Julie

di Just_Megamat
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Era un cheto pomeriggio d'estate di parecchi anni fa. Ero un pargolo, ai tempi: avrò avuto dodici anni o giù di lì. Passavo il tempo in veranda, sfogliando una vecchia raccolta di poesie che da decenni mio padre conservava nella sua biblioteca. Il sole irradiava da lassù, trasformando l'aria attorno in una torrida fornace, e le cicale frinivano a bizzeffe sui fusti degli alberi quando d'un tratto sentii un suono fuori posto: un frusciare di frasche proveniente dalla verde siepe che cingeva le mura della villa. Incuriosito, abbandonai la lettura di quel vecchio libro e lo chiusi portandolo con me, senza scordare di infilare un dito fra le pagine per non perdere il segno. Approcciai l'alta siepe con indosso le braghe e la camicia bianca, e intanto il fruscio si univa al rumore dei passi che pestavano l'erba del giardino. Cos'era mai? Uno scoiattolo esploratore, un passero viandante? Non lo sapevo, ma ero certo che si trattasse di qualcosa che non potevo mancare di vedere. Rivolsi lo sguardo alla cima della siepe, e proprio lì vidi un braccio minuto avvinghiarsi con vigore. Poi un altro, e poi una gamba. Infine, quel che ne sbucò fu una creatura splendida: un'esile ragazza dalla pelle chiara come il sole e i capelli del colore del cioccolato fondente, che dall'alto scrutava i dintorni con i suoi occhi del colore del mare. Ad occhio e croce, aveva due o tre anni in più di me. Non era una nobile, senza ombra di dubbio: aveva il viso sporco di terra, o solo Dio sa cos'altro, le vesti che indossava erano tutte sgualcite e quelli che portava ai piedi non potevano definirsi stivali. Eppure mi affascinò, mi rapì dal primo istante. Quando mi notò ai piedi della siepe, fece per fuggire via ma notando la mia attitudine si ricredette.

«Shh!!», mi fece da lassù, con il dito sulle labbra.

Sussultai, ma non mi allarmai. La fanciulla si calò dalla cima come si era inerpicarta, poi atterrò sul prato della villa e la prima cosa che fece fu esaminarmi da testa a piedi. Quando prese a guardarsi attorno, quasi fosse una ladra in cerca di sguardi indiscreti, mi rivolsi a lei in un saluto.

«Voi chi siete?».

«Voi?». Trasalì e si guardò alle spalle. «Ah, intendi "voi" nel senso ...».

Quella sua voce era così bella. Una dolce melodia che mi cullava. Ella posò quegli entusiasmanti occhi blu sulla raccolta di poesie che tenevo in mano, poi la indicò e l'unghia del suo dito indice era tutta nera. Mi preoccupai all'idea che potesse farle male.

«Quel libro ...», principiò ambigua. «Quanto vale? Cioè, quanto è importante?».

E io, traboccante d'orgoglio, le dissi: «È molto importante! È un pezzo della collezione privata di mio padre, un vero gioiello!».

«Ma non mi dire!», esclamò. «Lo prendo io, se non ti dispiace ...».

E con un'abilità estrema, fu in grado di strapparmelo di mano in un istante. Prese a sfogliarlo per conto suo, rigirandoselo fra le mani con scarsa premura, perciò mi spaventai.

«Fate attenzione!», la pregai. «È assai delicato, potrebbe rompersi! Inoltre appartiene a mio padre, non posso darlo a Voi!».

«Ah, ma ... È tuo padre che mi manda!».

Al che sbarrai gli occhi: «Vi ... Vi manda mio padre?».

«Sì sì!», confermò suggestiva. «Adesso lui è fuori, no? Mi manda perché gli servono alcune cose e vuole che io gliele porti!».

Quella storia era campata per aria, non era assolutamente credibile ... Eppure io, ammaliato dal suo carisma, le credetti.

«M-ma perché mai avete scalato la siepe, se le cose stanno così?», le chiesi impensierito. «Avreste potuto presentarVi ai cancelli, Vi avrebbero fatta entrare!».

Ma lei sospirò e guardò al cielo: «Senti, ero di fretta e non mi andava di fare il giro, tutto qui». Poi, nel guardarmi, si lasciò scappare un sorriso. «Piuttosto, hai altre cose "importanti" qui?».

«... Oh, certo!», mi irrigidii. «Di là, sotto quell'albero, c'è uno stagno zeppo di pesci e di ninfee!».

«N-no, non hai capito: intendo cose più ... maneggevoli», specificò. «Tuo padre cerca quelle, tesoro».

E quando mi nominò "tesoro", potei sentire il cuore dimenarsi nel mio minuscolo petto come fa un puledro quando scalcia. La fissavo che, mentre mi parlava, si lisciava i capelli con una delle mani, e sebbene fossero tutti sporchi e scompigliati ai miei occhi erano meravigliosi.

«V-venite, allora!», la invitai indicandole la veranda. «Vi mostrerò tutta la villa, ogni singola stanza!».

E detto ciò, le tesi la mano in segno di accompagnamento. E lei ridacchiò. Uno di quei risoli sconcertati, che diceva "Non ci credo, lo sta facendo davvero!" ... Eppure io fui accecato.

«Ma che signorino educato!», evidenziò accettando l'invito.

Avvicinò le dita al mio palmo ed esse erano ruvide e aguzze, ma io le percepii come morbide e sinuose. Permisi a quella malvivente efferata, quella sirena ammaliatrice, di girovagare per tutta quanta la villa sotto la mia impeccabile guida, e lasciai che si intascasse qualsiasi oggetto di valore fosse capace di contenere la sacca che portava con sé, alla quale io non feci caso perché ero troppo occupato a bearmi della sua bellezza. Monete, gioielli, stoffe preziose ... Portò via ogni cosa.
E fu solo quando la sua accortezza vacillò che una delle domestiche della casa la vide e si insospettì, perché quella ragazza fu furba al punto da indurmi a fare in modo che gli altri non la vedessero, convivendomi che anche quello era il volere di mio padre. Quando fu scoperta, mi prese per un braccio e insieme a me sfrecciò per i corridoi in vista dell'uscita. Raggiunta la veranda, corse con me ai piedi della siepe e in un misto di adrenalina e gioia, quella splendida ladra trovò il tempo di farmi un gran sorriso, di ringraziarmi e perfino di regalarmi ciò che, una volta per tutte, mi fece innamorare di lei: un bacio. Un bacio frivolo, senza traccia alcuna di amore, che mi diede strizzandomi le guance come si fa con un neonato quando si dimostra adorabile. Un bacio di cui, nonostante ciò, tutt'oggi ho viva memoria.
Dopodiché si inerpicò agilmente sulla parete di foglie e rami, scomparendo in breve oltre le mura. E non la rividi più ... Almeno, non prima di questi dieci anni.





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