Incubo
Il vicolo è un labirinto. Bruce
non ci vuole entrare. Sa che
non ci devono entrare, è troppo buio e gli fa stringere il petto, il
cuore in gola che quasi lo soffoca.
Ma invece di dire ‘no’, dice
‘voglio andare a casa’, che è la cosa sbagliata. Le mani di
adulto che stringono le sue si serrano ancora più saldamente attorno
alle sue dita e lo trascinano nel vicolo così nero che vede solo due
schiene alte e squadrate davanti a sé.
Il labirinto sembra non finire
mai e Bruce lotta mentre viene trascinato in avanti.
Scappa dalle deviazioni con un
sussulto ogni volta che si spalancano all’improvviso ai loro
fianchi, sa che non deve entrarci, non deve lasciarsi prendere.
Ma ogni volta che scappa si
ritrova da solo in strada, assordato dalle gocce d’umidità che
picchiettano sull’asfalto e dal proprio respiro affannato, e non
può lasciare i suoi genitori indietro, senza di lui. Entreranno nel
vicolo e Bruce non può permettere che succeda.
Torna indietro per aiutarli, ogni
volta, ansimando e piangendo ed evitando di cadere nei passaggi
laterali. Quando ritrova le loro schiene, ombre più scure contro le
pareti nere del vicolo, corre ad afferrare le loro mani e loro
riprendono a trascinarlo avanti. Bruce si divincola e fugge, ma poi
torna da loro, ancora e ancora, finché tutto inizia a collassare.
Come riusciranno a non entrare
nel vicolo, ora? Ora che i muri si chiudono, i mattoni crollano, lo
sgocciolio dell’acqua aumenta e ci sono passi dietro di loro che li
incalzano?
Quando i passi dell’uomo con la
pistola li hanno ormai raggiunti, c’è un lampo di chiarezza: i
suoi genitori si voltano e Bruce può finalmente vedere i loro visi,
gli occhi di sua madre circondati di piccole rughe, il sorriso un po’
storto di suo padre.
Ma Bruce li può vedere perché
il colpo di pistola ha illuminato il vicolo.
Alla luce segue il tuono, due
volte.
I suoi cadono a terra e il buio
di chiude su di loro.
Bruce
si alza di scatto, prende una boccata d’aria disperata mentre
riemerge dall’incubo. Si tira a sedere portando con sé tutte le
lenzuola. Il cuore gli martella in gola e nelle tempie. Deglutisce
e si mette all’opera per rallentarlo.
“Ehi,” chiama piano Clark,
posandogli una mano sulla schiena. “Non ho fatto in tempo a
svegliarti. Tutto bene?”
Bruce annuisce, un po’ rigido.
“I tuoi genitori?”
Bruce
non risponde. Non chiede come fa Clark a saperlo. Bruce non li
chiama, neanche
durante gli episodi peggiori, e quello certamente non lo è stato. Ne
è certo perché durante l’adolescenza si rassegnato alla
terrificante prova di chiederlo esplicitamente ad Alfred, e perché
ha passato anni ad addestrarsi perché il suo subconscio non tradisse
i suoi segreti mentre dorme.
Ma Clark… ovviamente Clark sa.
Sa che Bruce soffre di incubi più
spesso di quanto lui non vorrebbe ammettere perché gli dorme accanto
più spesso di quanto Bruce avrebbe pensato di sentirsi a proprio
agio, e sa che sogna la morte dei suoi genitori perché Bruce è
stato tanto incauto, la notte che Batman ha quasi ucciso Superman, da
dirgli che i suoi erano stati uccisi senza motivo in un vicolo, che
la loro morte gli aveva insegnato che niente aveva senso.
Bruce fa una smorfia, al ricordo:
regalare una debolezza del genere al nemico, anche sconfitto… ma
all’epoca non sembrava importante, o forse Bruce aveva bisogno di
dire a qualcuno che sarebbe morto a breve che tutto quello che
faceva, tutto quello che era, era a causa dei suoi genitori: Superman
doveva sapere che stava morendo per loro, per Jason, per il mondo.
E ora che Clark non è morto,
dorme regolarmente nel suo letto e ha dato prova più volte di avere
istinto per leggere il turbamento di Bruce, dannazione a lui, Bruce
non può fare a meno di riconoscere quale errore di valutazione sia
stato permettersi di parlare di loro in quell’occasione.
“È
solo un incubo,” risponde alla fine, scostando le lenzuola, posando
i piedi a terra. “Non intendevo svegliarti. Torna a dormire.”
Scenderà alla Caverna per occupare quelle ore vuote prima dell’alba.
Ma Clark gli afferra una spalla.
“No, Bruce, aspetta.”
La sua presa è leggera, ma non
abbastanza perché Bruce possa semplicemente scivolare via facendo
finta di non averla neanche notata, come farebbe normalmente.
“Finisce sempre così,”
continua Clark, senza lasciarlo. Scivola più vicino alla schiena di
Bruce. “Sparisci di sotto, da solo, e io non so cosa… me ne resto
qui senza poter fare niente e mi fa impazzire, capisci?” Sussurra
le ultime parole dietro l’orecchio di Bruce. Gli lascia la spalla e
gli avvolge il torace con il braccio. “Parlare potrebbe aiutare.
Puoi raccontarmelo, se vuoi. O no. Ma non restare da solo.”
Bruce rimane rigido ancora un
minuto. Potrebbe ribattere che non è un bambino, che non ha più
paura del buio dopo un brutto sogno. Poi sospira appena, aggrappa le
mani al braccio di Clark e si rilassa contro di lui. Distingue a
malapena la sagoma delle proprie nocche, il leggero contrasto con la
pelle abbronzata del braccio di Clark. Quasi come nel suo incubo.
Non serve parlarne. Non è
qualcosa che si possa superare parlando. Il cielo sa se Leslie e
Alfred non ci hanno provato, quando era un bambino, per aiutarlo ad
elaborare il lutto, a superare il trauma. Ci hanno provato per anni,
finché Bruce ha deciso che voleva sospendere la terapia. Quella
notte è qualcosa che è dentro di lui, fa parte di lui. È
la sua missione, anche se lo ha capito solo molti anni più tardi.
E l’incubo… fa parte di Bruce
anche quello. Non può superarlo, non può reprimerlo. Non vuole.
Ma tutto questo Clark non lo sa.
“Non è così male,” mormora.
Clark aspetta senza dir nulla.
“Finisce sempre allo stesso
modo. Due spari, loro che cadono a terra. La collana di mia madre
strappata.”
Non c’erano così tante perle
sparse per il vicolo, sono legate singolarmente. Ma a volte nel sogno
Bruce cerca di radunarle con le sue dita goffe di bambino e sono
troppe, le sue tasche sono bucate e le perle continuano a cadere.
Bruce le rincorre, le mette in bocca per tenerle al sicuro. Al
risveglio la gola gli fa male.
A volte c’è sangue. Bruce
cerca di pulirlo dal viso dei suoi, inutilmente, e si sveglia con le
mani calde e appiccicose di sudore.
“Ma riesco a vederli, un attimo
prima,” continua. “La Villa era piena di loro ritratti, di
fotografie…”
“Sono andate perdute
nell’incendio?” chiede Clark quando la pausa si prolunga.
“Non tutto quanto. Ci sono loro
ritratti in ogni edificio Wayne, comunque. Ma quelle sono solo
immagini. I ricordi… svaniscono.”
Mettere a fuoco i loro volti con
l’occhio della memoria è un’impresa impossibile. Quando Bruce si
è accorto che cominciava a dimenticare, da ragazzo, ha fatto il
possibile per preservare quello che ancora ricordava, raccontando a
se stesso ogni aneddoto, ogni momento che riusciva a mettere a fuoco,
annotandoli; facendosi descrivere i suoi genitori da Alfred,
chiedendogli all’infinito di rievocare il tono di suo padre, il
sorriso di sua madre.
Ma così facendo, le parole hanno
soppiantato i ricordi. Non ricorda il viso di sua madre, ma le
espressione con cui lo descriverebbe.
Il linguaggio ha riscritto i
ricordi.
Tranne che nell’incubo. Lì,
vede con chiarezza: il suo subconscio riporta a galla dettagli
dimenticati, gli occhi stanchi e struccati di sua madre prima di
coricarsi, le smorfie che suo padre faceva leggendo, così diverse
dall’espressione austera dei ritratti negli uffici della Wayne
Enterpraises.
“Nel sogno li ricordo
perfettamente. O almeno, così mi fa credere la mia mente.” Bruce
stringe più forte il braccio di Clark, ancora silenzioso nel buio.
“A volte, non fa neppure paura. Nelle notti migliori è solo
malinconico.”
In quelle notti è quasi un
regalo: ricordi inafferrabili in cambio di un po’ di tristezza.
Bruce non sarebbe mai in grado di rinunciarci.
Clark
ha appoggiato la
guancia alla sua spalla. Non dice nulla. Non chiede quanto spesso
capitano le notti buone. Forse non ce n’è ancora stata una, da
quando Clark dorme accanto a lui.
Bruce ha ancora incubi in cui
Clark viene trafitto da Doomsday, in cui ogni tentativo di rianimarlo
con la scatola madre fallisce.
Incubi in cui Superman gli
strappa il cuore dal petto sussurrando ‘Tutto il mio mondo,’ e
non parla di Lois, questa volta. Quelli sì che ricordano a Bruce
quanto è incasinato, quando si sveglia bruciando di vergogna, senso
di colpa ed eccitazione.
“Vedo Pa’, ogni tanto,” fa
Clark, sottovoce.
Bruce si concentra su di lui, si
scosta un po’ per guardarlo in faccia. Lui può parlare al buio,
nel buio, ma Clark non ha paura di incrociare i suoi occhi. Accenna
un minuscolo sorriso prima di continuare.
“Succede
quando sono turbato. Quando mi sembra di stare in mezzo a una
tempesta. D’improvviso
lui è lì, davanti a me, che fa qualche lavoro tranquillo, o pesca,
o non so…” Clark scuote la testa. “Era un uomo pacato. Era
impossibile provocarlo, non come me.”
Bruce
inspira e vorrebbe chiedere perdono, perché è Batman che più di
tutti ha voluto
provocare
Superman, ma Clark gli dà una stretta e un altro piccolo sorriso, e
lui tace.
“Quando
io e te ci siamo incontrati, avevo bisogno di una guida. E lui era
con me.” Il suo sorriso si fa più triste. “È
successo qualche altra volta, sempre in momenti brutti. Sono felice
di poterlo vedere, di sentirlo vicino.” Guarda Bruce, solenne. “Ma
non so cosa darei per condividere con lui anche i momenti felici.”
Bruce è due volte spiazzato.
All’idea di rivolgersi ai propri genitori, come a volte fa, non con
una prova di sacrificio, ma semplicemente presentando la propria
felicità, come motivo di orgoglio; e all’idea di ciò che Clark
implica: che è felice ora, accanto a Bruce.
Lui
non ha idea se Jonathan Kent sarebbe davvero felice di sapere suo
figlio accanto a un uomo come Bruce. Non riesce ancora a credere del
tutto che Martha
lo
sia. E in maniera così vocale ed entusiasta.
Ma non può rigettare le parole
di Clark, quelle dette e quelle sottintese. Perciò annuisce. Gli
occhi di Clark brillano al buio e Bruce torna a fissare la penombra.
“Credi di riuscire a dormire?
Almeno fare un tentativo?” chiede Clark, dopo qualche minuto. “O
posso scendere con te.”
Bruce sa per esperienza che non
riuscirà più a dormire. Dovrebbe quantomeno fare un uso produttivo
della sua insonnia. Invece si rilassa. Clark allenta la sua stretta,
ma tiene una mano sul suo cuore quando Bruce si corica di nuovo.
Clark
si mette comodo, le labbra che sfiorano la tempia di Bruce quando
comincia a raccontare a voce bassa: “C’è questa collina
rocciosa, dalle
parti delle Flint Hills. Ci vogliono più di tre ore di macchina,
dalla Fattoria. Io e Pa’ ci svegliavamo alle quattro e‒
be’, io non dormivo dall’eccitazione, di solito‒
e…”
Bruce lo ascolta e, forse perché
Clark è uno scrittore, riesce a vederlo senza sforzo con i capelli
in disordine correre verso il pick up dei Kent come se il suo zaino
da escursione non pesasse niente, sbattere la portiera con troppa
foga.
Mentre Clark racconta, Bruce
regola il proprio respiro ed è felice nei ricordi di qualcun altro.
Note:
Qualcosa di breve e semplice per
costringermi a scrivere. Ho un debole per i momenti tranquillia notte
fonda, a quanto pare.
Non sono convintissima, se vi va
fatemi sapere cosa ne pensate:)
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