occhi
TW: menzione di
morte (canon), attacchi di panico, pensieri suicidi (accennati).
Ad occhi
aperti
«Ehi.»
«NO!»
«Ehi.
Gwen.»
Non di nuovo, non un'altra
volta.
Non in questo universo.
«Ehi.
Ehi.»
Ti tuffi d'istinto –
niente ragnatele, stavolta. Hai imparato la lezione a tue spese e non
c'è spazio per un altro fallimento.
Non adesso.
«Gwen.
Ehi.»
Non vedi gli occhi che
incontrano i tuoi nel buio, ma non ne hai bisogno: tu li conosci già.
Li hai visti mille volte – ancora e ancora –, nei tuoi
incubi: iridi spaventate, piene di speranza e di terrore, che pregano
per un aiuto.
Pregano te – ti
chiedono di arrestare la caduta libera, di riempire il vuoto che le
inghiotte, di non lasciarle sole a fissare la fine – prima di
chiudersi, ancora a mezz'aria.
Biglie azzurre che non
vedrai più se non nel ricordo.
Ma tu non vuoi che quella
luce si spenga di nuovo. Non puoi sopportare ancora di vederla
affievolirsi man mano che si avvicina al suolo, inesorabile.
Mai più.
«Respira.»
MJ respira ancora quando la
afferri – quando ti aggrappi a lei come se da questo non dipendesse
la sua vita, ma la tua. Respira e reagisce – è viva:
ti stringe le braccia al collo, la presa salda e sicura. Si fida di
te. Sei pur sempre Peter Parker, dopotutto, e
questo le basta – tu
le basti: non la lascerai morire.
Ma anche lei si
fidava di te, non è vero? Eri il suo Peter, l'unico e solo,
colui al quale affidare la vita senza condizioni. Pensava che
l'avresti custodita come un tesoro, che l'avresti preservata, che non
l'avresti ridotta in mille pezzi – in quelle schegge frastagliate
che ti graffiano la pelle, lo stomaco, la mente senza darti il tempo
di riprendere fiato.
(Senza togliertelo mai
davvero.)
Lei si fidava di te.
Dov'è, adesso? Dove l'hai
lasciata?
Fidarsi non le è servito
a niente.
«Ehi.
Gwen.
È tutto okay.»
La stringi forte a te quando
ti riequilibri in aria, il braccio steso in avanti con la tela pronta
ad agganciarsi al ferro. È il tuo territorio, il tuo dondolio:
adesso sai quello che fai mentre scivoli giù, allacciato al filo con
MJ che nasconde il viso contro la tua spalla.
È un lavoro facile, questa
volta: l'hai presa, è al sicuro.
Ma il tuo cuore non smette
ugualmente di tremare: avevi preso anche lei. Le avevi
promesso che l'avresti condotta a terra sana e salva, che avrebbe
fatto in tempo a partire, che sarebbe volata in Inghilterra quella
sera stessa.
Promesse che non hai
mantenuto, che hai infranto una ad una tra gli ingranaggi rotti di un
orologio. Parole insensate, piene solo del tuo egoismo: non hai
voluto fermarti, non hai
voluto seguire il consiglio
ragionevole di un padre spezzato, non hai voluto allontanarti.
(Ma non le sei stato nemmeno
abbastanza vicino, non è vero?)
L'avevi presa.
Dov'è, adesso? Dove l'hai
lasciata?
Prenderla non è servito
a niente.
«Gwen, apri gli occhi.
Apri gli occhi.
Gwen, guardami.»
I muscoli delle gambe si
flettono quando tocchi terra, minacciano di non tenerti in piedi, ma
le braccia sono ferme a sorreggere il corpo di MJ: non la farai
cadere, nemmeno da lì. È una tua responsabilità, adesso.
(E
prima? Quando non lo è stata?)
Esali respiri sconnessi,
rapidi e offuscati come i tuoi pensieri che rincorrono il passato e
alimentano il desiderio malato di rimanere ancorato all'illusione di
essere di nuovo ai piedi della torre. È distruttivo, lo sai,
ma è una sirena che per interi attimi non riesci a respingere: è lì
a consumarti ad ogni sospiro, a pervadere tutto ciò che cade sotto
il tuo sguardo. Nel frastuono della battaglia tutto sfuma e si
trasfigura in qualcosa di cui sai già l'esito, che conosci a memoria
– un ciclo continuo che si ripete, che ti confonde la vista con
immagini sempre uguali a sé stesse, cristallizzate dalla colpa, dal
dolore, dall'amore.
(Colpa, dolore, amore.
Quando hai smesso di conoscerne la differenza?)
Ma devi tornare indietro,
devi tornare al presente.
Devi:
è una tua responsabilità.
(Quando non lo è
stata?)
Devi, perché quello che hai
tra le mani è un corpo vivo, guizzante di muscoli e
adrenalina, con due occhi spalancati da ciò che resta della paura,
colorati di sorpresa. Occhi nocciola che, mentre scansionano
l'ambiente per distinguere realtà e fantasia, riscrivono il tuo
mondo.
Stavolta ce l'hai fatta.
«Guardami.
Apri gli occhi.
Apri gli occhi, Gwen.»
MJ è viva.
Ti guarda, risucchia un
respiro e non scioglie la presa intorno al tuo collo, né apre bocca,
ma è abbastanza.
È viva. È viva. È viva.
Senti il pianto che quasi
trabocca. Lo scacci via in un battito di ciglia: devi resistere un
altro po', il tempo di considerare le nuove variabili in gioco, di
assicurarti che tutto quello sia reale, che non ti verrà portato via
come l'ultima volta, che non la
vedrai accasciarsi mollemente tra le tue braccia da un momento
all'altro, incapace di risponderti e di sentirti.
«Stai bene?»
MJ trema, gli occhi più
aperti che mai, ma trova la forza per annuire. Annuisce
convulsamente, il capo che rimbalza al ritmo della realizzazione che
la colpisce di più ad ogni secondo che passa.
Sì sì sì.
È viva. È viva. È viva.
Ne è ormai certa quando ti
dice: «Sì-sì... Sto bene.»
Non ti trattieni più: il
viso ti si contrae mentre le sorridi sincero, gentile.
MJ è salva, tu l'hai
salvata.
Ci sei riuscito, ce l'hai
fatta.
È tutto okay.
«Gwen.»
Sei felice, lo sei davvero.
Vorresti solo dimostrarlo di più, ma sei costretto a chinare il capo
per non sovrapporre l'immagine di lei ai lineamenti di MJ: non
lo meritano, nessuna delle due.
Ma non hai nessuna maschera
a coprirti il volto. Sei aperto ed esposto: MJ sa prima ancora
di chiedertelo.
«... Tu stai bene?»
Sorridi triste e fai un
cenno rapido con la testa – non ti fidi della tua voce, non in
questo momento. Non ti preoccupare per me, cerchi di dire
mentre l'aiuti a rimettersi in piedi, sorreggendola quando le gambe
sembrano cedere sotto i colpi dell'adrenalina esausta. Passerà.
Ti guarda incerta mentre
soppesa il tuo assenso e decide che non ti crede, la fronte
aggrottata che la tradisce senza bisogno di parole. Non gliene fai
una colpa: come può fidarsi di quello che dici e fai se tu sei il
primo a dubitare?
Sei sul punto di dirle che
starai bene, che ne sei certo, che quello che è accaduto è stato
importante, ma prima che tu abbia anche solo la possibilità di
intercettare i suoi movimenti goffi, MJ ti ha già gettato le braccia
sulle spalle e ti sta stringendo, incerta e affettuosa allo stesso
tempo.
Il fiato t'inciampa in gola
e non riesci a reprimere l'involontario scossone che ti scuote, un
misto di shock e tenerezza che ti blocca i gesti per qualche secondo.
Siete un po' fuori misura, lei è troppo esitante e tu troppo rigido
perché stiate comodi in quella posa, ma sono pensieri fugaci,
incoerenti e inutili, che corrono via non appena il calore della
circostanza ti colpisce in pieno petto e tocca corde fragili,
profonde, seppellite sotto strati di ruvida violenza, arrugginite dal
lutto e dal dolore.
È nel momento in cui MJ
mormora scuse imbarazzate e fa per spingersi via da te che finalmente
il tuo corpo collabora ed evita il disastro: le avvolgi la schiena
con le braccia e il primo respiro che prendi con la testa appoggiata
sulla sua suona come un singhiozzo. E così il secondo, il terzo, il
quarto. MJ non ti giudica, né prova più a ritrarsi: ti accarezza
piano, ti dà pacche sulle spalle – ti offre la consolazione di cui
hai bisogno anche se non sa, anche se non può comprendere
fino in fondo.
Sfogati, ti sta
dicendo. Lascia andare tutto.
E tu lo fai: il muro che ti
sei costruito attorno crolla, una lacrima alla volta, e piangi senza
più barriere a contenerti: il rimpianto, il sollievo, la colpa, la
felicità scorrono tutti insieme, esalati a ogni respiro frantumato.
Piangi come hai pianto quella notte, stretto a un corpo inerme,
incapace di ricambiare l'abbraccio, ma stavolta è tutto diverso.
Stavolta tra le tue
braccia c'è vita, e l'hai salvata tu.
«No, ti prego.
Ti prego.
Ti prego.
Non ce la faccio senza
di te.»
Perdi il senso del tempo
molto in fretta e una parte di te non vorrebbe recuperarlo più, ma
quando MJ ruota una spalla come può, a fatica, ti costringi a non ignorare il
segnale e a tornare alla realtà – alla Statua della Libertà che
perde pezzi, all'urgenza della battaglia, alla pazienza di una
giovane donna che ti concede l'opportunità di esternare il tuo
dolore come se non le pesasse.
Sei Peter Parker, dopotutto.
Non il suo, no, ma lei sa come esserci anche per te. È
calmante, senti che potresti diventarne dipendente, ma non puoi.
Non puoi approfittarti così di lei. Non ne hai il diritto, né la
forza – non vuoi schermarti dietro un'altra illusione.
Lo devi a MJ.
Lo devi a Gwen.
Lo devi a te.
Quando ti schiarisci la gola
e accenni un passo indietro sai che è la cosa giusta da fare.
«Sta diventando
imbarazzante, vero?»
«... Un po'.»
«Giusto.
Io– Uhm, forse è meglio che torni su, loro–»
«Sì. Sì,–»
«– potrebbero aver
bisogno di me, insomma...»
«– certo.»
Annuisci, le mani sulle sue
spalle in una stretta consolatoria (per te), rassicurante (per lei):
sto meglio, le fai sapere silenzioso, lo sguardo annacquato
che ritrova un po' di mordente. Devo tornare a salvare il mondo.
«Bene. Mettiti al riparo.
Non rischiare più di morire per stanotte, okay?»
«... Okay. Starò al
sicuro.»
«Bene, bene. Ottimo.»
Le stringi il braccio
un'ultima volta prima di lasciar scivolare via le dita e asciugarti
velocemente le lacrime, un sorriso sul volto a comunicarle che va
tutto bene: sto meglio, non è successo niente, non ti preoccupare
per me.
«MJ.» Ti guarda – occhi
grandi, aperti, confusi. «Grazie.»
Non capisce del tutto, non
può. Fa un cenno affermativo con la testa, ma è chiaro come il sole
che non ha idea di cosa sia accaduto veramente, di che cosa le
abbia fatto meritare la tua gratitudine dopo che le hai salvato la
vita. Non sapresti esprimerlo nemmeno tu a parole, ma in fondo anche
tu sai che non è razionale. È un miscuglio di sensazioni che
rincorri, che arrivi a toccare solo per un momento, un attimo prima
che si disperdano di nuovo in un generale senso di intrepida pace, di
lutto, di rivalsa.
Grazie, grazie, grazie.
Il volto di Gwen ti appanna
i pensieri per un istante – di nuovo, ancora e ancora.
Stavolta non opponi resistenza, non lo accantoni. Rimane lì,
fantastico, accanto a quello di MJ.
«Grazie.»
Il sorriso che ti illumina
il viso è genuino, come le tue lacrime – come la tua riconoscenza,
come il tuo dolore. Sorridono anche loro, l'una tanto vicina da
potersi sfiorare, l'altra lontana e abbagliante, come solo la memoria
sa restituire ciò che è stato.
Sbatti le palpebre e Gwen
non c'è più – di nuovo, ancora e ancora –, ma MJ resta.
Resta anche quando non la
vedi più, mentre dondoli sulle impalcature verso la battaglia –
mentre la presenza è tutto ciò che conta e l'assenza non è più un
problema.
Non
in questo universo, almeno.
In questo universo tutti
vivono.
Angolino di Menade
Danzante:
Salve!
Questa storia partecipa alla
challenge Un
pacchetto tira l'altro! indetta da robs93 sul forum
Ferisce più la penna.
In particolare, a darmi modo di sviluppare questo spaccato
introspettivo è stata la citazione presente nel mio pacchetto,
ovvero:
“Pronunzio
il tuo nome | nelle notti scure, | quando sorgono gli astri | per
bere dalla luna | e dormono le frasche | delle macchie occulte. | E
mi sento vuoto | di musica e passione. | Orologio pazzo che suona |
antiche ore morte. || Pronunzio il tuo nome | in questa notte scura,
| e il tuo nome risuona | più lontano che mai”. (da "Potessero
le mie mani sfogliare la luna"
di Federico García Lorca). Ho voluto riprendere il tema del nome
pronunciato nella notte con le parole che Peter dice in The Amazing
Spider-Man 2 e che ho voluto riportare per intero come un supporto al presente
in cui No Way Home è ambientato.
Spero tanto di non aver snaturato i personaggi e di non essere stata
troppo sconnessa: non è stata una scena facile da trattare e mi
auguro davvero di averle reso onore in qualche modo, anche minimo.
Grazie di cuore a
chiunque sia arrivat* fin qui a leggere!
Un
abbraccio!
Menade
Danzante
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