La jeep nera era carica di valigie.
Vestiti, vecchi pupazzi, spazzolini da
denti, quadernetti…
Atena aveva aiutato suo figlio a
preparare tutte le sue cose in vista del trasloco, non senza rimbrotti.
“Cosa dovrei farmene di quei vecchi
prendi-polvere?” si era lamentato, vedendo la mamma infilare in un sacco di
plastica i suoi vecchi peluche di Pokémon.
“Magari ti aiutano ad ambientarti… E
magari la smetti di fare questi capricci.”
“Tsk!”
Argento aveva quattordici anni e sua
madre lo trattava ancora come un poppante, ma era logico. Se non fosse rimasto il ragazzino carino e ubbidiente
ch’era stato fino alla scomparsa di suo padre, tre anni prima, come avrebbero
potuto lei e gli altri buffoni del
Team Rocket plasmarlo secondo i loro scopi?
“Cos’è quella faccia? Sono sicura che ti
troverai bene da zia Nima.”
“Sicuro.”
borbottò Argento, ripulendo il ripiano del bagno dai suoi effetti personali.
Nemmeno quaranta minuti più tardi,
Argento e sua madre stavano lasciando la casa a nord della Palestra di
Smeraldopoli, dove avevano vissuto fino a quel momento, e che era stata una
volta il luogo dove il padre di Argento, Giovanni, era nato e cresciuto.
Si sarebbero spostati verso ovest, a
Borgo Foglianova, il paesino dove la sorella di Atena, Nima, si era trasferita
dopo aver sposato un uomo di là.
Siccome non le andava di attirare troppo
gli sguardi, Atena preferì non usare gli elicotteri privati del suo compagno,
mantenendo un profilo basso. Il Team Rocket era al suo minimo sindacale, un
altro passo falso e la gattabuia sarebbe arrivata inclemente, ponendo fine a
tutte le aspettative di rinascita.
La donna scelse la stradina di montagna
che conduceva al Percorso 22, dal quale avrebbe imboccato la lunga galleria che
l’avrebbe fatta sbucare sul Percorso 26, e da lì avrebbe intrapreso un
saliscendi di strade sterrate o comunque poco frequentate, fino al Percorso 27.
Il viaggio sarebbe terminato nel bosco di Borgo Foglianova, fino davanti alla
casa di Nima, che Argento aveva frequentato fino a tre anni prima.
Mentre Atena guidava, ogni tanto
osservava di sottecchi suo figlio: si somigliavano veramente tanto, con quei
capelli rosso intenso, piuttosto lunghi e pettinati a ciuffi.
Atena aveva gli occhi rossi, mentre
Argento aveva ereditato i suoi grigi dalla linea paterna, ed erano talmente
belli da avergli meritato il nome di quel metallo prezioso che il ragazzo
considerava unicamente un secondo arrivato, una beffa.
Quel giorno, oltre ai suoi inseparabili
orecchini d’oro, dono di Giovanni, Atena indossava una semplice maglietta nera
a maniche lunghe, una gonna scura e delle scarpe grigie col tacco basso.
Argento invece
aveva una giacca viola con dettagli in rosso, e sotto una normalissima t-shirt
nera. I jeans erano di un viola più pallido e trattenuti con una cintura dalla
fibbia metallica, mentre le scarpe sportive riprendevano le tinte della giacca.
Nel complesso, quei colori così cupi facevano a cazzotti con la sua carnagione
chiara.
“Comportati bene da tua zia.”
“Me l’hai già detto.”
Argento guardava fuori dal finestrino e
non si interessava a niente.
Tentennando giusto un secondo, Atena
tornò alla carica con decisione:
“Argento, ascoltami… Il mese scorso hai
tentato di bruciare la divisa di Milas, mentre tre settimane fa hai fatto
cadere volontariamente Maxus dalle scale. Non mi piacciono questi tuoi
comportamenti.”
Al pensiero del damerino coi capelli
sempre impomatati e del viscidone amante dei travestimenti, la bocca di Argento
si piegò in una smorfia disgustata.
Sua madre non aveva intenzione di
lasciare l’argomento sospeso:
“Argento, ti rendi conto di essere l’erede di Team Rocket, vero? Non capisco
questa tua ritrosia, dovresti esserne orgoglioso…”
“Orgoglioso di quell’accozzaglia di
perdenti?!”
“Argento, non ti permettere! Quel Team è
stato creato da tuo padre in persona!”
“Ahaha, mio padre, ahaha! Ma dai, è una
barzelletta, mamma? Mio padre è stato sconfitto da un pischelletto della mia
età e tanto è bastato a farlo scappare in barba alle sue manie di grandezza!”
“Tuo padre si sta riorganizzando. Una
perdita come quella che abbiamo subito tre anni fa non è una ferita da poco.”
“Continui a difenderlo? Cavolo, quanto sei
stupida. Ora capisco perché zia Nima
sia l’unica dei tuoi fratelli a darti retta… E’ troppo scema per vedere più in
là del suo paesino puzzolente!”
Atena inchiodò in mezzo alle montagne,
si voltò verso il figlio e gli mollò uno schiaffo sulla guancia sinistra. Il
suo sguardo fumava, i suoi denti erano scoperti, così come il nervo che Argento
aveva toccato. Il quattordicenne la guardò sorpreso, per poi abbassare gli
occhi con una miriade di pensieri in testa.
Senza dire una parola, la donna riprese
a guidare e Argento si massaggiò la guancia offesa.
Nonostante il figlio fosse stato
impudente, Atena sapeva che aveva ragione,
era vero che Nima era l’unica sorella rimasta al suo fianco da quando, trentuno
anni prima, si era unita al neonato Team Rocket di Giovanni.
Atena era l’ultima di quattro fratelli,
distribuiti in una distanza di quindici anni. La sorella più grande le aveva
fatto da vice-mamma, essendo i loro genitori piuttosto avanti con gli anni
quando lei era venuta al mondo. Era assurdamente logico che Erida, una volta
scoperta la volontà della giovane Atena di abbandonare la famiglia per unirsi
ad un gruppo di balordi, fosse andata su tutte le furie, allontanandosi sempre
di più da lei ad ogni tentativo fallito di riportarla sulla retta via. Alla fine,
l’aveva disconosciuta come sorella ed era andata ad abitare lontano, ad
Ebanopoli, subito dopo la morte, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altra, dei
suoi amati genitori.
Quanto a Ferruccio, il terzogenito, era
sempre stato un onesto lavoratore e vedeva giustamente come il fumo negli occhi
la gente come i Rocket, ladri e sfruttatori in cerca di facili guadagni. Quando
Atena si era aggregata a loro aveva ventitré anni, otto in più di lei, lavorava
già come minatore nelle cave di Monte Luna e aveva ammonito pesantemente la
quindicenne sgallettata:
“Un
giorno tornerai qui, in ginocchio, ma ci sarà soltanto polvere per te.”
E poi se n’era andato anche lui,
sposando una brava ragazza di Canalipoli. Tutti i fratelli di Atena alla fine
si erano sposati a brava gente, tranne
lei. Lei non si era neppure mai sposata, Giovanni non credeva in quell’istituzione.
Aveva fatto l’amante, gli aveva dato due figli, entrambi ribelli, entrambi
disinteressati alla loro causa.
Martes, la
primogenita, le assomigliava esteticamente come una goccia d’acqua, ma come lei
aveva preferito, ironicamente sempre a quindici anni, di diventare parte di un
altro Team, il Galassia. E tutto con la scusa di voler riallacciare i rapporti
con zio Ferruccio.
Borgo Foglianova era come lo ricordava
Argento: tranquillo, ventilato, con l’aria che profumava di erba tagliata. Gli
faceva quasi rabbia quella pace, così diversa dalla tempesta che gli
imperversava nell’animo.
Non appena parcheggiarono la macchina,
una donna grassoccia e dal volto simpatico si affacciò alla porta:
“Oh, Atena, Argento! Benvenuti!” disse
la donna, abbracciando la sorella e carezzando le guance del ragazzo, come
quando era bambino.
Anche zia Nima aveva i capelli rossi, ed
erano ondulati ed acconciati alla vecchia maniera, dandole l’aspetto della
tipica mamma che sforna biscotti e torte con i suoi bambini. Argento non poté
che provare astio a quella constatazione: sua madre non era mai stata così.
La pelle, ancora abbronzata per l’estate
appena passata, era messa in mostra dalla sua veste fucsia a maniche corte.
Accanto alla zia c’era il marito, Omar.
Lo zio Omar era un bonaccione di grossa
stazza e grande cuore.
Aveva i capelli neri e corti ed amava
esibire i costumi più stravaganti, in quanto artista di strada. In compenso,
era totalmente negato per la tecnologia, da lui vista come un brontosauro
vedrebbe i Meganium odierni.
Comparve anche Amira, la loro figlia,
sulla porta di casa. Aveva in bocca la gomma da masticare e si dilettava a
modellarla in palloncini rosa da scoppiare.
Argento rabbrividì ripensando ai
pomeriggi in cui sua cugina, maggiore di lui di appena un anno, lo aveva
riempito di collane di perle e tiare di plastica, oltre ad avergli pitturato le
unghie e glitterato le palpebre con ombretti dai colori improbi. Era la sua
cavia, e sin da quando erano piccoli lo aveva sempre intortato con una
cantilena agghiacciante:
“E’
perché hai la faccia carina, sembri quasi una bambina!”
Argento non sopportava essere
considerato grazioso, gli sembrava di non essere preso sul serio.
E anche se ormai erano adolescenti,
sapeva che presto o tardi Amira lo avrebbe coinvolto in qualche stramba
immersione tra i giornaletti di moda, alla ricerca di nuove colorazione per i
capelli e accessori frivoli per Pokémon.
E dire che a
guardarla, Amira pareva tutto fuorché femminile. O meglio, si vedeva che si
sforzava di esserlo, con quei suoi lunghi capelli rosso scuro acconciati in due
codone, ma i suoi occhi scuri non perdevano la loro piega da maschiaccio, così
come le labbra. La polo bianca e la gonnellina color lavanda non potevano
niente contro la vera natura della ragazza, ossia di bambina che aveva amato
tuffarsi nelle pozzanghere tanto quanto mettersi i brillantini sulle unghie.
E così, dopo aver lasciato i bagagli di
Argento da sua sorella, Atena ripartì, di ritorno a Smeraldopoli.
Nella testa della donna, c’era la vana
volontà di piegare il ribelle secondogenito ai desideri di Team Rocket, dal
momento che già sua sorella si era sottratta a quella prospettiva.
“Sì sì, aspetta e spera.” aveva bofonchiato
Argento al fumo di scappamento che si allontanava tra le piante.
“Uh? Hai detto qualcosa, caro?” gli
aveva chiesto la zia, sollecita.
Dolce zia Nima. Era così lontana dalla
mente tutta schemi e trame di sua sorella Atena, così linda se paragonata al
mondo sporco di Team Rocket.
Argento non sapeva se invidiarla o
essere arrabbiato per quella sua aria da Psyduck inconsapevole.
Nonostante tutto, anche lei aveva
tagliato i ponti con Ferruccio ed Erida, dato che si era rifiutata di lasciare
da parte la sorella ingrata. Chissà se ne soffriva ancora, o se ormai si era
abituata…
In ogni caso, la vita con lei non era
poi tanto male. La zia amava sfornare pasti succulenti e dolci zuccherini, ed
Argento li mangiava senza troppi complimenti. Magari fosse bastato lo zucchero
ad ingentilirlo…
Come da programma, Amira gli chiedeva
consigli sulle riviste di moda, e lui le dava dei pareri grugnendo, il che era comunque
sufficiente per l’aspirante estetista che era sua cugina.
Quanto a zio Omar, era ripartito per la
sua tournée in giro per Johto, a far roteare palle infuocate e fare spettacoli
di magia per i più piccoli.
Così, Argento, quando non era occupato
ad aiutare la zia od a dare retta ad Amira, si aggirava furtivamente per il
piccolo centro di Borgo Foglianova. Non dava confidenza a nessuno, e nessuno lo
avvicinava. Meglio, non aveva nessuna voglia di fare conversazione.
Non poteva allontanarsi dal borgo, al
massimo si sedeva sulla riva del fiume e immergeva i piedi.
Dopo un po’, era tutto incredibilmente noioso.
Finché, una mattina, circa dieci giorni
dopo l’arrivo di Argento a Borgo Foglianova, non giunse il Professor Elm al suo
laboratorio, portando con sé tre Pokémon rari da offrire agli Allenatori
emergenti.
Argento aveva sempre desiderato un
Pokémon.
Quelli di Team Rocket avevano Pokémon da
lui considerati deboli e dozzinali, quali Grimer, Zubat, Rattata. Non gli importava
di quegli esseri.
A lui piaceva guardare i tre piccoli
Pokémon che Elm accarezzava e puliva con amore, quel vivace Chikorita, quel
sonnolento Cyndaquil, quel mordace Totodile.
Avrebbe potuto stare per ore con la
faccia premuta contro il vetro della finestra.