Un
giovanotto biondo era seduto sul primo gradino delle scale in pietra di
Meduseld. Sopra la sua casacca luccicava un medaglione tondo,
d’oro e di smalti, raffigurante un cavallo bianco. Il ragazzo
lasciava vagare lo sguardo sui tetti di Edoras, illuminati dagli
ultimi, orizzontali raggi dorati, mentre l’aria della sera si
faceva gradualmente più pungente. Alle sue spalle, due
soldati montavano silenziosamente la guardia all’ingresso. Il
disordinato rumore di stivali in avvicinamento disturbò la
quiete che stava regnando sulla terrazza del Palazzo.
«Éomer!
Devi venire subito!». Una testa ramata
spuntò dal
fondo della gradinata. Un ragazzo, troppo smilzo per la sua notevole
statura, risalì le scale quattro gradini alla volta,
sfruttando tutta la lunghezza delle sue gambe. «Forza, in
piedi», gli ribadì con il fiato corto
e un
luccichìo che non prometteva nulla di buono negli occhi.
I
Custodi della
Porta non sembrarono scomporsi. Non doveva essere una scena a loro
nuova.
«Sai
che
non posso venire, Brandwine. Sto aspettando di andare a cavalcare con
il Re», Éomer rispose incolore
all’amico. Nessun cenno che indicasse la sua
volontà di alzarsi.
«Uno
dei
carri, giù, alla piazza inferiore, è bloccato nel
fango e sbarra la via principale»,
l’eccitazione
evidente nella voce del ragazzo.
Éomer
lo guardò con aria interrogativa per qualche secondo.
«Quindi?».
«Quindi?!»
«Quindi.»
Brandwine
si
esibì in una sequenza di gesticolamenti per aria.
«Oggi
c’è il mercato. Ci sono le ragazze
che fanno commissioni per le madri. Le ragazze,
Éomer. Sai
quelle graziose creature in cui rischieresti seriamente di imbatterti
se tu non passassi il tuo tempo immerso nel letame delle
scuderie».
Il
nipote del Re
inarcò un sopracciglio. Una delle guardie alle loro spalle
si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito. «Mi hai
cercato per questo?».
«Sì.
Ed è un ottimo motivo, se posso permettermi di dire tanto.
Ma non possiamo perderci in chiacchiere ora»,
Brandwine gli
girò attorno per portarsi dietro la sua schiena.
«Alza il tuo
regale didietro e andiamo a liberare quel carro
prima che lo faccia qualche troppo zelante passante»,
lo
spintonò sgraziatamente fino a farlo sollevare.
«Brandwine
non scenderò in piazza per-… per esibirmi o
qualsiasi cosa tu abbia in mente. Ho degli obblighi, dei doveri. Tra
questi, la cavalcata serale con il-».
«Con
il
Re, sì-sì-lo-so. Lo so. Non volevo iniziare con
questo, ma ammetto che», Brandwine si fece
più
vicino, «c’è
Rowan», gli
sussurrò accompagnando le sue parole con una lunga occhiata
d’intesa.
Éomer
guardò inespressivo l’amico, inspirando
profondamente.
«Tu sai che quel nome non mi dice nulla,
vero?».
«Row-!
Te ne ho sicuramen-… Sai, in quanto tuo amico- Che dico,
siamo sinceri, in quanto tuo unico
amico, mi ferisce il tuo
disinteresse per i miei affari». Brandwine non
aveva smesso
di trascinarlo come meglio poteva per un gomito o per la casacca. Erano
ormai a metà scalinata.
«Hai
blaterato fino a ieri di… di Ingrid! Ti stupisce che Rowan
mi suoni estraneo?».
«Ingrid?
Ingrid, Éomer?!», Brandwine
alzò gli
occhi al cielo con finta esasperazione, «Segrid. Si chiamava
Segrid. E non faceva per me, per quanto possa suonare triste».
«Tragico».
Éomer a questo punto si stava lasciando spintonare per le
spalle, opponendo a malapena resistenza. Anche se non lo avrebbe mai
ammesso, le bizzarrie di Brandwine rappresentavano spesso il punto
più alto delle sue giornate.
«Ma
l’amica della sorella di Segrid, invece…! Rowan!
Oh, Rowan! Credo di aver trovato moglie. Éomer devi venire a
vederl-».
I due
giovani si
fermarono appena in tempo per non scontrarsi con un uomo che era
apparso ai piedi della gradinata del Palazzo. Alto, spalle larghe e
un’armatura tirata a lucido. Éomer e Brandwine lo
riconobbero ancora prima che si togliesse l’elmo. Un rapido
scambio di sguardi si susseguì nell’istante di
silenzio che si aprì. Gli occhi di Théodred
passarono velocemente sui due giovani, esaminandoli.
Aprì
bocca per primo. «Ho
sentito», si indicò
alle spalle,
«che hanno bisogno di una mano giù
alla piazza del mercato». Il sorriso complice in
cui si
aprì dissipò la tensione.
«Oh,
è così, mio signore? Credo che dovremmo andare a
dare una mano allora. Nevvero, Éomer?»,
Brandwine
colse l’attimo. Superò Théodred
trascinandosi dietro Éomer nel mentre.
«Brandwine»,
l’Erede lo apostrofò a distanza di qualche gradino.
«Sì,
mio signore?».
«Inizia
ad adoperarti per trovare una moglie anche per Éomer.
Bisogna sottrarlo alle scuderie».
«Lo
consideri fatto, mio signore. Più ardua l’impresa,
maggiore la mia gloria».
Théodred
si era voltato per rivolgere ai due ragazzi un ultimo affettuoso
sorriso.
«Andate», i suoi occhi si spostarono
su
Éomer,
«Parlerò io con mio padre.
Va’ e non farmi sfigurare!».
Dieci anni dopo
28
settembre 3019, Terza Era
Palazzo
del Cigno d’Argento, Dol Amroth, Gondor
288 miglia a
sud
Lothíriel
passò sotto l’ampio arco che delimitava
l’ingresso alla cucina splendidamente intonacata di bianco.
Il suo sguardo non ebbe il tempo di registrare ciò che stava
accadendo nella stanza che individuò la divisa fiordaliso
della sua dama di compagnia. «Eccoti,
Thïr-».
La
serva si
voltò al suono del suo nome e, con esasperati gesti delle
braccia, si affrettò a indicare alla Principessa di
nascondersi. Negli istanti successivi, tutto accadde molto velocemente.
Lothíriel si era resa conto della presenza
dell’anziana cuoca, Madegar; quest’ultima si era
voltata verso l’ingresso, armata di un notevole coltello e
un’espressione accigliata in volto; «Chi
è arrivato?», aveva domandato mentre
Lothíriel si era prontamente lasciata cadere sulle ginocchia.
«Nessuno.
Niente. Io non ho sentito proprio niente e soprattutto nessuno. Uhm,
cosa-…», Thïria
reindirizzò
l’attenzione della cuoca, «Cosa
mi stavate
raccontando, cos’è successo
all’alba?».
«Dov’ero
rimasta? Ah, sì, ecco. Poco dopo l’alba, come mio
solito, sono andata dal pescivendolo, giù al porto. Gli ho
chiesto i migliori pesci di stagione e mi ha confezionato un pesce
spada, parecchie sogliole e qualche branzino. Oh bambina mia, bambina
mia! Avresti dovuto vedere quanto velocemente ha incartato quei
branzini! Non mi piaceva proprio la faccia del pescivendolo stamattina,
nemmeno i suoi baffi stavano ritti. E a Madegar certe cose non
sfuggono».
«Inteso»,
confermò Thïria.
Approfittando
della sentita narrazione della cuoca e dall’incoraggiante
rumore del coltello sul tagliere, Lothíriel aveva gattonato
fino al massiccio tavolo da lavoro situato al centro della cucina. Si
sedette con la schiena contro quest’ultimo, tirandosi le
ginocchia al petto, accogliendo con un sospiro silenzioso il suo
destino.
«I
miei
sospetti si sono rivelati fondati quando la testa di uno dei branzini
è sbucata fuori durante l’incartamento. Saresti
dovuta esserci, Thïria, figlia mia, per vedere la testa di
quel branzino! Aveva l’occhio infossato! INFOSSATO, ti
dico!». Le parole della cuoca furono
accompagnate da una
serie di preoccupanti fruscii. A Lothíriel non fu difficile
immaginare che Madegar stesse tirando fendenti per aria, come da sua
consuetudine. Nascose il viso tra le mani, pregando che non fosse
quello il giorno in cui l’anziana accoltellava se stessa o
qualcuno. «Allora
ho preteso che mi mostrasse il branzino, ma
quel farabutto continuava a trovare scuse. Si è finto
perfino offeso quando l’ho accusato di volermi vendere del
pesce poco fresco! Perché sai, bambina mia, Madegar si
procura solo il pesce migliore per la tavola del Principe! Se avessi
mandato un inserviente al porto, non si sarebbe accorto
dell’inganno, ne sono certa!».
«Iriel,
allora sei q-», la voce di Amrothos giunse
dall’ingresso. Lothíriel spalancò gli
occhi e gesticolò qualcosa in direzione del fratello.
«Chi-
Chi ha parlato?», la domanda della cuoca era
arrivata un
istante dopo che il giovane si era abbassato.
«Nonhosentitonulla.
Ma ditemi, Madegar, come fate a scovare sempre il pesce più
fresco?», Thïria si immolò
in un moto di
lealtà.
«Non
dirmi che non ti ho mai insegnato come distinguere il pesce fresco,
figliuola», l’indignazione evidente
nella voce
della cuoca, «Vieni
qui, avvicinati. Prima di tutto, il pesce
deve avere l’occhio vivo, lucido e splendente. Come questo,
vedi? Brillante e in rilievo».
Amrothos
aveva
raggiunto la sorella camminando a quattro zampe. «Chi ha
osato turbare Madegar oggi?», le
sussurrò mentre
le sedeva accanto.
«Il
pescivendolo. Ha provato a venderle del branzino poco
fresco», gli bisbigliò in risposta.
«Principiante»,
Amrothos fece una smorfia. «Thïria?
Riusciamo a
tirarla fuori dall’impiccio?».
«Ne
dubito. Madegar non rinuncia mai al suo pubblico».
«È
vero. Farò avere alla sua famiglia
un’indennità, non credo la rivedranno a breve. E a
che punto della narrazione siamo? Avevo piani per la mattinata. Ero
venuto a chiederti se volevi accompagnarmi ai porti
commerciali».
La
Principessa
rivolse uno sguardo loquace al fratello.
«Capito.
Siamo ostaggi», esalò sconfitto.
Allungò un braccio, tastando il tavolo alla cieca, quando lo
ritirò teneva in mano due fichi. «Tieni, mangiamo.
Non possiamo prevedere quanti inverni rimarremo bloccati qui».
I due
fratelli
consumarono la loro colazione occultati dal robusto tavolo; in
sottofondo, l’anziana cuoca illustrava con esacerbante enfasi
i suoi segreti a spese dell’inerme Thïria, i cui
versi d’assenso giungevano sempre meno convincenti. Gli occhi
di Lothíriel continuavano ad andare sul viso del fratello,
per poi tornare sfuggenti sul motivo delle mattonelle del pavimento.
Era qualche giorno che dibatteva con se stessa se parlargli della sua
apprensione riguardo al corteggiamento del Comandante. Non era certo la
mancanza di complicità che la faceva esitare, piuttosto il
focoso astio che il fratello nutriva per il Primogenito. Non voleva
essere lei a rimarcare quel solco. Una leggera gomitata nelle costole
le ricordò che non era mai stata brava a nascondere qualcosa
al fratello.
«Quindi?
Di cosa si tratta?», Amrothos le
sussurrò.
Lei
si
limitò a fare spallucce. «Cosa
intendi?».
«Lo
sai.
Quello che muori dalla voglia di dirmi. Forza, ti ascolto».
«Non
è qualcosa di grave…»,
cominciò la Principessa.
«Mmh…»,
Amrothos sospirò, «Ma
è qualcosa che mi
farà arrabbiare. Sentiamo allora».
«Sei
consapevole di non essere molto incoraggiante,
vero?».
«Non
volevo esserlo», il fratello
accompagnò le sue
parole con una scrollata di spalle e un mezzo sorriso.
«Che
visione», una voce dal timbro inconfondibile
risuonò nella cucina, Lothíriel
sussultò, «Principi
di Gondor che mangiano per
terra». Elphir era in piedi di fronte a loro con
le mani
raccolte dietro la schiena. La sua divisa blu notte era impeccabile,
come sempre. «In
piedi». La voce distaccata. Anche
quello come sempre.
Amrothos
si
chinò verso la sorella, non curandosi veramente di non farsi
udire, «Allora
è vero che piove sul
bagnato… Guarda un po’ com’è
profonda la ruga di Elphir già dal mattino».
Si
sollevò in piedi per rivolgersi direttamente al maggiore,
«Cosa ti porta
fin qui, fratello? Forse non ne sei a
conoscenza, ma in questa zona alloggiano e lavorano i
domestici».
Seguì
un momento di silenzio in cui i due fratelli si soppesarono con lo
sguardo. Persino il brusio della cuoca era cessato. Il Principe Erede
riusciva dove finanche il nobile padre capitolava; era
l’unico a mettere in soggezione Madegar. Gli occhi azzurri di
Elphir si spostarono lentamente su Lothíriel. Chiaramente,
aveva deciso di soprassedere.
«Iriel,
se hai finito di fare colazione va’ a prepararti. Anche tu,
Amrothos. Le vedette mi hanno avvisato che nostro padre e nostro
fratello dovrebbero essere ormai alle porte. Se posso osare chiedervi
tanto, cerchiamo di non accoglierli sul pavimento della
cucina».
«Quando?
Quando arrivano?», Lothíriel
inquisì
ansiosa. Gli occhi di Elphir si spostarono sulle dita di lei che si
erano aggrappate al suo braccio.
Lo
squillante
suono di un corno raggiunse in quel momento il Palazzo. La ragazza
sussultò di nuovo sul posto e prima che potesse rendersene
pienamente conto stava già scendendo di corsa la scalinata
d’ingresso. Si precipitò giù per la via
principale, correndo fino a sentire un sapore ferroso in bocca. Il
cuore le tamburellava contro la cassa toracica, le orecchie le
pulsavano. Negli angoli degli occhi iniziò a sentire il
pizzicore delle lacrime, che ignorò. Come ignorò
la polvere e il fango che andavano sgualcendole l’orlo delle
vesti.
Il
suono di altri
due corni riempì l’aria, il corteo doveva essere
arrivato alla cinta interna. Lothíriel accelerò
la corsa e, quando la via si tuffò nella Prima Piazza, si
trovò davanti a un muro di persone venute ad acclamare i
Principi. Si immerse nella folla, senza abbandonare con lo sguardo gli
stendardi d’azzurro e d’argento che vedeva
sopraggiungere. Riusciva a sentire il selciato tremarle sotto ai piedi
al ritmo degli zoccoli in avvicinamento. D’improvviso la
folla ringhiò, urla gioiose si levarono
all’unisono alla vista del Principe Imrahil che guidava il
corteo con il Secondogenito al suo fianco. Dopo sei mesi dalla partenza
per Minas Tirith, il Principe era tornato.
Lothíriel
si spinse fino alla prima fila. Padre.
Aprì, chiuse e
riaprì la bocca. Boccheggiò ancora ma non aveva
fiato in corpo per emettere suoni. Padre,
guardami.
Gli
occhi del
Principe incontrarono i suoi tra la folla. «Iriel!».
La
Principessa
sgusciò tra le guardie per raggiungerlo. Imrahil rimase in
sella ma sfilò prontamente lo stivale da una delle staffe;
la stessa staffa su cui la figlia appoggiò il piede per
gettargli di slancio le braccia al collo. E mentre si stringevano tra
le acclamazioni degli amrothiani, nascondendo entrambi il viso contro
la spalla dell’altro, la Principessa sentì la mano
del padre accarezzarle amorevolmente i capelli.
«Sono
tornato. Sono tornato».
Dopo
sei mesi
dalla partenza per Minas Tirith, suo padre era tornato.
1 ottobre 3019,
Terza Era
Edoras,
Rohan
288 miglia a
nord
La
vita nel Mark aveva subito un’improvvisa
accelerata dopo l’arrivo dei messaggeri con gli stendardi
oscurati. Il fumo rigettato dalle fucine anneriva da settimane i cieli
sopra l’Ovestfalda, e tutte le cuoierie e sellerie del regno
lavoravano incessantemente per far fronte alle commissioni.
Notizie
nefaste
erano giunte dal Lebennin: notizie di incursioni di Sudroni e villaggi
di confine scomparsi nella notte. Qualcosa si stava silenziosamente
muovendo nel Harondor, strisciando nelle ore senza luce lungo la foce
dell’Anduin e, quantunque non ne riuscissero ancora a
cogliere l’entità, Re Elessar e i suoi alleati non
avrebbero lasciato le province del Sud sole di fronte alla nuova
minaccia. Una spedizione congiunta tra Gondor e Rohan era stata
pianificata. Al termine di lunghe giornate di Consiglio gli ospiti
gondoriani avevano lasciato il Mark, con la promessa di ricongiungersi
nel Lebennin il mese successivo per stanziare un accampamento.
Organizzare
una
campagna militare dal termine incerto non era cosa da poco. Provviste,
materiali per il campo, armature; tutto doveva essere ordinato,
forgiato, conciato, eventualmente riparato, per poi convergere ad
Edoras, città da dove sarebbero partiti i quattromila
cavalieri di Rohan.
E
proprio nella
guardiola all’ombra dei Cancelli di Edoras stanziava come
ogni giorno il Re del Mark, impegnato a convogliare il massiccio arrivo
d’equipaggiamento e uomini provenienti da ogni angolo del
regno. Tra il fremente vociare dei Marescialli e ufficiali, si
udì un cavallo fermarsi bruscamente di fronte
all’edificio, ed una testa ramata comparve poco dopo sulla
soglia della guardiola.
«Re
Éomer! Abbiamo un problema!», si
annunciò Brandwine mentre entrava a grandi passi, chinando
il capo per non sbattere contro le travi del soffitto troppo basso per
lui.
Éomer
sospirò. «In
magazzino?».
«No,
la
situazione delle scorte è sotto controllo. Ma ho appena
intercettato un uomo a cavallo proveniente dalla strada per Dunclivo,
uno dei carrettieri del carico di ferro e rame che stavamo aspettando.
È stato mandato avanti dai suoi compagni perché
uno dei loro carri è bloccato in mezzo alla via. Ha riferito
di due ruote sprofondate nel fango. I suoi abiti riferivano la stessa
storia. Hanno bisogno di una mano per liberarlo».
Un
moto di
frustrazione attraversò Éomer come una scarica.
Lo manifestò a malapena, serrando e rilasciando la mandibola
un paio di volte. Non erano già abbastanza in ritardo? Fece
un cenno di saluto in direzione degli ufficiali presenti ed
uscì, seguito da Brandwine.
«Chi
vuoi che mandi? Bastano due o tre uomini e i loro cavalli per aiutare i
carrettieri», chiese l’amico mentre
montavano in
sella.
«Dov’è
l’uomo con cui hai parlato?».
«In
attesa al bivio Sud della via. Gli ho detto di aspettare i cavalieri
che avresti mandato. Chi faccio chiamare?
Éomer…?», Brandwine doveva
aver letto
qualcosa di spiacevole nella sua espressione,
«Éom-…
Éomer. Chi vuoi che
mandi?». La risposta era facilmente intuibile.
Un
sorriso
increspò appena le labbra del Re. «Prendiamo aria,
Brandwine. Andiamo noi. Onoriamo i vecchi tempi».
Spronò il cavallo risalendo la via per Dunclivo.
Tirò
la
catena verso il basso e il secchio si rovesciò sopra la sua
testa. L'acqua fresca gli pizzicò feroce la pelle ed
Éomer si affrettò a lavarsi il fango di dosso.
Accanto a lui, Brandwine aveva già infilato la casacca ed
era passato a pulire gli stivali.
«È
stata la nostra più grande scoperta quella delle docce degli
scudieri. Ci ha evitato parecchie tirate d’orecchi quando
eravamo più giovani», Brandwine
commentò con un sorriso nostalgico che gli danzava negli
angoli della bocca.
«Sono
stato rimproverato da mio zio per tante cose, ma sono sempre tornato a
Palazzo più pulito di prima che lo lasciassi».
Éomer concluse la doccia e iniziò a raccattare i
suoi indumenti.
«Più
pulito di prima, ma con un sentore di letame
addosso», specificò Brandwine,
ricevendo in
risposta solo uno sbuffo. «Sai,
sono contento di vederti
più disteso, anche solo per un attimo. Sono stati giorni
intensi questi».
«Sì…
Intensi. Un mese di preparativi consumato in un battito»,
Éomer sospirò. In quelle settimane aveva sentito
il peso della sua corona gravargli addosso. Sollevò gli
occhi sull’amico che stava barbaramente sbattendo gli stivali
in terra, distribuendo fango a raggiera. «Chi
l’avrebbe mai detto»,
rifletté ad alta
voce, «che
saremmo finiti così. Io sul trono e
tu… Tu…».
«Io?».
Brandwine assottigliò lo sguardo.
«Tu…
Così…».
«Così
come?», Brandwine si alzò dallo
sgabello e
iniziò lentamente ad allungare un braccio verso un forcone
appoggiato lì accanto. «Finisci
la tua frase, mio
signore».
«Sposato,
credo. Non ci avrei scommesso un soldo di rame».
Brandwine
ridacchiò. La sua mano si reindirizzò dal forcone
alla spalla di Éomer. La risposta dovette averlo
soddisfatto. «Con
Rowan per giunta!»,
esclamò orgoglioso.
Uno
scudiero li
avvertì della sua presenza schiarendosi la gola
all’ingresso della stalla. «Sire»,
si
inchinò, «Il
Capo delle Scuderie si chiede se
potrebbe sottoporvi una questione».
«Ci
sono
problemi con i nuovi finimenti?».
«No,
mio
signore, vorrebbe chiedervi di stimare una giovane giumenta».
Éomer
e
Brandwine si scambiarono uno sguardo e un’alzata di spalle.
Fintanto che non si trattava di nuovi
problemi, il re avrebbe stimato volentieri ogni giumenta del suo regno.
Mentre
passava la
mano sul collo muscoloso del cavallo e sentiva le familiari scintille
mordergli i polpastrelli, le parole scivolarono fuori dalle labbra di
Éomer senza volerlo. «Dove
ti tenevano
nascosta?».
«È
magnifica, non trovate, sire?»,
l’anziano Capo
delle Scuderie si avvicinò, «Gléodis,
questo è il suo nome, ha compiuto sette anni. Ha terminato
la formazione alla monta ed è pronta per essere destinata a
qualcuno, mio re».
Éomer
fece a malincuore un passo indietro per lasciare Gléodis
libera di trottare nel pascolo. Non riusciva a staccarle gli occhi di
dosso. «Ti
viene in mente qualcuno?», si rivolse a
Brandwine.
«Nessuno.
Ma sono molti i soldati che hanno da poco perso il proprio destriero.
Anche se…», l’amico scosse
la testa,
combattuto, «Devo
ammettere che questa giumenta è
notevole. Siete certo che sia nata nella stalla giusta?».
«Non
è un mearas,
ve lo garantisco», il Capo delle
Scuderie assicurò con una certa solennità nella
voce. «Ma
riconosco che potrebbe ingannare anche un occhio
esperto. Osservate i suoi appiombi, tutti corretti. La muscolatura,
tesa e ben sviluppata. La sua corporatura sarebbe ideale per diventare
un cavallo da guerra. Ma, se concedete a questo vecchio di parlare
oltre, sire…».
«Non mi
risparmiare, Holdred».
«Ritengo
che sarebbe sprecata come cavallo da carica. Il suo
portamento…», l’anziano
gesticolò grandiosamente in direzione del cavallo,
«Il suo
portamento, sire, la rende un diamante tra pezzi di
vetro*¹.
Sottoporla a un addestramento militare andrebbe a
intaccare, sciupare il suo portamento signorile. Questa è la
mia umile opinione».
«Mi
trovi d’accordo». Gli occhi di
Éomer non
avevano abbandonato per un istante l’animale che si muoveva
flessuosamente nella campagna. I suoi crini folti si agitavano nel
vento e il manto morello esposto al sole appariva straordinariamente
lucido. Benché avesse una conformazione solida, le andature
erano elastiche, eleganti e rilevate. Era apparente che il suo
portamento spiccasse su quello dei cavalli con cui stava pascolando.
Un’idea.
Un’idea bizzarra si fece spazio nella sua mente. Per un
attimo si sentì sollevato, come se avesse trovato un
incastro perfetto. Poi le possibili ricadute gli balenarono in mente,
spezzando il suo spirito iniziale. Prese a massaggiarsi il collo.
«Chi?»,
Brandwine lo riportò sulla terra. «A chi hai
pensato adesso?».
«Ti
ricordi… Dei Principi di Dol Amroth?».
«Il
Principe Imrahil e suo figlio? Non hanno perso i loro cavalli in
guerra, che io sappia».
«No,
è così… Ricordi bene, ricordi
bene…». Éomer
inspirò
profondamente. «Pensavo
piuttosto…», non
era certo di voler esprimere ad alta voce ciò che aveva in
mente, «Alla
conversazione che i Principi hanno avuto ai
Tumuli… Qualche giorno prima della loro partenza».
Sulla
fronte di
Brandwine si susseguirono una progressione di aggottamenti. Quando
colse ciò a cui l’amico si stava riferendo, la sua
espressione cambiò del tutto. Ci mancò poco che
le sue sopracciglia raggiungessero l’attaccatura dei capelli.
«Parli
della…?».
«Sì,
Brandwine».
«Stiamo
pensando alla stessa cosa? Intendi proprio la… la
Principessa?», si volle assicurare
l’amico. Il Capo
delle Scuderie drizzò la schiena, in allerta. La
conversazione a cui stava assistendo stava prendendo una piega
intrigante. Brandwine continuò imperterrito, «Ho
capito bene? Vuoi donare Gléodis alla Principessa di Dol
Amroth? Alla giovane, con ogni probabilità molto bella
Principessa di Dol Amroth? Anzi, alla giovane, con ogni
probabilità molto bella, e molto…
molto…
MOLTO nubile Principessa di Dol Amroth?».
«Sì»,
Éomer esalò in un sospiro. «Era solo
un’idea. Una pessima idea. Chiederò ai Marescialli
se hanno qualche candidato in mente per Gléodis».
«No-no-no-no.
Non fraintendere il mio stupore. Io dico di esplorare
quest’idea». Brandwine
accompagnò le sue
parole con sentiti ed esagerati cenni della testa a cui si aggiunse
persino il Capo delle Scuderie, che Éomer fulminò
con lo sguardo.
«Perché ti è venuta in
mente la Principessa di Dol Amroth?», lo
incalzò
l’amico.
«Non mi
è venuta in mente lei.
Mi è venuta in mente
quella conversazione. Questo sarebbe il cavallo perfetto da inviare in
dono a dei nuovi alleati. A degli amici».
«Sì,
ma…», Brandwine sembrò
quasi
sofferente, «Ti
ho già fatto notare quanto
straordinariamente nubile sia la principessa in questione?».
«Più volte. Ma non è lei il punto. Imrahil ha un
figlio che necessita di un cavallo, noi abbiamo un ottimo cavallo. Un
cavallo a cui, siamo convenuti, vorremmo risparmiare
l’addestramento militare. Ha veramente importanza che il
figlio in questione sia… una figlia?».
Brandwine
inspirò platealmente, guadagnando tempo prima di esalare un
poco convinto «Nnno~…?
No».
«Sì».
I due uomini si voltarono verso il Capo delle Scuderie che ora si stava
tappando la bocca con le mani.
«No, no.
Non ha necessariamente importanza. Non così
tanta», Brandwine sembrò cercare di
convincere se
stesso quanto il re. «Rimane
però la questione
della decisione del Principe. Si era detto contrario a dare un cavallo
alla figlia».
«Di
certo non è aggirare la volontà del Principe
ciò che voglio», Éomer
rifletté ad alta voce, «Potremmo…
Potremmo indirizzare Gléodis a lui e lasciare che sia lui a
scegliere se tenerla nelle proprie scuderie o appuntarla alla figlia.
In entrambi i casi, non finirebbe su un campo di battaglia».
Saggiò nuovamente con gli occhi il magnifico cavallo che
pascolava poco distante da loro. Per qualche motivo, riusciva a trovare
pace all’idea che quel cavallo fosse nelle cure del Principe
Imrahil. Lo reputava un uomo degno di stima e lo aveva osservato con il
proprio destriero. Gléodis sarebbe stata in buone mani.
Tornò con lo sguardo sull’amico, che si
stupì di trovare ancora in silenzio. Aveva
un’espressione pensosa e un luccichìo fin troppo
familiare negli occhi. «Tutto
qui? Hai già
esaurito le obiezioni?».
Brandwine
alzò le mani. «Non
ho altro. Me ne occupo io se tu
vuoi tornare ai Cancelli».
«Te ne
vuoi occupare tu?».
«Sì».
«Ora te
ne vuoi occupare tu?».
«È
così».
Nulla
nel tono
candido che stava esibendo l’amico avrebbe potuto convincere
meno il Re della sua sincerità. Gli puntò
l’indice contro, «Brandwine…
Bada
bene-…», i suoi occhi si spostarono
sul Capo delle
Scuderie che stava allungando il collo per cogliere ogni inflessione
delle loro voci con mal dissimulata curiosità.
Ritirò il dito con un sospiro. «Occupatene tu. Io
ho fretta di rientrare in città, mi stupisce che non sia
venuto ancora nessuno a cercarmi. Prepara un messaggio, un buon
messaggio. Chiaro, infraintendibile. Brandwine…»,
gli rivolse la migliore delle sue peggiori occhiate,
«Infraintendibile, mi hai sentito?».
«Infraintendibile,
sì».
«Prepara
il messaggio e fai scortare Gléodis alla sua nuova
terra», concluse prima di allontanarsi verso la
strada che
conduceva in città. Con una spedizione militare alle porte,
Éomer non aveva altro tempo da investire in questa faccenda.
Oltretutto, pensò,
quanti danni avrebbe
potuto mai fare
Brandwine?
Note dell’autrice
•
Vi ringrazio per essere tornati a leggere questo secondo capitolo e per
il vostro feedback. Leggo avidamente le vostre recensioni e i vostri
messaggi più o meno nel momento stesso in cui premete ‘Invio’;
il mio ritardo nel rispondervi è dovuto soltanto al mio
desiderio di darvi una risposta significativa e non scritta di fretta.
Un grosso grazie per la vostra pazienza.
*¹ Un
diamante tra pezzi di vetro, citazione da
“Pericle, principe di Tiro” di William Shakespeare.
•
Aggiunta delle sintesi di
fine capitolo - Mi sono ripromessa di
aggiornare questa storia più volte al mese e
cercherò di tenere fede alla mia parola. Ho deciso
però di iniziare a lasciare una sintesi del capitolo
corrente in fondo alla pagina, per permettere ai lettori occasionali di
rimanere al passo con i nodi principali della trama. È una
soluzione che, da lettrice, io amo trovare, soprattutto in storie la
cui pubblicazione si protrae nel tempo.
Razaghena
Riassunto
Capitoli 1 e 2 Settembre 3019. Il
Principe Imrahil e il suo
secondogenito Erchion sono ospitati a Edoras come parte del seguito di
Re Elessar. Durante una passeggiata, Éomer apprende che la
figlia di Imrahil non ha un cavallo per volontà del padre,
che desidera in questo modo salvaguardarla. Giungono ad Edoras alcuni
messaggeri con gli stendardi ripiegati, portatori di cattive notizie:
le incursioni dei Sudroni vicino alle foci dell’Anduin
gettano un’ombra sulla pace di Gondor. Viene pianificata una
spedizione congiunta tra Gondor e Rohan e gli ospiti gondoriani tornano
alle loro terre per riorganizzare le forze.
A
Dol Amroth, in assenza del padre, governa l’austero
primogenito del Principe, Elphir. Lothíriel apprende dal
fratello che il corteggiamento di un nobile della città, il
Comandante Sîrfalas, culminerà con ogni
probabilità con il matrimonio. La Principessa viene
però allietata dal ritorno del padre.
Ottobre
3019. Éomer, nel pieno dei preparativi per la partenza dei
suoi cavalieri, è chiamato a decidere del destino di
Gléodis, una magnifica giumenta della sua scuderia. Per
risparmiarle l’addestramento militare, decide
inaspettatamente di inviarla alla Principessa di Dol Amroth. Assegna a
Brandwine, suo amico e braccio destro, l’incarico di scrivere
un messaggio chiarificatore e organizzare la consegna del dono.
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