace di ribellarsi. E nemmeno
l’idea che
l’artefice di tutto ciò sia morto lo conforta,
perché ha lasciato tracce troppo
profonde del suo passaggio.
Ethan sente la rabbia montare
dentro sé e non riesce a trattenere alcune imprecazioni
– in inglese, in modo
che Ofélia non possa capire.
Lei gli lancia un’occhiata in
tralice, attende che il silenzio cali di nuovo e poi riprende a
parlare: “Le
siamo rimasti solo noi: io, Lília e Thiago. Voi quattro
siete andati via e Cristóvão,
povera creatura…” La voce le si incrina appena
sulle ultime parole. Lascia
cadere il coltello sul tagliere e afferra una patata.
Ethan è tentato di tacere come
al
solito, ma si sforza di dar voce ai suoi dubbi: “Un altro
figlio?”
“L’ultimo. Quando
è nato io ero
molto piccola, ma ricordo che era così fragile e
magro… aveva dei problemi di
salute, non respirava bene e anche il suo cuore non si era ben formato,
c’erano
degli interventi che doveva fare ma noi non avevamo tanti soldi e mamma
non
poteva spostarsi da casa per troppo tempo, io e Lília
eravamo piccole… mamma si è presa cura di lui
come ha potuto, ma poco dopo aver
compiuto un anno Cristóvão
è morto.” Si può
percepire una profonda commozione nelle sue parole.
Ethan non sa bene cosa ribattere.
Si ritrova amaramente a pensare che, sia che fosse rimasto a Bahia e
sia che
fosse fuggito a Los Angeles, il dolore l’avrebbe comunque
seguito ovunque.
Proprio in quel momento il
cigolio del portoncino d’ingresso annuncia
l’ingresso di un nuovo arrivato e
Ethan tira un sospiro di sollievo; non attendeva altro che
un’occasione per
uscire da quella situazione scomoda.
“Sono a casa!” annuncia
una voce
femminile e allegra, rimbombando appena tra le pareti spoglie
dell’ingresso.
Ethan e Ofélia fanno in tempo a
scambiarsi
appena uno sguardo prima che Lília compaia sulla soglia
della cucina.
Lui la riconosce all’istante,
nonostante siano passati due decenni: capelli castano scuro raccolti,
occhi
penetranti, viso affilato e quella cicatrice sulla guancia, quella che
le ha
lasciato suo padre quando l’ha picchiata da piccola. Ethan se
lo ricorda
ancora, l’aveva difesa e alla fine era stato lui a soccombere
e attirarsi
addosso l’ira dell’uomo.
È diversa dalla madre e dal
resto
delle sorelle: ha i fianchi stretti, la carnagione pallida ed
è più magra del
dovuto; nulla in lei trasuda cattiva salute, ma tutto in lei trasuda
preoccupazione.
Si immobilizza all’ingresso della
stanza e lancia occhiate stranite alternativamente a lui e alla sorella.
“È Ethan, nostro
fratello. L’ho
fatto entrare perché non sapevo che
fare…” si affretta subito a spiegare
Ofélia, mettendosi in piedi.
“Ethan?!” sbotta lei in
tutta
risposta, puntandosi le mani sui fianchi.
Dal canto suo, lui si sente
parecchio a disagio; vorrebbe scusarsi per la sua presenza, ma subito
reprime
quel pensiero. Non è da lui, non lo farebbe mai.
“Ciao” butta
lì infine. Ciò non
lo fa sentire meno fuori luogo.
“Ah. Così,
all’improvviso, dopo
vent’anni. Ma con quale faccia ti presenti qui,
eh?” Lília fa un passo avanti,
il volto distorto da una rabbia e una determinazione che, per qualche
ragione,
a Ethan è familiare.
Non è una domanda banale: con
quale faccia si è presentato lì? Se lo chiede dal
momento in cui la sua vecchia
casa è entrata nel suo campo visivo quel giorno.
“Questa è anche casa
mia”
sentenzia Ethan con risolutezza. Non ammetterà mai di essere
nel torto, va
contro ciò che ha imparato per poter sopravvivere: il
contrattacco è la miglior
difesa.
“Ah, è casa tua.
Improvvisamente
ti sei ricordato di avere una casa in Brasile dopo mezza vita, mmh? E
fammi
indovinare: ti sei pure ricordato di avere una famiglia. Di avere una
madre che
in questo momento giace in un letto in preda alle allucinazioni? Ti sei
ricordato di avere un padre che se ne sta in una tomba da
più di cinque anni?
Ti sei ricordato di avere delle sorelle che sono state costrette a
lavorare fin
da quando erano piccole per sopravvivere e che si devono prendere cura
totalmente da sole di una donna demente? Tutto ciò mentre tu
e quegli altri
andavate a fare la bella vita in
America…”
A Ethan viene da ridere e non
riesce a trattenersi. Sa che è fastidioso se qualcuno ti
ride in faccia quando
sei su tutte le furie, ma non può fare altrimenti.
“La bella vita… per favore!”
Lília gli lancia
un’occhiataccia,
nello stesso identico modo in cui lo farebbe lui. Quando la guarda gli
sembra
di vedersi allo specchio, ha le sue stesse identiche reazioni;
addirittura le
sue mani tremano per la rabbia e Ethan sa che sta cercando di
trattenersi dal
mettergliele addosso. “Se così non fosse, non
sareste partiti. O sareste
tornati molto prima, esattamente come hai fatto tu adesso.
Cos’è successo, il
vostro castello è crollato? Sono cominciati i casini e
improvvisamente avevi
bisogno di un luogo dove rifugiarti?”
Ethan sta cominciando a perdere
la pazienza: detesta quell’interrogatorio a cui non ha alcuna
intenzione di
rispondere, detesta essere squadrato con quello sguardo giudicante
– cosa ne
può sapere lei di quello che ha vissuto? – e di
essere trattato come se non
avesse alcuna dignità. A tutto c’è un
limite.
E soprattutto non sopporta che
quelle parole così vere gli trafiggano il petto.
“Senti un po’: non
starò qui a
farmi fare la predica da te per qualcosa che avevo il diritto di fare.
Io,
Davi, Arthur e Olivia avevamo la stessa possibilità di
andarcene che avete voi;
farlo o meno è una scelta soggettiva. Vuoi biasimarmi solo
perché ho avuto
coraggio?” Prova a mantenere dei toni pacati e civili, ma le
sue parole sono
già venate di nervosismo e il suo corpo ha già
assunto un atteggiamento di
sfida.
“Facile parlare dopo essertene
fregato per anni.”
“Ah, io non posso giudicare le
tue scelte ma tu puoi parlare come se sapessi ciò che
è successo a Los Angeles.
Questo ragionamento non fa una piega, complimenti.”
Vorrebbe gridarle che da quando
sono arrivati in California le cose sono andate di male in peggio, che
la
famiglia si è smembrata in fretta, che Davi è
entrato sempre più a fondo in un
giro losco e hanno vissuto per anni
nell’illegalità, che non hanno mai avuto
una bella vita nonostante i soldi non mancassero, che negli ultimi anni
si è
ritrovato nel suo peggior incubo perché ha visto la vita
scivolar via da una
delle persone che amava di più al mondo. E vorrebbe anche
dirle che l’ha amata
tanto, che quando erano piccoli l’ha sempre protetta
nonostante lui stesso
fosse un bambino, che si sarebbe fatto ammazzare per la sua
sorellina e
che se avesse potuto l’avrebbe portata con sé, ma
aveva solo cinque anni e non
aveva alcun potere decisionale.
Ma non fa nulla di tutto ciò.
Lília muove un altro passo
avanti. La sua espressione non accenna a mutare. “Non ti
è venuto in mente che
poteva esserci bisogno di te qui?”
“Ma aveva cinque anni, come
poteva pensarlo?” prova a intromettersi Ofélia
debolmente. Per tutto il tempo è
stata zitta, con lo sguardo basso, ad affettare le verdure per il brodo.
Ethan non riesce a spiegarsi come
mai Ofélia, una persona che non l’ha mai visto
prima di quel giorno, abbia
deciso di prendere le sue parti; soprattutto non sa se questo lo faccia
sentire
compreso o lo mandi su tutte le furie. Non è abituato a
essere difeso, non ha
mai avuto qualcuno che parlasse al posto suo.
Lília rivolge
un’occhiataccia
alla sorella minore. “Anche noi, quando avevamo cinque anni,
non pensavamo a
niente. Subivamo e basta. Sopravvivevamo. Ma ora siamo ancora qui,
siamo
rimaste.”
“Quindi, fammi capire”
riprende
la parola lui, sempre più spazientito, “sei
incazzata con me perché secondo te
ho avuto più fortuna di voi? Quindi dovresti essere
perennemente incazzata con
chiunque sia più ricco, fortunato, bello, abbiente e colto
di te? Che vita di
merda si vive a odiare mezzo mondo senza nessun motivo?”
Ormai i toni sono
accesi, ha perso il controllo sul volume della sua voce, non riesce
più a
calibrare i termini e le parole da utilizzare. E sente caldo, molto
caldo.
Lília scuote la testa e gli si
fa
più vicina di un altro passo, puntando lo sguardo fisso nel
suo – appare
davvero minacciosa, nonostante sia così esile e suo fratello
la superi di
almeno dieci centimetri. “Non sono incazzata con te
perché te ne sei andato, ma
perché sei tornato. Pensi di essere
riaccolto dopo tutto questo tempo
come se niente fosse, mmh?” Le sue parole sono appena un
sibilo, ma risultano
affilate come coltelli.
“Io veramente non ti ho chiesto
un cazzo.”
“E cosa sei venuto a fare allora,
una visita di cortesia? Se così fosse, non avresti aspettato
per vent’anni. Non
pensare di ingannarmi così facilmente: so che le cose si
sono messe male per
voi, so che Davi è stato arrestato, ne parlano tutti
qui.”
Lui si stringe nelle spalle,
cercando di ostentare una calma che non possiede. “Ripeto: se
la mia presenza
non è gradita, tolgo il disturbo. Vivo per strada da
venticinque anni, non mi
spaventa affatto non avere una casa.” Detto questo, cerca di
scansare la
sorella per accennare qualche passo verso l’uscita
– detesta la presenza della
ragazza così vicina a sé, si sente in trappola.
“No! Rimani almeno per il pranzo,
sarai stanco per il lungo viaggio” prova a fermarlo
Ofélia, sollevando una mano
nella sua direzione.
Ethan scuote il capo. “Non ci
penso nemmeno.” Si sistema meglio i bagagli in spalla, poi
improvvisamente gli
viene in mente qualcosa e si volta nuovamente verso le sorelle.
“Posso almeno
vedere mia madre, o sono troppo stronzo anche per questo?”
“No. Non la vedrai”
sentenzia Lília
con fare perentorio.
Ethan si aspettava qualsiasi
risposta, ma non quella. Come può Lília, quella
che lui ricorda come la bambina
più dolce del mondo, essere diventata così
cattiva da non permettergli nemmeno
di rivedere la donna che l’ha dato alla luce? Non lo accetta,
nella sua testa
non esiste che qualcuno gli dia degli ordini.
Un’ondata di rabbia lo assale per
l’ennesima volta quel giorno ed è costretto a
stringere i pugni per frenare il
tremito alle mani. Prende un profondo respiro per calmarsi, poi sorride
appena
con scherno. “Mi fa piacere sapere che non sei
d’accordo. Peccato che sia mia
madre e io la possa vedere quando voglio.”
“Ma non hai nemmeno un briciolo
di sensibilità allora! Ti sembra il caso di presentare a una
donna già
fisicamente e mentalmente debole il figlio che non vede da
più di vent’anni? Ti
rendi conto dell’effetto che questo potrebbe avere sulla sua
salute? Quanto sei
egoista…” lo attacca subito sua sorella,
rivolgendogli un’occhiata colma di un
odio e un disprezzo che forse nessuno gli aveva mai riservato.
“Cosa pensi, che
morirà sul colpo
non appena mi vedrà? La cosa potrebbe farla felice,
ritroverebbe almeno un
figlio dopo averne persi cinque. E mi pare che l’egoista tra
i due non sia io”
sputa lui velenoso. Non lo farà sentire in colpa, non lo
impietosirà con un
paio di parole ben scelte e studiate.
Fa per voltarsi e dirigersi in
corridoio – non ha bisogno che qualcuno lo guidi, sa
perfettamente dove si
trova la camera della madre – ma Lília
è più veloce di lui: con un movimento
rapido lo supera, sgattaiola fuori dalla cucina e si frappone
esattamente tra
lui e la porta della camera matrimoniale. I suoi occhi fiammeggiano
come quelli
di un felino pronto ad attaccare, la determinazione e la fierezza la
rendono
ancora più maestosa di quanto normalmente non appaia. Non
appena se lo ritrova
davanti, non accenna ad abbassare lo sguardo. “Non osare
avvicinarti. E non
provare a toccarmi. Ne ho prese fin troppe nella vita per farmi
spaventare da
te.”
In mezzo alla furia che lo sta
assalendo, Ethan trova la forza di riflettere sul fatto che, a parti
invertite,
lui avrebbe agito nello stesso identico modo per difendere una persona
amata.
Evidentemente è qualcosa che fa parte del loro DNA, si
è sviluppato
parallelamente in loro nonostante non siano cresciuti insieme.
“Io, picchiarti? Ma mi hai preso
per quel pezzo di merda di tuo padre?” le grida contro, punto
sul vivo da
quelle parole. Lui le donne non le sa certo abbracciare e amare, ma non
si
sognerebbe nemmeno di metter loro le mani addosso con
l’intento di ferirle; non
esiste orgoglio o ira che lo porterebbe a compiere un gesto del genere.
“Ecco, non hai niente da fare
qui! Fuori! Esci da casa mia!” Stavolta anche
Lília perde la pazienza, si
squarcia la gola pur di dimostrargli che, dentro quella casa,
sarà sempre lei
ad avere la voce più alta.
“Lília.
Lília! Cosa sta
succedendo?” Una voce sommessa e allarmata giunge alle spalle
della ragazza,
sorprendendoli entrambi.
Con la coda dell’occhio, Ethan
nota Ofélia comparire sulla soglia della cucina e
precipitarsi nella camera
della madre, quasi terrorizzata all’idea che la donna si
agiti.
Qualcosa scatta in Ethan e lui
realizza, forse per la prima volta in vita sua, che non ha senso in
quel
momento continuare a essere così ostinato: la sua presenza
là dentro sta
creando solo scompiglio e per il momento non può fare tanto
altro.
“Me ne vado, ma soltanto
perché
sono io a volermene andare, sia chiaro. E sappi che questa non
è l’ultima volta
che vedrai la mia faccia” alza bandiera bianca, ma con la
fierezza di chi sa di
aver perso una sola battaglia, non l’intera guerra.
“È Thiago?
Perché state litigando
con Thiago?” sente biascicare dalla camera matrimoniale.
Gli viene quasi da ridere.
Thiago, l’unico suo fratello maggiore che ha deciso di
rimanere in Brasile
quando tutti gli altri sono partiti, il bravo bambino
che faceva
qualsiasi cosa per compiacere suo padre e averlo dalla sua parte, il
traditore
che chiudeva entrambi gli occhi quando vedeva la madre venir
maltrattata e i
fratelli massacrati di botte. Thiago, che non pareva avere un cuore e
un
briciolo di empatia, frequenta ancora quella casa. Può
vedere sua madre. Lei lo
ricorda e sicuramente gli vuole bene nonostante tutto.
E Ethan è sempre il figlio
peggiore, quello che se n’è sempre fregato anche
se è l’unico a cui è sempre
importato.
Gli viene la nausea a stare in
quel luogo così marcio e ingiusto, in cui ancora una volta
viene accusato di
non aver fatto niente, di aver fallito, di non aver amato abbastanza.
Come è successo con Ives.
Se Lília gli risponde, lui
nemmeno se ne accorge; le ha già voltato le spalle, si
è diretto all’ingresso
ed è uscito, tornando sotto il sole cocente del pomeriggio
brasiliano, con i
suoi ridicoli bagagli che ora sembrano pesare il doppio.
Prende la prima strada che gli
viene in mente, quella che lo condurrà alla fermata del bus.
Non sa bene cosa sia accaduto, è
successo tutto troppo in fretta – è una sensazione
che ha spesso, la sua vita
va sempre di corsa e lui non ha il tempo per metabolizzare. Forse
è lui che non
si dà occasione di riflettere su ciò che fa,
agisce d’istinto e non sa darsi
delle risposte, ha il costante bisogno di essere sempre in mezzo a qualcosa.
Perché, tra tutti i luoghi del
mondo in cui si sarebbe potuto rifugiare, ha scelto proprio Bahia, la
sua città
natale? Non lo sa. Quando ha saputo dell’arresto di Davi,
è semplicemente
entrato nella prima agenzia di viaggi e ha detto il primo luogo che gli
è
venuto in mente. Forse, se si fosse soffermato sui suoi pensieri, ora
saprebbe
anche il perché.
Raggiunge la fermata, attende in
piedi, si guarda attorno senza realmente vedere ciò che lo
circonda. Arriva un
bus, lui lo prende e non sa nemmeno quale sia la destinazione del mezzo.
Perché si è
presentato a casa sua
dopo tutti quegli anni? Cosa sperava di ottenere? La domanda di
Lília continua
a frullargli in testa, fastidiosa, perché non è
riuscito e tuttora non riesce a
trovare una risposta. Forse era stufo dei continui cambiamenti che
l’hanno
accompagnato per tutti quegli anni, voleva un minimo di
stabilità, qualcosa di
conosciuto, dei volti noti. Non gli è rimasto più
niente a parte le sue radici,
ma anche quelle ora sembrano volerlo tradire e lasciarlo senza appigli
ancora
una volta.
Certe volte si domanda come mai,
quando da bambino ha assistito a quella sparatoria in un angolo sudicio
del suo
quartiere a Bahia, non gli abbiano piantato una pallottola in testa e
posto
fine ai suoi problemi già in partenza. Eppure lui
è così aggrappato a quella
vita che non gli ha mai dato niente di bello.
Scende dal mezzo scassato e
brulicante di anime povere come la sua, si accorge di trovarsi in
centro. È ora
di pranzo, gli ambulanti vendono cibo a poco prezzo, per le strade si
spande
l’odore di frittura e aceto, ma lui non ha fame. Entra in una
piccola bottega e
compra una bottiglia di Jack Daniel’s, la sua unica fonte di
salvezza da quando
aveva quattordici anni. La berrà tutta, da solo, a stomaco
vuoto, con la solita
stupida convinzione che questo lo aiuterà – non
succede mai.
Era davvero pronto a rivedere sua
madre, a leggere i segni che il tempo e il dolore hanno lasciato sul
suo viso e
a constatare quanto la vita l’abbia effettivamente distrutta?
Non lo sa, forse
non è così tanto coraggioso – forse non
sarà mai davvero pronto. Ma ha bisogno
di quello shock, di quella scossa elettrica, nella speranza che questo
faccia
scattare qualcosa in lui e gli faccia prendere una giusta decisione,
per una
volta nella vita. Non è disposto ad ammetterlo, ma
probabilmente negli occhi di
quella donna vuole ricercare anche un briciolo d’amore, per
avere la certezza
che esista almeno una persona al mondo a cui importa ancora di lui.
Una ragione per andare avanti.
Eppure è da una vita che non ha
bisogno di nessuno, non necessita di essere amato, è in
grado di reggersi in
piedi con le sue sole forze.
Si siede sul gradino di un
marciapiede sul ciglio della strada, stappa la bottiglia e fa
l’unica cosa che
gli viene bene: suonare.
Prende tra le braccia la sua
chitarra classica, quella su cui le sue dita si sono mosse per la prima
volta,
e lascia che quel turbinio di note spazzi via ogni altro suo pensiero.
Non gli
importa di chi gli sta attorno, se qualcuno lo stia guardando o
ascoltando, se
a qualcuno piaccia la sua musica; in quel momento
c’è solo lui e la sua
chitarra.
Nessuno se ne accorge ma, se ci
si concentra a fondo, tra quegli accordi stridenti si possono udire i
suoi
singhiozzi.
♠ ♠
♠
Erano mesi, forse
più di un anno,
che avevo in mente questa shot e finalmente sono riuscita a metterla
per
iscritto.
Ma soprattutto erano
mesi che non
scrivevo su questa serie. Sono riuscita a tornare, non so se il
risultato
finale sia accettabile o meno ma questo è relativamente
importante:
ricongiungermi al mio adoratissimo Ethan mi ha fatto stare immensamente
bene. E
sono tornata anche al mio caro vecchio dramma!
So che forse questo
scritto
risulterà un po’ più
“pesante” del solito per l’enorme
preponderanza di
introspezione, ma era proprio questo il taglio che volevo darle: mi
sembrava
giusto soffermarmi sui pensieri e le sensazioni di Ethan in un momento
così
delicato, un momento in cui si ritrova a ricominciare tutto da capo e,
allo
stesso tempo, decide di tornare dove tutto è cominciato.
La storia
risulterà sicuramente
ostica per chi non conosce il “fandom”, ma non me
la sentivo di appesantire il
tutto con spiegazioni troppo elaborate, e soprattutto mi serviva
scrivere a
briglia sciolte senza nessuna preoccupazione. Spero comunque, per i
coraggiosi
che si sono avventurati da queste parti, che sia tutto chiaro ^^
Grazie di cuore a
chiunque sia
giunto fin qui e… grazie ai miei personaggi per esserci
sempre e non tradirmi
mai ♥
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