«L’idiota sta
rovinando tutto.»
La voce di
Khonshu romba profonda e vibrante tra le pareti del cranio, si
infila negli spazi vuoti lasciati liberi da Marc, tra le
screpolature del suo io che altri hanno riempito per lui –
altri come Jake ad esempio, che sbadigliando riemerge dal torpore di
una vita senza corpo.
Ha concesso un
pugno agli uomini che li inseguivano, ha roteato occhi che non aveva
al singhiozzo spaventato di Steven, e con uno spintone lo ha
rimesso a dormire, infilandosi nella pelle di Spector per
prenderne il controllo.
Sorrideva quando si è liberato degli
aggressori, leccando via dalle labbra il sangue schizzato in faccia,
mentre in terra non rimanevano che corpi cavi. Che spreco, e
pensare che il loro invece è infestato da tre anime e una quarta li
manovra come burattini appesi alle bende di una mummia.
Con il pugnale ancora tra le mani,
Jake si sgranchisce, alza le braccia oltre la testa. La maglia che
indossa si solleva a scoprire lo stomaco; ha una ridicola trama a
scacchi beige e si abbina a una sciarpa marrone scialbo che lo fa
sembrare un professore di lettere vedovo in pellegrinaggio nel
deserto. Non ha dubbi su chi si sia vestito quella mattina.
Reclina il collo da un lato all’altro,
scrocchia le ossa, assapora il pieno controllo di un corpo fisico.
Non che rimanere senza gli pesi; gli piace assistere da dietro le
quinte alla vita di Marc, muoversi inosservato tra le crepe del suo
inconscio e intervenire quando la situazione lo richieda. A
differenza di Steven, Jake conosce il motivo per cui è nato – sa di
appartenere a Marc, tanto quanto Marc appartiene a loro – e ha
imparato ad accettarlo. Dover fare il lavoro sporco (affettare,
strappare, uccidere e martoriare), in fondo, gli piace – oh,
se gli piace! – e non può certo lasciare certi divertimenti al
nerd inglese, se non vuole che li mandi tutti e tre al creatore.
Khonshu si muove dietro di lui,
calpesta la sua ombra, si fonde ad essa. Forse è da lì che è uscito
quando l’aldilà lo ha rigurgitato: dall’oscurità di Marc – in quello
potrebbero somigliarsi.
Lo sente appoggiare il becco ossuto
sulla spalla, incastrargli il bastone contro il costato,
intrappolandolo in un abbraccio possessivo. «Dobbiamo trovare il
modo di liberarcene.»
«Steven è innocuo, mi amor.» A
rotolare languidamente sulla lingua di Jake è una frase in spagnolo.
«È una mosca fastidiosa che sta
impedendo a Marc Spector di fare il suo dovere. Di questo passo
Ammit sarà liberata dalla sua prigione e tutto il nostro lavoro sarà
stato vano.»
«Gli stai dando troppo credito,
pajarito[1].»
O forse è Jake che non gliene vuole
dare abbastanza. Fino a due mesi fa esisteva un confine netto tra
loro tre, pareti di subconscio a tenerli separati, confinati in
spazi mentali da cui soltanto Marc aveva il potere di richiamarli.
Poi Marc è crollato, si è smarrito in se stesso, spezzato così in
profondità che il suo dolore ha eroso le sbarre delle loro prigioni
e ha mandato in cortocircuito l’interruttore a capo dei suoi alter.
In quel momento, Jake aveva pensato di
uscire e profanare la shiva di quella donna sputando sulla
sua bara; aveva pianificato di rifugiarsi in un bar solo per
provocare una rissa e picchiare, picchiare, picchiare, immerso in un
bagno di sangue.
Jake avrebbe aiutato Marc a liberarsi
del dolore gettandolo in faccia ad altri – distruggere per non
venire distrutti.
Ma è stato Steven a passare il confine
e prendere il comando: quell’imbarazzante raggio di sole nato dal
culo di un unicorno. E invece di distruggere, Steven ha creato
qualcosa, si è rifatto una vita a Londra, li ha rimessi in piedi.
Jake si rigira il pugnale tra le dita,
guarda sulla lama il suo riflesso. In controluce compare un volto
identico a occhi chiusi che dorme con l’innocenza di chi non ha
colpa, addormentato sul ciglio di un coltello.
Khonshu ha ragione, la presenza di
Steven è un problema, ma non per i motivi che pensa. Steven è
una finestra aperta su un futuro mai arrivato, è un “se” realizzato,
un “forse” capovolto, un desiderio travestito da realtà. È la
scintilla di speranza rimasta sul fondo di un vaso andato in pezzi,
che trae forza dalla sua ignoranza e dall’innocenza del bambino che
Marc non ha mai avuto il permesso di essere.
Steven è tutto cuore, là dove Jake è
tutta violenza e morsi da lupo.
Ma, soprattutto, Steven non è pronto –
e forse mai lo sarà – a sapere la verità.
Questo è il problema e per
questo Jake deve proteggerlo a ogni costo.
«Está bien, no te preocupes.»
Jake si volta a scrutare tra le orbite nere di Khonshu; c’è la
fredda crudeltà delle tenebre in quelle cavità senza fine, l’egoismo
di un dio vendicatore e l’amore spietato verso la creatura più
preziosa.
È Jake l’unica ragione che abbia
spinto Khonshu a ingannare Marc con un accordo dal quale non uscirà
mai. Quella sua versione brutale, che non conosce rimorso o pietà e
quando attacca lo fa spingendo a tavoletta sull’acceleratore. Jake
Lockley, che ora, invece, si abbandona pigramente tra le braccia del
dio.
Sorride famelico e mostra i denti al
becco bianco di Khonshu; morde e lecca, feroce e osceno. Jake non ha
freni nelle sue emozioni, le butta fuori con violenza, sempre, che
sia rabbia, odio o amore, per lui non fa differenza. E lo sa che è
per questo che Khonshu lo ha scelto. Lo sa e ne approfitta –
dopotutto il dio non è l’unico ad aver mentito sulle sue vere
intenzioni.
«Déjalo en mis manos[2],
mi occupo io di lui.»
«Trova il modo di impedire al verme di
interferire nei doveri di Marc Spector.»
I denti di Jake stridono contro le
ossa bianche del becco adunco, morde fino a scheggiarli, irritato.
Non gli piace quando lo chiama a quel modo, ma annuisce obbediente –
non sa, Khonshu, che il suo pitbull da combattimento è un cane con
la rabbia che brama dalla voglia di mordere la mano del padrone.
Jake sorride e mostra i denti.
«Come sempre, mi amor.»
*
La strada sfugge oltre i finestrini,
granelli di sabbia s’infilano in quello aperto stuzzicando il sonno.
Steven sbatte le palpebre. Infastidito
dall’afa e dal sudore che gli appiccica gli abiti alla schiena, di
colpo apre gli occhi, riscoprendosi seduto ai sedili posteriori di
un taxi.
Non ricorda come ci sia arrivato, ma
ora i suoi blackout hanno finalmente un nome – un nome che indossa
il suo volto e parla con accento americano, ma nondimeno un nome:
Marc Spector.
E nel momento stesso in cui lo
pronuncia nella mente, si sente attraversare dallo sguardo affilato
di qualcuno. Si volta verso il finestrino: una bava di luce spezza
il suo riflesso, tagliando il suo volto in due metà disallineate.
Nel gioco di luce, l’occhio sinistro assume una sfumatura diversa,
la pupilla affoga in un innaturale oceano cremisi.
«Cierra los ojos, nerdito[3]»
gli dice il riflesso.
«Ma-Marc…?»
Il sorriso apre un taglio sul vetro,
ma dietro alla durezza della curva la voce è una colata languida e
dolciastra. «Duérmete, cachorro.[4]»
«No, aspe—»
Steven barcolla nella propria carne.
Qualcosa lo afferra da dentro, mani invisibili lo trascinano
appena sotto la pelle, tra le ossa, dove il buio si fa profondo e lo
inghiotte.
Quando il sole smette di abbagliarlo,
il riflesso al finestrino torna unito.
Ignaro di quanto è appena accaduto,
Marc strizza gli occhi e si guarda intorno.
Nella sua testa c’è silenzio: Steven è
tornato a tacere, dorme al sicuro lontano da quel puttanaio che è
diventata la (loro) vita.
«È meglio così, buddy. È meglio
così.»
*
In bilico sul bordo del sedile, una
sciarpa beige scivola giù.
Afflosciandosi sul tappetino del taxi,
si arrotola intorno a un berretto Gatsby[5]
che nessuno ha mai notato.
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