Se tutto dovesse andare storto
Per
quanto tempo è per sempre?
A volte, solo un secondo.
(Alice nel Paese delle Meraviglie, Lewis Carrol)
Quando
Atsumu entra nella sua stanza, trova Shouyou seduto a gambe incrociate
sul letto.
“Dovremmo
ballare,” gli dice Shouyou, con gli occhi spalancati.
Atsumu
rimane impietrito per qualche istante, perché
non può essere vero, non può essere vero, non
può essere vero.
Scuote
la testa.
“Sono
appena tornato dal tuo funerale.”
Shouyou
fa spallucce. “Dovremmo ballare lo stesso.”
Fuori
piove.
*
Da
quando è successo, la casa è stata inghiottita
dal silenzio.
Adesso
sono in tre a vivere lì dentro, ma è come se non
ci fosse più nessuno. Si sentono estranei fra quelle pareti,
perché la casa è cambiata, la casa è
diversa, la realtà si è annacquata e sa di cenere
e fogna.
È
Sakusa a preparare la colazione la prima mattina. Bokuto appare
insolitamente silenzioso, e c’è qualcosa di
scoordinato nel modo in cui cammina. Piccoli spasmi, come quando un
orologio si rompe e la lancetta dei secondi comincia a scattare in
maniera irregolare prima avanti e poi indietro, avanti, indietro e
indietro.
Atsumu
si rifiuta di guardarlo negli occhi. Ha paura di trovarci dentro la
conferma di un incubo. Perciò punta lo sguardo sulle sue
ginocchia e pensa che l’andatura di Bokuto gli ricorda un
insetto che striscia, un insetto morente.
Sakusa
versa il caffè dentro quattro tazze - una blu, una viola,
una rossa, una gialla. Le sistema intorno al tavolo, poi prende piatti
e bacchette per il riso.
Atsumu
si domanda perché cazzo Sakusa abbia apparecchiato per
quattro - magari è stato un sogno, magari l’incubo
è finito, magari finalmente si è svegliato. La
speranza è una scintilla di sollievo che gli scoppia dentro
al sangue.
Poi
però Sakusa realizza. Sbianca, e Atsumu vede la paura, il
dolore, paralizzargli le pupille.
“Merda,”
dice, fissando agghiacciato il posto vuoto di Shouyou, con la tazza
gialla fumante. “Merda,” ripete.
D’istinto,
Atsumu guarda Bokuto. Vede l’orrore che gli scheggia il viso
- perché non può essere vero, non può
essere vero, non
Shouyou.
Negli
occhi di Atsumu, il vuoto.
Fuori
piove.
(Non
smetterà più.)
*
Trova
di nuovo Shouyou seduto sul suo letto il venerdì successivo.
Atsumu
non grida, quando lo vede. Si limita a chiudere la porta alle sue
spalle in silenzio, senza staccargli gli occhi di dosso.
“Shouyou-kun,”
dice.
Shouyou
sorride.
Per
un istante, Atsumu ha la certezza che non se ne sia mai andato. Per un
istante, crede davvero che si sia trattato solo di uno scherzo, che
Shouyou sia ancora lì, con lui, con loro, e ora deve correre
a chiamare gli altri, perché Shouyou sta bene, Shouyou
è vivo, Shouyou è-
Shouyou
si alza dal suo letto con un piccolo balzo, senza emettere un suono.
Atsumu nota che il suo corpo non proietta alcuna ombra.
“Dovremmo
ballare,” gli dice, porgendogli le mani.
Atsumu
lo fissa, poi gli fissa le mani. Piano, come se fosse in un sogno,
sprofondato sotto l’acqua, ci poggia sopra le sue.
Non
sente niente.
Atsumu
chiude gli occhi, inspira, e quando li riapre vede che davanti a lui
non c’è nessuno.
Sta
tendendo i palmi al vuoto.
*
I
loro occhi devono abituarsi a un mondo in cui c’è
meno luce.
È
difficile per tutti.
Atsumu
non credeva che un giorno avrebbe visto Sakusa piangere - Sakusa mentre
piange è difficile persino da immaginare, con gli occhi
gonfi e il viso zuppo di sale e le spalle sconquassate dai singhiozzi.
Eppure
accade.
Sono
in macchina, stanno andando ad allenarsi. Sakusa guida, mentre Atsumu e
Bokuto sono seduti dietro perché a Sakusa disgusta avere
qualcuno accanto. Shouyou era l’unico che godesse del
privilegio di poter occupare il sedile anteriore, poiché, a
detta sua, era l’unico che fosse sufficientemente pulito e
disinfettato.
“È
solo perché hai un debole per lui,” diceva Atsumu,
un po’ divertito e un po’ geloso, e Sakusa
arricciava il naso sigillandosi in un dignitoso silenzio e Shouyou
rideva e tutti stavano bene, tutti erano felici.
All’improvviso,
prima di un semaforo, la radio comincia a trasmettere una stupida
canzone deprimente tutta pianoforte e violini che parla delle farfalle
e della caducità della vita. Sakusa accosta al marciapiede,
poggia la faccia contro il volante e scoppia a piangere.
Quello
è un pianto straziante: uno di quei pianti che ti si
avvinghiano attorno allo stomaco per poi rivoltarlo come un calzino, in
cui ci sono più conati che singhiozzi. Sakusa sanguina,
boccheggia di dolore e di disperazione, perché loro indietro
nel tempo non ci possono tornare, perché il sedile a fianco
a lui rimarrà vuoto per sempre, perché gli manca
il colore rosso, gli manca la sua voce, perché non fa altro
piovere e piovere e piovere.
Bokuto
e Atsumu ammutoliscono. In parte per la sorpresa, in parte
perché non esiste consolazione per quell’angoscia
vomitata. Poi Bokuto sembra che riesca a ritrovare il proprio posto nel
mondo, almeno per un attimo: si sporge in avanti e abbraccia Sakusa,
come se quella fosse l’unica cosa giusta, naturale e
possibile da fare.
Sakusa
potrebbe divincolarsi, mollargli una testata sul naso, ucciderlo sul
colpo, invece si lascia stringere vulnerabile come un gattino bagnato,
singhiozzando nella curva del suo collo. Entrambi tremano come foglie.
Poi,
con la stessa repentinità, Sakusa si quieta. Allontana
Bokuto da sé e torna a stringere saldamente le mani sul
volante.
Si
limita a dirgli: “Spero solo che ti sia lavato.”
“Veramente
no,” risponde Bokuto.
Sakusa
rimane immobile per qualche istante, poi sibila una bestemmia e riparte.
Bokuto
sorride appena.
Atsumu,
in preda all’anestesia più totale, pensa: voglio
morire.
*
Quando
Atsumu si sveglia nel pieno della notte, sa per certo che
troverà Shouyou sdraiato accanto a sé. E difatti
la sua sagoma balugina al buio come se fosse fatta di scintille, dorata
come le medaglie che voleva vincere.
Ha
gli occhi chiusi. Atsumu riesce a contargli le ciglia, per quanto
è vicino.
“Shouyou-kun,”
sussurra Atsumu.
Non
si aspetta che Shouyou lo senta, o che in qualche modo risponda. Eppure
Shouyou apre piano prima un occhio e poi l’altro.
“Atsumu-san,”
dice.
Atsumu-san,
Atsumu-san, Atsumu-san.
Atsumu
si ripete dentro la testa la voce di Shouyou che pronuncia il suo nome,
ancora e ancora e ancora. La respira come se potesse, in qualche modo,
renderla eterna, cucendola a ogni millimetro di corpo e di anima. Atsumu-san,
Atsumu-san, Atsumu-san.
La
ripete ancora e ancora e ancora - potrebbe andare avanti
così per tutta la vita - finché si accorge che
Shouyou lo sta chiamando per davvero.
“Atsumu-san,”
ripete. “Atsumu-san.”
Atsumu
chiude gli occhi - non può essere vero, non può
essere vero, non può essere vero. Poi li riapre. Shouyou
è ancora lì, davanti a lui.
“Shouyou-kun.
Shouyou-kun. Shouyou.”
Per
un istante, Atsumu vede il dolore manifestarsi sulla sua fronte, le
labbra gli tremano come una pozzanghera. È quel tipo di
dolore ineluttabile, che non si può curare.
Shouyou
sorride, ma è un sorriso triste, un sorriso che Atsumu non
gli ha mai visto fare prima.
“Non
sono vivo,” spiega.
Ma
io ti vedo, vorrebbe
rispondergli Atsumu.
Sei proprio qui, davanti a me.
Shouyou
scuote la testa, come se l’avesse sentito. Atsumu prova a
toccargli la guancia.
Percepisce
solo aria, sotto le sue dita. Il nulla.
“Te
l’ho detto,” ripete Shouyou. “Non sono
vivo.”
Se
davvero non è vivo, allora Atsumu dovrebbe domandarsi cosa
veda. Cosa, come e perché. Non dovrebbe parlare con i
fantasmi, è decisamente sicuro che quello sia il modo
più sbagliato e preoccupante per affrontare ciò
che è accaduto. Forse dovrebbe chiamare suo fratello, forse
dovrebbe chiamare un’ambulanza, forse dovrebbe andare a
svegliare Bokuto, oppure Sakusa, forse, forse, forse-
“Non
te ne andare,” gli dice invece. “Non scomparire
come fai sempre.”
Shouyou
lo scruta pensieroso, per un lungo momento. Infine annuisce.
“Non
lo farò.”
Fuori
piove.
Ogni
goccia che picchietta sul tetto rappresenta il ticchettio dell'orologio
che avanza. Atsumu però in quel momento non sente nulla,
neanche la notte, neanche la fatalità della vita,
perché c’è Shouyou vicino a lui,
Shouyou che ripete il suo nome.
(Ma
è una menzogna, solo una menzogna, perché il
passato è oramai passato e i ricordi sono spini nel cuore
che non possono essere estratti e che rimarranno con te perennemente,
senza però esserci mai per davvero, perché non li
potrai più toccare, non li potrai più rivivere,
è solo una nostalgica scia di un tepore che hai perduto per
sempre, una stella cadente paralizzata nel cielo.
E
il tempo non si ferma.
Non
si ferma, non si ferma.
Non
si ferma.)
*
Atsumu
non sa da dove cominciare, a rimettere a posto quello che ha intorno.
A
rimettere a posto quello che ha dentro.
*
Il
silenzio soffocante si tramuta in polvere. Si sedimenta dentro la tazza
gialla di Shouyou, sopra il suo cappotto ancora appeso
all’appendiabiti all’ingresso, sul suo ombrello un
po’ rotto che però si è sempre
rifiutato di buttare - 'perché
funziona ancora,' diceva, 'pure
se è un po’ storto.'
Probabilmente,
la polvere si sedimenta pure sopra i mobili della sua stanza.
Nessuno
di loro è mai riuscito a entrarci: né lui,
né Sakusa, né Bokuto. Soltanto Natsu era entrata
nella camera di Shouyou un pomeriggio, aveva riempito una piccola busta
di oggetti e poi era andata via - e loro tre avevano provato a non
guardarle i capelli, a non guardarla negli occhi.
Quella
stanza deve rimanere invisibile. Forse così farà
meno male.
Eppure,
alla fine, quella stanza è tutto il contrario
dell’invisibilità, perché è
una pugnalata costante che raggiunge la parte più recondita
e vulnerabile del cuore, l’essenza dell’anima.
È un memento, la testimonianza di qualcuno che era e che
adesso non è più, del sole che
all’improvviso si è spento.
Shouyou
era molto di più di tutti loro messi insieme. Ed
è per questo che dietro di sé ha lasciato una
voragine, è per questo che abbassano lo sguardo quando
attraversano il corridoio, tentando in tutti i modi di non guardare la
sua porta.
Ma
è inutile, non serve, il fantasma di Shouyou è il
fantasma dell’estate, una non-presenza perpetua e opprimente,
lui che prima aveva la leggerezza dell’aria.
Un
giorno, però, dopo che hanno finito la colazione, Bokuto
sciacqua la sua tazza gialla impolverata. La sciacqua e con mani
tremanti l’appoggia accanto alle altre tre. Sakusa e Atsumu
lo guardano senza dire nulla.
C’è
qualcosa, nella tazza di Shouyou che luccica vicino alle altre come se
fosse stata appena utilizzata, di tremendamente giusto. Uno sprazzo di
come le cose sarebbero dovute andare.
*
(Ogni
tanto, Atsumu crede ancora che Shouyou stia per tornare. Soprattutto
quando gioca, quando alza la palla, si aspetta una saetta rosso vivo
schizzargli nel campo visivo. Si aspetta Shouyou sorridere e gridare al
mondo che si è trattato solo di uno scherzo, e che adesso
è ritornato, che sta bene, che non se
n’è mai andato per davvero.
E
tutto tornerà dritto. Sakusa smetterà di
piangere, Bokuto smetterà di barcollare come se avesse perso
il senso dell’equilibrio, e il buco a forma di Shouyou dentro
il cuore di Atsumu tornerà a riempirsi di luce.
Riaggiusteranno le bussole, succhieranno via l’inchiostro in
cui stanno sprofondando, torneranno a essere felici.)
*
Per
favore, no.
Prendete
chiunque, prendete me, ma non Shouyou.
Non
Shouyou.
Per
favore.
*
Shouyou
comincia ad apparirgli di notte sempre più spesso.
Oggettivamente, Atsumu crede che dovrebbe dirlo a qualcuno, parlarne
almeno con suo fratello, perché non va bene, non
può essere una cosa normale.
Però
non lo fa. E non per vergogna, ma per paura che qualcuno glielo porti
via. Non vuole smettere di vederlo, di sentirlo parlare, non di nuovo.
Shouyou
non esce mai dalla sua stanza. Atsumu lo trova seduto sul suo letto
dopo cena, oppure si sveglia di soprassalto e lo trova rannicchiato
accanto a lui.
Atsumu
non gli chiede per quanto tempo rimarrà, oppure dove vada
quando non è nella stanza con lui. È come se
stesse provando a dimenticare che quello che ha davanti è
solo lo spettro di un ricordo, come se volesse credere che Shouyou sia
davvero tornato, sia davvero lì.
Shouyou,
al contrario, lo tartassa di domande. Gli chiede di Natsu, di sua
madre, di Kenma, di Bokuto, di Sakusa, di Kageyama, dei Black Jackals,
della classifica. Atsumu tenta di rispondere in maniera più
completa e dettagliata possibile, nonostante i contatti con molti degli
amici di Shouyou siano praticamente assenti.
“Perché
da me?” gli domanda una notte Atsumu.
“Perché sei qui e non dalla tua
famiglia?”
Shouyou
incurva le labbra in un sorriso triste che Atsumu, da vivo, non gli ha
mai visto addosso.
“Secondo
te?”
“Non
ne ho idea,” risponde, stringendo le spalle.
“Però è meglio
così.”
Almeno
posso vederti. Almeno posso parlarti.
Shouyou
non risponde. Chiude gli occhi. È buio, ma sembra che
qualcosa gli bagni le guance. Atsumu prova ad accarezzargli il viso, ma
sotto i polpastrelli non c’è nulla, solo il vuoto
e il ghiaccio delle lenzuola.
Poi
un tuono, e lo scroscio della pioggia.
*
Shouyou
era luce, e la luce riesce a infiltrarsi ovunque, trapassando persino
dal pertugio più sottile. È per questo che Atsumu
ricorda pure se non vuole ricordare.
Inciampa
nella memoria onnipresente, memoria tagliente come vetro, sparpagliata
per tutto il pavimento, un nugolo di immagini fuori controllo che gli
ronza dentro la testa.
Ricorda
Shouyou mentre preparava la colazione, mentre meditava e sembrava
teletrasportarsi in un’altra dimensione, mentre gli
decolorava i capelli, mentre gli rubava di soppiatto le maglie
dall’armadio e se le nascondeva dietro la schiena per non
farsi scoprire (Atsumu ovviamente lo scopriva sempre, ma glielo
lasciava fare, gli avrebbe lasciato fare qualunque cosa, qualunque cosa
tranne una, tranne andare via per sempre).
Ricorda
Shouyou sul campo, i sorrisi affamati e le grida di gioia, ricorda
quando gli poggiava la testa sulla spalla e si addormentava
così, con il naso nel suo collo durante i viaggi in autobus.
E ricorda le ore passate a guardare i match di pallavolo dal tablet, e
le serate con la squadra a mangiare onigiri da ‘Samu, a
giocare a Mario Kart - insospettabilmente, era Sakusa quello a vincere
sempre.
Ricorda
Shouyou da solo, Shouyou con loro, Shouyou con lui.
Ricorda
Shouyou di notte, Shouyou che ogni tanto aveva una paura febbrile e
irrazionale, che si intrufolava nella sua stanza a passo felpato come
quello di un gatto, per poi sdraiarsi accanto a lui.
“Mi
calmi,” gli spiegava nel buio, senza imbarazzo.
“Non so dirti perché, ma mi fai stare meglio.
Posso restare?”
E
Atsumu diceva di sì. E la notte smetteva di fare paura.
Poi
ricorda che Shouyou non c’è. Che non ci
sarà mai più. Che quel vuoto improvviso che gli
è scoppiato sotto i piedi e dentro le orecchie è
perenne.
Non
ce la farà mai, ad accettare.
*
È
venerdì quando Sakusa decide di pulire la stanza di Shouyou.
Ammucchia tutti gli attrezzi per il corridoio: scopa, paletta,
strofinacci, scovolino per la polvere, disinfettanti vari. Con un
coraggio che Atsumu per un istante gli invidia, Sakusa poggia lo
sguardo sulla porta che si sono strenuamente impegnati a evitare per
mesi. Poi si infila un paio di guanti di gomma e stringe le dita
intorno alla maniglia.
“No,”
sibila Atsumu, fissandolo dalla cucina. “No,”
ripete, a voce più alta.
Sakusa
si immobilizza. “Cosa?”
“Non
lo fare.”
“Perché?”
Perché
finché quella porta rimane chiusa, Shouyou potrebbe essere
ancora nella sua stanza. Perché finché quella
porta rimane chiusa, Atsumu può immaginarlo lì
dentro, mentre legge One Piece in portoghese, mentre videochiama Kenma,
o Pedro, o Kageyama.
Perché
se Sakusa apre quella porta, se trovano la stanza vuota e il pavimento
coperto di polvere e silenzio, allora significa che è
accaduto, significa che Shouyou è davvero-
“Miya,”
dice Sakusa, avvicinandosi. “Io devo pulire la sua
stanza.”
Che
significa ‘è il mio modo per accettare che lui non
sia più qui’.
“E
devi farlo proprio adesso? Non puoi aspettare?”
“Aspettare
che cosa?”
Che
il tempo torni indietro, pensa
Atsumu. Che
non ci sia più bisogno di spolverare le sue cose.
Perché Shouyou tornerà, deve tornare, non
può essere, non può-
Per
favore.
Forse
Sakusa è psichico, o più probabilmente Atsumu ha
l’espressione di qualcuno a cui sta crollando di nuovo il
mondo addosso.
“Domani,”
dice dunque, afferrando la paletta. “Pulisco domani. Ma
domani lo faccio sul serio.”
Poi
Sakusa si avvicina, e senza preavviso gli strofina sul viso lo
scovolino per raccogliere la polvere. Atsumu tossisce e fa un passo
indietro, starnazzando un ‘ma che cazzo,
Omi-kun!’, e per un istante dimentica quella sofferenza che
lo attanaglia.
“Lo
so che è difficile,” dice Sakusa. “Lo so
che è un inferno. Ma non sei da solo.”
Atsumu
lo guarda negli occhi. Nelle sue pupille c’è lo
specchio del suo stesso dolore.
“Non
sei da solo.”
*
“Come
sta Osamu-san?”
Atsumu
sbuffa. Il picchiettio della pioggia sulla finestra riecheggia nella
stanza. C’è vento. “Bene,”
risponde. “Come sempre.”
Shouyou,
sdraiato accanto a lui, sorride. “E il ristorante?”
“Ci
va un sacco di gente.”
“E
Bokuto-san? Come sta?”
Atsumu
lo guarda negli occhi che sono vicinissimi. Prova a scorgere dentro
qualcosa di vivo, un barlume di luce, ma gli occhi di Shouyou
sono… beh, non sono spenti, però sembra come se
qualcuno ci abbia versato dentro l’oceano intero.
Sono
diversi.
Shouyou,
come ogni volta in cui capta i pensieri di Atsumu, incurva le labbra in
quel sorriso un po’ triste.
Atsumu
oramai ha capito cosa significa: non
sono vivo. Non cercare qualcosa che non esiste più.
E
Atsumu lo sa, giura che lo sa, sa che non può toccarlo, sa
che Shouyou era e non sarà mai più, eppure-
eppure.
Eppure
sembra così reale.
“Sta
bene anche lui,” mente. Bokuto non sta bene. Bokuto ha il
cuore spezzato, fluttua in una coltre indistinta al cui interno
lampeggiano picchi di dolore alternati all’anestesia.
Shouyou
chiude gli occhi. E all’improvviso gli appare esausto.
“Okay,”
dice Atsumu. “Ho mentito, non sta bene. Ma è
normale. Col tempo sicuramente starà meglio.”
Shouyou
riapre gli occhi. Gli accarezza la punta del naso con le dita, ma
Atsumu non sente nulla, solo aria.
“Anche
tu?”
“Anche
io cosa?”
“Anche
tu starai meglio col passare del tempo?”
No, pensa
Atsumu. No.
Io non starò mai meglio.
“E
Omi-san?” continua Shouyou. “Come sta?”
Atsumu
ripensa a quella mattina. “Vuole pulire la tua
stanza,” dice.
“Sarebbe
grandioso,” risponde Shouyou. “Visto che io non lo
faccio da un bel po’.”
“Gli
ho detto di no.”
“Perché?”
Perché
spero ancora di svegliarmi. Spero ancora che tu torni. Che nulla di
quello che è accaduto sia reale.
“A
me piacerebbe,” continua Shouyou, “se qualcuno la
pulisse. Pensa a tutti i miei manga, o alle action figure di Zoro!
Saranno pieni di polvere.”
“Okay,”
dice Atsumu. “Okay. Tanto ha detto che avrebbe pulito domani.
E cioè, se Sakusa decide che deve pulire, allora
pulirà. Nessuno può fermarlo quando ha una scopa
in mano.”
Shouyou
ridacchia. Poi si mette a sedere sul suo letto. “Dovremmo
ballare,” propone, balzando sul pavimento senza emettere un
suono. Gli porge le mani.
In
quel momento Atsumu si rende conto di quanto faticoso sia muoversi.
Soltanto l’idea di sollevare le braccia, sollevare la testa
dal cuscino, lo annichilisce. Non può alzarsi, il mondo
intorno a lui è troppo pesante, non ha le forza, non ha le
forze, non ha-
“Atsumu-san.”
Atsumu
ripete la voce di Shouyou dentro la testa. Quindi sospira e scivola via
dalle coperte.
Intreccia
le sue mani a quelle di Shouyou. Aria sotto le dita, ma Shouyou
è davanti a lui.
Atsumu
segue il suo corpo privo di ombra, si adatta al suo ritmo, forse
sorride, forse spegne il dolore, non è importante, quello
che importa sono soltanto loro, loro che girano come trottole mentre
fuori piove.
Quante
volte l’hanno fatto, intorno al tavolo della cucina. Quante
volte hanno ballato mentre Bokuto faceva video e poi scoppiava a ridere
perché Atsumu era negato e riusciva solo a
sbattere contro gli spigoli e impanicarsi ogni volta in cui Shouyou si
avvicinava troppo.
Quanto
erano felici.
E
quanto tempo credevano di avere, ancora.
Una
vita.
*
(In
quei momenti, in quei momenti, si sentivano immortali.)
*
Quando
Atsumu esce dalla stanza per fare colazione, trova la porta di Shouyou
socchiusa. Per un istante, Atsumu pensa:
è tornato.
Shouyou-kun è tornato. È stato solo un incubo, mi
sono svegliato, è finito tutto. Poi nota Sakusa accucciato a
lavare il pavimento e la realtà gli crolla addosso. Di nuovo.
Si
chiede per quante volte ancora dovrà sentirsi schiacciato,
quante volte ancora la realizzazione gli piomberà sulla
testa prima che finalmente, finalmente, smetta di sentire dolore.
“Vuoi
aiutarmi?” gli domanda Sakusa, vedendolo impalato sulla porta.
Atsumu
getta un’occhiata fuggevole alla stanza. Vede i mobili, i
manga, le foto appiccicate al muro del Brasile, del liceo, della sua
famiglia, della squadra. Quella stanza è gravida della sua
voce, del suo odore.
C’è
tutto, lì dentro.
Tutto.
Tranne
Shouyou.
“No,”
risponde. Poi torna indietro e si chiude in bagno. Trattiene il fiato
più a lungo che può - magari sviene, magari quel
dolore smette di pulsare.
Soltanto
quando sente che Sakusa ha finito con le pulizie, esce per andare a
fare colazione.
Sakusa
ha lasciato la porta di Shouyou socchiusa: forse l’ha fatto
per cambiare l’aria, forse l’ha lasciata aperta
perché Shouyou non è un ricordo da tenere
ingabbiato dentro una stanza.
Atsumu
stringe le dita sulla maniglia e la richiude.
*
“Mi
manchi.”
Quello
di Atsumu è un mormorio nella notte. È buio.
Non
c’è nessuno accanto a lui. Il letto è
vuoto, le lenzuola ghiacciate.
“Anche
tu,” risponde una voce, da qualche parte.
Piove,
piove, piove.
*
È
abbastanza, Atsumu
pensa, mentre si versa il caffè nella tazza. È
abbastanza. Mi va bene anche così, almeno sento la sua voce.
Non posso toccarlo, ma posso vederlo, posso parlargli, può
parlarmi. Possiamo ballare intorno al letto. Posso andare avanti
così finché non crepo. Possiamo continuare a
guardare film e i match di pallavolo. Posso comprare questa casa e
vivere in questa stanza per sempre.
“Non
sono davvero vivo,” gli dice Shouyou una notte. “Tu
lo sai.”
“Stronzate,”
risponde Atsumu. “Sei qui. Davanti a me. Riesco a vederti.
Balliamo?”
Shouyou
non risponde. C’è solo un’immensa
tristezza sul suo viso.
“Atsumu-san.”
“Balliamo,”
insiste Atsumu. “Ti prego.”
Ti
prego.
*
“Ti
amo,” gli dice Atsumu una notte. Shouyou spalanca gli occhi,
e Atsumu vede il mare.
Aveva
immaginato che dirlo sarebbe stato dolce, invece è una
confessione acida. Il rimpianto rimane aggrumato dentro la gola,
perché non ha fatto in tempo, non ha fatto in tempo, non ha avuto il tempo.
“Ti
amo,” ripete, a voce un po’ più alta.
“Per questo non puoi-
Andare
via, smettere di esistere, rimanere invisibile. Essere uno spettro.
“Farò
di meglio. Farò tutto quello che posso. Però tu
devi-
“Ti
amavo anche io,” sussurra Shouyou.
“Perché
al passato? Io ti amo adesso.”
“Perché
tu sei vivo, mentre io-
“Non
dirlo.”
Shouyou
scuote la testa. C’è una supplica, sulle sue
labbra.
“Mentre
io sono morto. Per
favore, Atsumu-san. Io ho vissuto, io sono accaduto, sono stato con
voi, con te, è stato reale, è stata la cosa
più bella di sempre. Ma adesso devi lasciarmi
andare.”
“No,”
risponde Atsumu. “No. Non ci riesco. Non voglio.”
(Se
soltanto ci fosse un modo per rimanere nel passato. Se soltanto ci
fosse un modo per far scorrere le lancette al contrario. Atsumu
salterebbe all’indietro su ogni ticchettio come se fossero
tappeti elastici, secondo dopo secondo, tornerebbe alla notte in cui
Shouyou era vivo, tornerebbe alla notte che non faceva paura. Poi
distruggerebbe ogni orologio, ogni clessidra, il tempo si
cristallizzerebbe per sempre e loro rimarrebbero lì, sotto
le coperte, a guardarsi negli occhi e a respirare. Atsumu premerebbe
l’orecchio sul suo cuore e lo ascolterebbe battere, e il loro
amore diventerebbe un amore immortale, perenne.
Ecco,
quella, quella
sarebbe
la vera felicità.)
*
Un
giorno, Bokuto si mette a cantare.
Prima
lo faceva spesso. Canticchiava stonato in macchina, mentre preparava la
colazione, nello spogliatoio, mentre puliva il corridoio. Shouyou,
quando conosceva la canzone, si metteva a cantare con lui.
Bokuto
aveva smesso di fare tante cose, cantare era fra queste. Aveva perduto
l’equilibrio, il senso dell’orientamento, e pure la
voce, come se uno spillo gli fosse rimasto incastonato dentro la gola,
sigillandogli le corde vocali.
Quel
giorno però, mentre sparecchia, ricomincia.
E
Atsumu capisce. Capisce che gli altri stanno provando ad andare avanti.
Che stanno tentando di riappacificarsi con il tempo, di reintegrarsi in
quella realtà vertiginosa come criceti su una ruota.
Atsumu
vorrebbe trattenerli. Vorrebbe obbligarli a rimanere indietro,
perché magari se smettessero di muoversi, se trasformassero
quella paralisi in una muta protesta, allora il tempo dovrebbe
ascoltarli per forza, si riavvolgerebbe su se stesso restituendo al
mondo Shouyou.
Ma
non dice nulla.
Pensa
solo a quello che lo aspetta nella sua stanza.
*
“Dimmi
che è un incubo.”
“Cosa?”
“Dimmi
che è un incubo,” ripete Atsumu, supplica.
“Dimmi che tra poco mi sveglio e che tutto questo
finirà. Dimmi che sei ancora vivo.”
Shouyou
sorride mesto e scuote la testa.
“Se
te lo dicessi sarebbe una bugia. E a te le bugie non voglio
dirle.”
Atsumu
chiude gli occhi.
“Non
mi importa,” sussurra. “Dimmelo lo stesso, pure se
non è vero.”
Voglio
pensare che tu stia bene, che tu sia qui con me, anche solo per un
istante. Voglio ricordare cosa significhi essere felice.
Shouyou
non dice niente.
Quando
Atsumu riapre gli occhi, Shouyou non è più
accanto a lui.
*
“Non
hai bisogno che io ti dica bugie,” gli dice Shouyou qualche
giorno dopo, ricomparendo a notte fonda.
Atsumu
lo aspettava.
“Tu
sei forte. Sei la persona più forte che conosca. Non hai
bisogno delle bugie, per essere di nuovo felice.”
“No,”
risponde Atsumu. “Hai ragione. Ho bisogno di te.”
Shouyou
abbassa lo sguardo. Atsumu gli stringe la mano, gli accarezza il viso,
vorrebbe stringerlo fortissimo, ma sente il nulla sotto le dita.
“Ti
prego,” gli dice. “Ti prego.”
Torna.
“Mi
dispiace, Atsumu-san.”
Lo
sguardo di Shouyou è pioggia.
“Non
posso.”
*
Atsumu
non vuole più uscire dalla sua stanza.
Vuole
rimanere dentro al letto per sempre, a luci spente e porta chiusa,
mentre attende che giunga la notte. Perché è di
notte che Shouyou appare, è con il buio che Shouyou torna a
brillare di rosso e di dorato, gli unici due colori che oramai Atsumu
riesce a distinguere in quella pozza di inchiostro in cui sprofonda, in
cui non respira. Persino alzarsi per andare a pisciare è
diventata un’agonia.
È
solo che fuori, fuori da quella stanza, c’è la
realtà che Atsumu si rifiuta di affrontare.
C’è la perdita, la rabbia, il vuoto lasciato da un
lutto improvviso e ingiusto, fili recisi sparpagliati sul pavimento.
C’è il dolore a ogni respiro, uno sparo nelle
orecchie per ogni secondo del tempo futuro che non potranno mai
trasformare in ricordo, perché Shouyou è andato
via prima. Shouyou è stato più veloce della vita.
*
Atsumu
non vuole andare all’allenamento. Atsumu si rifiuta di
alzarsi dal letto.
Chiude
gli occhi. Sente fuori dalla stanza i passi affrettati di Sakusa e
Bokuto che si preparano. Fra poco verranno a chiamarlo, ma nella sua
testa già si affollano giustificazioni su giustificazioni
(una meno credibile dell’altra, in verità, ma
chissene frega. Non possono di certo trascinarlo fino alla palestra).
“Che
stai facendo?”
Atsumu
sobbalza. Shouyou è sdraiato al suo fianco, e lo fissa con
gli occhi sgranati.
“Che
ci fai qui? È giorno.”
“E
tu perché sei nel letto? C’è
allenamento.”
“Mica
devo andarci per forza,” risponde Atsumu. “Non
succede niente se salto una volta.”
“Sei
malato?”
“No,”
risponde Atsumu. “Sono stanco.
È
solo per oggi,” assicura. “Solo per oggi.”
Shouyou
lo fissa come se avesse appena perso tutto. È la stessa
espressione che aveva Atsumu quando gli hanno detto che Shouyou era-
È
esausto, pensa. È
più esausto di me.
“È
colpa mia, vero?” domanda poi Shouyou.
“È colpa mia.”
“Non
è colpa tua,” ribatte Atsumu. “Non fare
quella faccia. È solo uno stupido allenamento. Non
è che se non vado una volta mi dimentico come si gioca a
pallavolo.”
Shouyou
rimane in silenzio, poi si avvicina fino a (non) toccare con la fronte
quella di Atsumu.
“Ti
prego,” dice. “Vacci, ad allenamento.”
“No.”
“Ti
prego,” insiste Shouyou. “Per me.”
Atsumu
lo fissa. Vede il dolore riecheggiare nei suoi occhi fatti di oceano.
“D’accordo,”
dice. “Okay. Ci vado. Però te ne stai
approfittando.”
Shouyou
sorride - questa volta è un sorriso vero -, e Atsumu si alza
dal letto.
“Shouyou-kun,”
gli dice poi. “Mi giuri che rimani qui?”
Shouyou
annuisce. “Non mi muovo.”
“Giuramelo.”
Shouyou
giura. Atsumu gli rivolge un’occhiata piena di quello che le
parole non possono dire.
“Allora
a dopo.”
Quindi
afferra la borsa ed esce dalla sua stanza.
*
Per
favore, fa’ che non sia svanito, pensa,
mentre tornano a casa. Fa’
che sia ancora lì dentro.
Si
sfilano le scarpe all’ingresso, poi Atsumu si affretta verso
la sua stanza. Entra, si chiude la porta alle spalle.
Shouyou
non c’è.
“Shouyou-kun?”
bisbiglia, per non farsi sentire da Sakusa e Bokuto.
“Shouyou-kun!”
Ma
Shouyou non compare, il letto rimane vuoto come la sua stanza, e forse
è sempre stato così, forse Shouyou non
c’è mai stato, perché Shouyou
è
Shouyou
è-
Atsumu
si accascia sul pavimento. Non piange. Quello è un dolore
che va oltre le lacrime. Non è concretizzabile.
*
“Atsumu-san?”
Atsumu
non apre subito gli occhi.
“Atsumu-san.”
Atsumu
non vuole aprire gli occhi. Perché sa che ad accoglierlo ci
sarà solo il vuoto, ci saranno le ombre assenti, il silenzio
che si è mangiato tutto, i rimpianti legati stretti intorno
ai polsi, la lama d'un coltello premuta sul collo, il ticchettio di un
orologio.
“Atsumu.”
Atsumu
apre un occhio solo. Qualcosa balugina davanti a lui.
“Shouyou-kun”,
soffia - l’istinto di abbracciarlo soffocato dal dolore
lancinante di non sentire niente, solo aria.
“Avevi
giurato,” sibila quindi Atsumu. “Avevi giurato che
ti avrei trovato. Avevi promesso che saresti rimasto. Non
c’eri. La stanza era vuota. Mi hai mentito. E hai detto che
non mi avresti mai mentito.”
Shouyou
scuote la testa e sorride, un sorriso che è tutto tristezza
e amore.
“Non
ti ho mentito,” risponde, poi gli poggia una mano sul petto,
proprio sopra al cuore. “Atsumu-san, io sono sempre, sempre
qui.”
*
Quella
è l’ultima notte, anche se Atsumu ancora non lo sa.
Fuori
piove.
*
Dopo
colazione, Sakusa gli mette in mano scopa e paletta. Atsumu inarca le
sopracciglia.
“Devi
pulire la stanza di Shouyou,” gli dice. “Io e
Bokuto l’abbiamo già fatto. Ora tocca a te. I
turni di pulizia sono uguali per tutti.”
Atsumu
lo fissa come se davanti avesse un fantasma.
Sakusa
lo fissa a sua volta come se davanti avesse uno scarafaggio gigante.
Gli
sovvengono diverse opzioni:
#1-
mollare un pugno a Sakusa, fuggire via per sempre da
quell’appartamento, lasciare la squadra, lasciare il volley,
nascondersi dentro la cucina del ristorante di suo fratello e rimanerci
fino alla fine dei suoi giorni;
#2-
rannicchiarsi per terra e mettersi a piangere;
#3-
entrare nella stanza di Shouyou e spolverare i suoi manga in portoghese.
Dopo
un’attenta valutazione, Atsumu scarta le prime due per
orgoglio e perché ama troppo il volley, e scrolla le spalle.
“D’accordo,”
risponde.
Quindi
si volta verso quella porta che ha ignorato per mesi.
Ed
entra.
*
Ovviamente,
non pulisce.
Si
limita a galleggiare in quello spazio gravido di Shouyou, e la sua
presenza che si irradia da ogni centimetro di quella stanza non fa che
sottolineare il vuoto lasciato dalla sua assenza.
Atsumu
guarda la libreria disordinata, lo scintillio della maglia dei Black
Jackals nell’armadio, la parete su cui sono appiccicate le
foto.
Atsumu
vede tutti loro: Kageyama, Kenma, Natsu, la squadra, il Brasile, il
mare, Shouyou. Shouyou che tingeva di dorato, di alba, ogni persona che
avesse vicino.
Poi
fissa il suo letto, intatto. Si domanda se Sakusa abbia cambiato le
lenzuola.
E
poi, all’improvviso, Atsumu si sente stanco. Esausto. Da
quanto tempo non dorme? Da quanto tempo è sveglio ad
aspettare che un ricordo venga a trovarlo?
Fissa
il letto di Shouyou per qualche istante, infine ci si siede sopra. Poi
si sdraia, si aggrappa al cuscino, sente la sua voce, il suo odore.
Atsumu
ricorda tutto quello che erano e che avevano.
Per
la prima volta, finalmente, finalmente, Atsumu piange.
E
infine si addormenta.
Sono
su una spiaggia. Atsumu è sicuro che quello sia il Brasile,
sebbene non ci sia mai stato. Ne è perfettamente
consapevole, così come è consapevole che quello
sia solo un sogno.
Shouyou
è in piedi al suo fianco. Fissa il mare con un sorriso vero,
poi si volta verso di lui con i denti scoperti.
“Dovremmo
ballare,” gli dice, porgendogli le mani. Gli occhi
scintillano di luce.
Atsumu
esita un istante, poi le prende.
Le
sente.
Le
stringe forte.
Dondolano
per un po’ con la sabbia fresca e umida sotto i piedi, lo
sciabordio delle onde che si accovacciano su quella spiaggia desolata,
dove ci sono solo loro e il mare che riflette i colori del cielo.
Atsumu
guarda Shouyou e si chiede cosa succederà, da quel momento
in poi.
Shouyou
si avvicina, gli allaccia le mani dietro la schiena.
“Tu
sei pieno di amore, Atsumu-san,” dice. “Non
smettere mai di amare. Non importa quello che
succederà.”
*
Quando
si sveglia, c’è Osamu seduto vicino a lui. Forse
l’ha chiamato Sakusa, forse è venuto a trovarlo da
solo, forse gli ha letto nel pensiero e ha capito.
Osamu
non dice niente, si limita ad accarezzargli la testa quando Atsumu
strofina la fronte contro il suo braccio.
Atsumu
ricomincia a piangere, e Osamu, per solidarietà, piange un
po’ con lui.
“Usciamo,”
gli dice dopo. “Hanno aperto un ristorante di fronte al mio.
Devo vedere come si mangia, per la concorrenza.”
Atsumu
esala un gemito che si trova a metà tra uno sbuffo annoiato
e un singhiozzo. Accettare di uscire con Osamu significa rientrare in
quel vortice velocissimo che è la vita. Significa accettare
che il tempo non può tornare indietro.
“Piove
troppo per uscire,” mormora quindi.
“Ma
di che stai parlando?” risponde Osamu.
“C’è il sole da giorni.”
Atsumu
guarda fuori dalla finestra.
Vede
il dorato.
*
Quando
Atsumu torna a casa, si lava i denti e rientra nella sua camera.
Non
c’è nessuno sul suo letto.
Si
infila sotto le coperte. Prova con tutte le sue forze a non pensare a
Shouyou, poi si arrende e si lascia trascinare dai ricordi e dalle
speranze che non potranno mai essere realizzate.
Non
chiude gli occhi.
Si
rende conto che lo sta aspettando. Sta aspettando che compaia al suo
fianco, come sempre, come ogni notte.
“No,”
dice. “No, Shouyou-kun non c’è
più, Shouyou-kun è-
è-
è-
è
morto.
Non
tornerà.
Ma
il tempo continua a correre, a rovinargli addosso implacabile, e
insieme a lui corre anche la notte. E nessuno può davvero
biasimarlo, perché perdere quello che credeva fosse
l’amore della sua vita a ventidue anni significa questo, fare
un passo avanti verso la luce che gli rimane, e poi farne dieci
indietro perché non è pronto, perché
non sarà mai pronto ad accettare tutto quel buio e a
brancolarci dentro.
“Shouyou-kun?”,
mormora dopo un po', chiamandolo. “Shouyou-kun?”
Nessuno
risponde.
Fuori
piove.
*
(Ma
un giorno, un giorno, Atsumu capirà che il tempo non
è suo nemico, che il tempo scorrendo si porta via anche un
po’ di dolore, erode la sofferenza come l’acqua
erode la pietra. E ogni mattina, quando si sveglierà, si
sentirà un po’ più leggero. E
scoprirà che c’è tanto altro da vedere,
da vivere, da amare, anche se non smetterà mai completamente
di fare male, anche se gli rimarranno una cicatrice e il cuore
indolenzito pure quando sarà vecchio.
E
forse un giorno, un giorno, Atsumu riuscirà a vedere Shouyou
non soltanto nel sole e nel dorato, ma anche nella pioggia, nelle
nuvole, nell’aria, nelle luci dei lampioni e in quelle delle
stelle. Vedrà Shouyou pure se non lo vedrà mai
per davvero. E riuscirà di nuovo a prendergli le mani, e
giocheranno ancora a pallavolo, e balleranno intorno al tavolo della
cucina con Bokuto che applaude e Sakusa che scuote la testa,
perché erano reali, perché Shouyou era reale,
perché Shouyou è accaduto.
Perché
loro sono accaduti.
*
Note:
Grazie
di cuore di cuore di cuore per aver letto!
See
ya ♥
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