Da qualche parte nel blu
Piove.
Osamu intravede la pioggia scrosciare attraverso la parete vetrata
dell’ingresso, aghi che precipitano. Sente anche il suo
picchiettio violento, che s’intensifica non appena
l’ultimo cliente apre la porta per uscire.
Parte di Osamu odia la pioggia. L’altra parte di lui
l’adora.
Osamu trattiene il fiato. Rimane solo Keiji, seduto al solito tavolo
all’angolo, vicino alla solita finestra. Centellina la sua
birra. Ha gli occhiali appannati, le guance leggermente arrossate,
cerchi di un viola profondo incisi intorno agli occhi blu, a
mo’ di cornice. Occhi blu e piovosi. Occhi bellissimi, come
sempre.
Osamu inspira profondamente, e cerca il coraggio dentro di
sè. Non lo trova. Perciò cerca più a
fondo e trova una briciola di qualcosa che non è proprio
coraggio, assomiglia più alla nostalgia, gli ricorda il mare
di notte. Qualunque cosa sia, è dolorosa. Dolorosa ma viva,
brilla come una stella lontana, il riflesso dell’acqua, un
passerotto affamato col becco spalancato che pretende cibo, altrimenti
morirà. Qualunque cosa sia, Osamu la prende e se la stringe
al petto. Quindi si avvicina, e gli si piazza davanti.
“Keiji,” dice.
Ci prova a dissimulare indifferenza, ci prova a chiamarlo come
chiamerebbe chiunque altro, ma non è chiunque altro, è Keiji,
e il suo nome gli s’impiglia nella gola per un istante. Come
se non volesse pronunciarlo, come se avesse paura di pronunciarlo. La
laringe lo tradisce, un tremito impercettibile risuona cristallino
nella quietezza del ristorante. Osamu non può controllarlo,
controllarsi, come del resto non può controllare la pioggia.
C’è e basta: un po’ Osamu la ama, un
po’ Osamu la odia.
Keiji lo guarda. Non dice niente. Al suo posto parlano gli occhi
spalancati che brillano dietro le lenti offuscate degli occhiali.
Perché sei
qui? vorrebbe chiedergli Osamu. E aggiungere anche: mi dispiace, mi dispiace, mi
dispiace, ti prego torniamo insieme.
“Stiamo per chiudere,” gli dice Osamu invece,
insulso e spaurito come un verme, ammiccando all’orologio
squadrato appeso alla parete.
Keiji non si disturba a guardare l’orologio. Sbatte
lentamente le palpebre, e altrettanto lentamente poggia il bicchiere
sul tavolo.
Chiedimi se puoi
restare. Chiedimi se puoi restare.
“Posso restare?” gli domanda Keiji.
Osamu lascia che quelle parole vibrino nell’aria. Lascia che
vibrino insieme alla pioggia, che s’infrangano a terra, nel
frattempo Osamu guarda gli occhi di Keiji che sono così
stanchi e così belli e così tanto blu.
*
La loro storia inizia come ne iniziano migliaia di altre.
Osamu, semplicemente, lo trova bello. Keiji, oltre a trovarlo bello,
trova che il suo cibo sia squisito, e si ferma a mangiare al suo
ristorante ogni volta che viene a Osaka.
All’inizio, quando ancora non si conoscono bene, Keiji si
mostra introverso e perlopiù silenzioso. Non
c’è inespressività nel suo modo di
comunicare, quanto piuttosto moderazione. Non trasmette una sensazione
fredda o diffidente, quanto piuttosto una gentile timidezza. Il suo
tono di voce è delicato, la curva delle labbra è
appena accennata, ma è morbida e sincera. Si siede sempre al
solito tavolo all’angolo, vicino alla solita finestra.
A Osamu piace. E gli piace osservarlo mentre mangia sotto la luce calda
del suo ristorante, perché non appena addenta gli onigiri,
gli occhi di Keiji cominciano a vibrare. E
quell’espressione di pura estasi, così intensa e
inaspettata, fa vibrare anche i suoi, di occhi, e Osamu pensa: voglio di più.
E così Osamu, una sera, porgendogli un piatto di onigiri, lo
invita a cena fuori. E Keiji arrossisce lungo il collo, sorride, gli
occhi che luccicano dietro gli occhiali, e risponde:
“volentieri, anche se il ristorante dove mangio meglio
è il tuo.”
E qui Osamu viene ferito a morte. C’è qualcosa di
fatale nel modo in cui si innamora, come un pugnale mascherato da
margherita che gli si conficca nel cuore. Fissa Keiji basito per un
istante - perché non può essere reale, deve
trattarsi di un sogno, di un’allucinazione. Poi scoppia a
ridere.
“Ti posso cucinare qualcosa, se sei
d’accordo.”
Keiji è d’accordo.
È una storia che comincia come tante altre, e che come tante
altre ha lo stesso sapore della pioggia. Dolce, umido, alcune volte
malinconico, altre catartico. Può sopraffarti, inzupparti e
lasciarti al gelo come un gattino bagnato. Può essere
dirompente, liberatorio e tumultuoso come un acquazzone estivo,
delicato come una pioggia primaverile, una nube lattiginosa e
impercettibile.
E poi, come tante altre storie, si interrompe.
Non finita. Solo, interrotta. Perché non può
piovere per sempre. Perché prima o poi smette.
*
Keiji sale le scale dietro di lui. Osamu ha un po’ di
batticuore. Si impone di rimanere calmo, perché è
Keiji, solo Keiji, Keiji che ha salito quelle stesse scale decine di
volte.
Eppure agitarsi è inevitabile, perché i fantasmi
dei suoi ricordi, le vivide reminiscenze di quello che hanno avuto,
vissuto e condiviso si aggrappano alle loro caviglie. L’ombra
del presente si sovrappone a quella del passato, e questa
sovrapposizione imperfetta gli fa tremare il cuore. Accanto a lui, a
loro, in quel momento, ci sono un altro Osamu e un altro Keiji che
stanno salendo quegli stessi gradini. Osamu in parte li invidia,
perché non potrà mai più avere quello
che hanno loro. In parte, però, li compatisce. Compatisce la
loro acerbità, la loro inesperienza.
Quel tragitto, comunque, pesa. Pesa sul cuore e sull’anima e
Osamu ha la sensazione di avere le gambe cementificate. Il passo di
Keiji invece è leggero come quello di un gatto, e
nell’aritmia dei loro passi, in quella musica tutta stonata,
Osamu sente l’odore della pioggia.
Arrivano davanti alla porta. Osamu la apre e la oltrepassa. Keiji esita
un istante sull’uscio, ma poi si sfila le scarpe e lo segue.
Osamu chiude la porta alle loro spalle e all’improvviso si
trovano in un mondo in cui c’è spazio solo per
loro.
“Vuoi un tè?” gli domanda,
perché è più facile comunicare,
rimanendo in silenzio, con una tazza di tè in mano.
Sono le tre, forse le quattro del mattino. Ma non importa. Osamu decide
che, per quella notte, il tempo non conta.
Keiji annuisce.
“Grazie,” gli dice.
*
Osamu pensa che Keiji avrebbe potuto fare l’archeologo. Keiji
adora osservare il mondo e le persone. Un oggetto catalizza la sua
attenzione e Keiji ci si avvicina in maniera intelligente e delicata,
come quando soffi via una bolla di sapone. Ma anche fatale,
ineluttabile. Keiji è una goccia di pioggia quando tutto
è sereno. Il cielo è nitido, cristallino, di un
azzurro tanto denso che potresti quasi mangiarlo, prenderlo a morsi, e
poi di punto in bianco senti le gocce di pioggia sul viso, o le vedi
infrangersi sul parabrezza della macchina.
E come una goccia di pioggia improvvisa e inaspettata, Keiji lo bacia.
Nella cucina del suo ristorante.
Osamu, durante il giorno di chiusura alla clientela, decide di
mostrargli la cucina.
Lo fa entrare nel suo piccolo mondo con gli occhi che brillano,
scintillanti come i recipienti di alluminio. Poi sorride, orgoglioso e
intenerito, e gli dice: “è una cazzo di
meraviglia, vero?”
Keiji lo guarda. Poi esala una risata, e prima che Osamu possa
chiedergli ‘perché stai ridendo?’,
Keiji lo bacia.
E Osamu rimane con gli occhi sbarrati e le labbra di Keiji premute a
stampo sulle sue, su cui si permane ancora un vago sapore di birra e di
riso e di salsa di soia - riso che ha preparato lui.
Osamu gli afferra i polsi. Lo bacia più forte. E Keiji si
ritrova premuto contro la fredda parete, e comincia a ridere e a
rabbrividire, mentre Osamu gli affonda il viso nella curva del collo
dove la pelle è così soffice e tenera e si sente
il suo odore.
*
Keiji fa il suo primo sorso di tè. Il vapore fluttua intorno
al suo viso e gli occhiali si appannano. Osamu lo fissa. Keiji lo
fissa da sopra il bordo della tazza.
“Osamu,” gli dice, dopo un istante di esitazione.
“Mi manchi tantissimo.”
Gli occhi di Keiji sono blu come la pioggia nel mare. E Osamu
all’improvviso si sente trafitto da un diluvio, violente
secchiate di acqua lo inzuppano, uno scroscio perenne e appuntito che
non accenna a smettere, che non smetterà mai.
“Anche tu,” gli risponde.
“Tantissimo.”
*
Keiji sembra disegnato a matita. Quando lo vede nudo per la prima
volta, nel fuggevole istante che precede la foga e la follia del
desiderio, Osamu pensa che Keiji sia disegnato con una matita blu.
È sottile. Sottile e pieno di curve: l’incavo del
collo, la curva delle spalle, dei fianchi, delle cosce. Sottile e
ondulato come un nastro di seta, sottile e ultraterreno.
Keiji gli ricorda le onde del mare. Un’onda morbida, che
accarezza pazientemente la battigia prima di trascinare via con
sè i sassolini e le conchiglie. Osamu è il
sassolino. Keiji è l’onda dolce ma inevitabile
che lo sta ingoiando dentro di sè. Sembra come se volesse
dirgli: ti
ucciderò, ma ti prometto che sarà bellissimo.
E lo è. Osamu muore ogni volta. E ne morirebbe ancora e
ancora e ancora.
Osamu lo tocca, col corpo e con l’anima, e conta. Conta le
sue ossa, i nei dietro la schiena, il tempo che passa. Osamu tocca, si
lascia toccare a sua volta, conta e mentre conta scopre qualcosa di
Keiji che prima non conosceva. E quel processo di rivelazione a piccoli
sorsi, che si adagia sullo scorrere dei giorni e delle notti,
è meraviglioso eppure straziante, poiché Osamu
non può fare a meno di chiedersi quando finirà.
Di contare il tempo che resta, quante notte e quanti giorni rimangono
ancora.
Il peso di quella fine ineluttabile è una nota fitta di
tristezza. È un ago sottile, quasi invisibile, che galleggia
in quell’oceano di felicità. Quando Osamu stringe
Keiji a sè, quell’ago tanto sottile da essere
quasi invisibile lo penetra. E si conficca sempre più a
fondo, abbraccio dopo abbraccio.
Keiji sembra delicato. Ha le labbra delicate, l’odore
delicato, la pelle delicata, un sapore delicato. Però
è tutta apparenza, perché la verità
è che Keiji non è delicato, Keiji è un
cuore nudo grondante sangue, una nuvola temporalesca, gonfia di tuoni
ed elettricità. Keiji quando vuole sa essere affilato come
una lama, perché tutte le emozioni che si è
sempre tenuto dentro inevitabilmente hanno finito col fondersi alla sua
carne, nidificare sulle sua ossa. L’intensità di
quello che prova, perlopiù mai esternata, ha trasformato il
suo corpo in un vespaio, in un labirinto in cui si alternano lucciole e
trappole. Osamu deve fare attenzione, essere prudente, tenere la
bussola stretta al petto, o perderà per sempre la strada.
C’è qualcosa di immenso dentro Keiji, oltrepassata
la nebbia di delicatezza. Qualcosa che gli fa pensare: non lo voglio perdere,
qualcosa che gli rimane appiccicato alla lingua, al palato, una specie
di retrogusto, una sfumatura che cambia perennemente il colore del
mondo.
E il mondo di Osamu diventa blu.
E mentre Osamu lo guarda, lo sente, lo abbraccia, lo bacia, gli cucina
la cena, ci ride insieme, conta, muore, pensa ‘prima o poi
finirà. Prima o poi tutto questo
finirà.’
Quindi bacia Keiji più forte, lo chiama per nome. Sente le
sue unghie conficcarsi nella schiena, incisioni a mezzaluna. E prova a
dimenticare.
*
Il tè è finito. Il picchiettio della pioggia
oltrepassa la finestra, le pareti del condominio. Osamu lo sente
strusciarsi contro di lui, contro di loro, come un gatto ingombrante
che fa le fusa e che odora di acqua dolce e asfalto bagnato.
Keiji lo guarda. Osamu lo guarda. Si fissano senza parlare. Il che va
bene, pensa Osamu. Non c’è bisogno di parlare.
Sanno tutto quello che devono dirsi: la mancanza, la rabbia, la
distanza. Osamu comincia a contare. Anzi, Osamu sta contando da quando
l’ha visto entrare nel locale quella sera. Anzi, Osamu di
contare non ha mai smesso, ha sempre contato il tempo passato con Keiji
e quello che passava senza di lui, mesi e giorni e secondi e
un’eternità intera, un futuro, soffiato via come
la fiammella di una candela, il tempo di un’onda che bacia la
battigia, poi ruba la conchiglia e ladra ritorna al mare, abbandonandola
a se stessa.
Il problema è che non importa quanto sia vero o sentito:
l’amore è fragile. L’amore è
così infelicemente fragile. È fatto di cristallo,
si infrange anche solo guardandolo. Quello che rende l’amore
forte è la tenacia di chi si impegna per riaggiustarlo. La
testardaggine di chi, ogni volta, si inginocchia, raccoglie i cocci a
mani nude e li rimette insieme, a prescindere dal sangue e dalle ferite
che sbocciano sui polpastrelli, ancora e ancora e ancora.
Osamu ha decisamente bisogno di una sigaretta. Perciò prende
il pacchetto dalla tasca e se ne ficca una in bocca.
“Ne vuoi una?” domanda a Keiji
Keiji esita un istante. “Smezziamola,” propone
infine.
Si mettono vicino alla finestra. La aprono, lo scroscio
d’acqua diventa più forte, riverbera dentro le
costole.
Le loro spalle si toccano. Quella di Keiji è appena
più bassa rispetto a quella di Osamu. Osamu si impone di non
tremare, di non lasciar trasparire niente, ma la fiamma
dell’accendino tremola quando si accende la sigaretta.
Chiude gli occhi. Inspira come se insieme al catrame e alla nicotina
potesse inspirare la pioggia e Keiji accanto a lui. Fa un paio di tiri,
poi gli passa la sigaretta. Keiji mormora un grazie, si porta la
sigaretta alle labbra. Regge la sigaretta in maniera elegante. Osamu la
schiaccia fra l’indice e il pollice, Keiji invece la tiene
fra indice e medio come se fosse una piuma. Gonfia le guance quando
soffia via il fumo in una nuvoletta, che viene bucata dalle gocce di
pioggia.
Osamu lo fissa. Keiji si volta verso di lui.
“Perché mi guardi così?”
“E come altro ti dovrei guardare?” sbuffa Osamu,
scuotendo la testa. “Sei bellissimo. Ripassami la
sigaretta.”
Keiji sorride.
*
“Ti sei mai pentito?” gli domanda Keiji, una notte.
Sono nell’appartamento di Osamu, al buio. È notte
fonda. Entrambi dovrebbero dormire già da un pezzo, ma
quella è una di quelle notti in cui nessuno dei due riesce
ad addormentarsi. Osamu sa che Keiji è sveglio, e viceversa.
Oramai conoscono il modo in cui dorme l’altro, e
quell’intimità è un privilegio,
qualcosa di cui Osamu è tremendamente orgoglioso.
Quando non riescono a dormire, di solito non parlano. Si abbracciano,
si stringono le mani, trovano conforto nella sensazione della pelle
contro la pelle. Osamu sa perfettamente che nessuna persona
può possederne un’altra, che nessuno appartiene a
nessuno, però gli piace sentirsi di Keiji, almeno un
po’. E gli piace che Keiji si senta suo, almeno un
po’.
“Pentito di cosa?”
“Di aver aperto un ristorante. Di aver scelto la
cucina.”
Osamu gli stringe la mano. Keiji gli affonda il viso
nell’incavo del collo. Osamu sente il suo respiro dietro
l’orecchio.
Ci sono momenti, momenti che delle volte durano mesi, in cui Osamu
pensa al ristorante e diventa malinconico. Non si tratta di un
pentimento vero e proprio, quanto piuttosto di un interrogarsi, un
assaporare possibilità diverse: se fosse rimasto a giocare a
pallavolo con Atsumu, se invece di frequentare corsi di cucina avesse
frequentato quelli di chitarra, se, se, e ancora se.
La verità brutale è che essere chef e avere un
locale è estenuante, sia come passione che come professione.
Il ristorante è qualcosa che pretende la tua anima, e la
pretende tutta. È un patto con il diavolo: guadagni il
diritto di afferrare la tua ambizione, il tuo sogno, stringertelo al
petto come un cucciolo di gatto, in cambio però sacrifichi
tutto te stesso: il tuo corpo, il tuo tempo, il tuo sonno. Sarai
risucchiato via con la stessa veemenza con cui Kageyama risucchia il
latte dai brick in cartone quando perde una partita, e se vorrai fare
spazio per qualunque altra cosa che non graviti intorno al ristorante -
come Atsumu, come Keiji - allora dovrai essere pronto a sacrificare
molto, molto di più, anche se non ti rimane più
niente, scavare per terra e maciullarti le dita, e poi le mani, e poi i
polsi, e poi le braccia.
E ci sono momenti, momenti di sconforto prosciugante, in cui il locale
è vuoto. E tu ti sei fatto il culo, sei andato a dormire
alle cinque la notte prima e alle sei eri già in piedi
perché il pesce va comprato fresco, perché devi
cambiare il menù in vista della nuova stagione, provare
nuove ricette, pagare le bollette del gas, parlare con il rappresentate
vinicolo che sarà da te alle dieci e mezza del mattino,
cambiare il contratto di internet, pulire e organizzarti per
l’apertura a cena. E dopo quella giornata apparentemente
infinita, in cui ogni passo è stato faticoso come se stessi
camminando immerso nella sabbia fino alle ginocchia, nessuno si
presenta a cena per mangiare. Tutto quel dolore, e in cambio hai
ottenuto solo una sala vuota e silenziosa. E lì, in quel
silenzio tanto greve e opprimente, in quel tipo di silenzio che Osamu
odia, con le gambe che tremano per lo sconforto e per il bisogno di
riposare, può solo pensare: vaffanculo, vaffanculo,
vaffanculo, che cazzo di schifo, adesso mollo tutto.
E la voglia di slacciarsi il grembiule è irrefrenabile. E
sulla lingua assapora l’idea di uscire dalla porta e di non
riaprirla mai più: niente più riso, niente
più onigiri, niente più odore di pesce. Osamu
vuole andare in vacanza sulle spiagge di Nizza a sorseggiare Mojito e
succo di cocco, per almeno un anno. E soprattutto vuole dormire, cazzo.
Quei momenti sono i più difficili. Sono i momenti in cui
Osamu arriva a odiare qualcosa che ama con tutto se stesso.
La doppia fregatura è quei momenti non durano mai abbastanza
per spingerlo davvero a mollare. L’odio non è
abbastanza forte, abbastanza persuasivo: riesce solo a destabilizzarlo
approfittandosi del suo sconforto, ma Osamu ama troppo quello che fa.
Ama visceralmente cucinare, lo ama con ogni singola briciola del
proprio essere. E quando una parte di lui vorrebbe solo scoppiare a
piangere, mettere tutto in vendita e dimenticare, un’altra
parte di lui - quella più stupida e testarda, quella che a
Osamu ricorda fastidiosamente suo fratello, e forse è
proprio per questo che è la parte di se stesso che
preferisce - gli dice: domani.
Domani andrà meglio. Ti sveglierai alle sei e continuerai a
cucinare perché non si molla un cazzo e perché
qualche cliente arriverà. E finché ci
sarà anche solo una persona che apprezzerà quello
che hai cucinato, allora ne sarà valsa la pena.
Finché ci sarà anche solo un granello di
soddisfazione in questa gigantesca montagna di merda, allora ne
sarà valsa la pena. Perché quel singolo,
infinitesimale briciolo di appagamento brilla come mille diamanti, come
mille soli, e ripaga il sangue, il sudore, lo sfiancamento, la
depressione e le lacrime.
“No,” risponde quindi Osamu.
“Cioè, delle volte vorrei bruciare il ristorante e
buttarmici dentro. Ma non mi sono mai pentito. Non so perché
e non so come sia possibile, visto che sono praticamente un cazzo di
cadavere ambulante, ma amo troppo quello che faccio. E ne ho
bisogno.”
Keiji gli posa un bacio sotto l’orecchio. Osamu sorride.
“Bene,” gli dice. “Sono felice per te. Ma
per favore, non lo fare. Non dare fuoco al ristorante e non buttartici
dentro.”
Osamu ride. “Ti mancherei?”
“Più di quanto immagini. E mi mancherebbero i tuoi
onigiri.”
“Ti mancherebbero solo i miei onigiri, Keiji. Non credere che
non sappia perché stiamo insieme.”
Ora è Keiji a ridere. “Non sto con te solo
perché cucini bene. Ci sono tante altre cose che mi
piacciono di te.”
“Tipo?”
Keiji ci pensa per qualche istante, poi risponde: “per
esempio, mi piace come mi scopi.”
Osamu sgrana gli occhi. L’istante dopo gli è
sopra, i denti affondati nella pelle morbida della sua spalla, le cosce
strette attorno al suo bacino. Poi gli bacia il collo, le mani che si
intrufolano sotto il pigiama, Keiji che mugola.
Osamu conta. E mentre conta, pensa: voglio questo per sempre.
*
Stanno giocando a Mario Kart a casa di Keiji.
Nello specifico, stanno facendo la Pista Arcobaleno. Osamu si morde la
lingua: è primo, mentre Keiji è terzo. Sono
all’ultimo giro. Poco prima di tagliare il traguardo,
però, Osamu imbocca una curva a velocità troppo
elevata e precipita nel vuoto. Keiji taglia il traguardo e arriva
primo, Osamu quinto.
“SÌ!” esclama Keiji, al settimo cielo.
“SÌ!”
Poi balza in piedi e comincia a ballare, evitando le pile di fogli che
tappezzano il pavimento. Osamu sbuffa. Sta per dirgli: ‘non ti montare la
testa, hai avuto solo fortuna, difatti è l’unica
partita che sei riuscito a vincere da quando abbiamo iniziato a
giocare.’
E invece gli dice: “Keiji, ti amo.”
Keiji smette di ballare. Si volta a guardarlo con gli occhi sgranati.
Osamu scuote le spalle, allibito tanto quanto lui.
“Non devi dirmelo anche tu,” aggiunge in fretta, il
collo sudato all’improvviso. “È solo che
lo penso davvero. Perciò volevo dirtelo.”
C’è una piccola parte di lui, ingenua come una
bambina, la stessa parte stronza che gli ricorda suo fratello e che gli
impedisce di chiudere il locale quando è l’unica
cosa che Osamu vorrebbe fare, che però ci spera. Spera
stupidamente che Keiji risponda: ti amo anche io.
Keiji però non lo fa. E va bene così, pensa
Osamu. Va bene
così. Ha solo bisogno di più tempo. Va bene, va
bene, va bene così.
(No, non va bene. Fa male.)
*
Scegliendo la cucina, Osamu ha stretto il suo primo patto con il
diavolo: dammi il mio sogno, e in cambio ti darò tutto me
stesso.
Scegliendo Keiji, Osamu ne stringe un altro: dammi il mio sogno, e in
cambio ti darò tutto me stesso alla seconda. Doppia dose di
lacrime, doppia dose di sangue, sotto il peso di una doppia valanga di
merda. Perché Osamu è disposto a qualunque cosa
pur di vedere il suo ragazzo blu. È disposto a dormire
ancora di meno, o meglio, a non dormire proprio, a prendere treni di
notte per andare a trovarlo e ripartire la mattina presto, prima ancora
che sorga il sole. Ma ne vale la pena. Ne vale la pena.
Ma forse per Keiji non è così. Forse per Keiji
non ne vale la pena, forse perché Osamu non è un
granello abbastanza brillante, forse perché i suoi occhi non
sono dello stesso colore del mare.
Osamu comincia a gravitare intorno a Keiji, che però non
gravita intorno a lui. E a questo ciclo gravitazionale non ricambiato
consegue un vortice di solitudine, di frustrazione ingoiata, scolata
come una bottiglia di sakè nelle notti più buie e
tristi, sorsi profondi e appuntiti come spilli, con la gola che brucia
come se volesse effettivamente bruciare, come se volesse inghiottire
l’acqua salata dell’oceano - blu, come i suoi
occhi, come se volesse mettersi con la bocca spalancata sotto lo
scroscio violento della pioggia - blu, come i suoi occhi, e lasciarsi
bucare la lingua, lasciarsi trafiggere dalle gocce-proiettili di acqua
dolciastra.
Osamu inghiotte e inghiotte e inghiotte, beve la malinconia e la paura
perché non può fare altro, mandare giù
in silenzio la mortificazione, perché appesantire se stesso
è l’unico modo che conosce per alleggerire
ciò che gli sta intorno.
Non vuole dirglielo. Non vuole dirgli: ‘Keiji, io non sono
felice. Perché sono sempre io quello che deve fare tutto?
Perché sembra che sia l’unico a cui freghi
qualcosa di questa storia? Perché io sputo sangue e non
dormo la notte pur di trovare una cazzo di ora per vederti, e tu non
trovi neanche il tempo di rispondermi al telefono quando ti chiamo?
Keiji, non sono felice. È palese che io non sia felice.
Perché non te ne accorgi? E perché te ne accorgi
e poi non dici nulla?’
Perciò rimane zitto e ingoia.
E poi la tristezza precipita su di loro anche quando sono insieme,
improvvisa e affilata.
E Osamu conta. È un conto alla rovescia perenne, tormentato,
febbrile, le briciole di tempo svaniscono troppo in fretta, Osamu le
fissa con una clessidra cucita su ogni pupilla.
E pranzare o cenare insieme, condividere il letto, abbracciarlo,
stringergli le mani, baciargli la fronte e i capelli e sentire le
ciglia sfarfallare contro la sua guancia non bastano più per
trovare conforto, ma sono istanti che si trascinano dietro una marea di
disperazione, un senso di vuoto annichilente, sconfitta.
Osamu annega.
*
“Keiji,” gli dice Osamu un giorno al telefono. Il
cielo è nitido, sereno. Osamu lo guarda ma non trova il blu
dei suoi occhi, solo un azzurro troppo acceso, fastidioso.
“Sono stanco. Non ce la faccio più.”
Sono così
stanco di fare tutto. Di portare sulle spalle il mio ristorante, la
nostra relazione, me stesso. Non dormo da mesi. Sta diventando tutto
troppo sfiancante, e non ne vale la pena, non ne vale la pena se non ti
vedo preso come lo sono io, se non ci incontriamo a metà
strada, se io continuo a rischiare di svenire per trovare briciole di
tempo per vederti, per cercare di fare dei passi avanti, verso di te,
mentre tu trovi solo il tempo per fare passi indietro, per mettere
ancora più distanza in una situazione che è
praticamente fatta solo di distanza, e sono così stanco di
sentirti lontano anche quando siamo insieme. È come se tu
con me non ci fossi mai per davvero, io guardo te e tu guardi
dall’altra parte senza neanche vedermi, ed è tutto
così freddo, gelido, a tratti spietato. Non ti piaccio
più? Dimmelo. Mi sta bene. Lo capisco, io ti amo e tu no,
può succedere, mi deprimerò e Tsumu
verrà a buttarmi tutti i pacchetti di sigarette e
proverà a farmi ridere con le sue barzellette di merda e poi
mi prenderà a schiaffi ed, eventualmente, andrò
avanti, perché mi piace andare avanti e mi è
piaciuto - ho amato - quello che abbiamo avuto e non ho intenzione di
rimpiangere nulla. Ma sto rimpiangendo tutto quello che sto
sacrificando per te ultimamente. Sono stanco. Non ne vale la pena. Non
più.
“Osamu,” gli dice Keiji. È un sussurro
sottile come la carta velina, eppure gli spacca le costole e gli
trafigge il cuore. “Osamu, per favore.”
Per un istante, Osamu pensa che forse Keiji lo ama.
È solo un istante, però. Un’unica
goccia di pioggia solitaria che precipita sull’asfalto in un
caldo pomeriggio estivo.
Osamu è stanco. Vuole solo infilarsi nel letto e dormire.
E, per una volta, lo fa.
*
La depressione gli rovina addosso una settimana dopo quella telefonata.
E con la depressione arriva anche suo fratello che gli butta i
pacchetti di sigarette e che prova a staccarlo dalla bottiglia quando
il locale è chiuso, o che beve con lui quando non riesce a
farlo. Parte di Osamu pensa che sia tutto così stupido. I
problemi sono altri. I problemi sono altri e sono tantissimi. Crescere
significa anche quello, avere sempre più problemi da
affrontare e nessuno che li risolva al tuo posto. Crescere significa
avere sempre meno tempo, perdere il privilegio di poter dire domani.
Non puoi dire domani. Non ce l’hai più, un domani,
perciò o lo fai in questo istante oppure rinunci a quella
cosa per sempre, perché le occasioni non sono infinite come
credevi da bambino, le occasioni non si ripresentano e non tutto
ciò che si rompe si può aggiustare. Crescere
significa accorgersi di essere rimasto impigliato nei ritmi febbrili
imposti da qualcun altro, perciò o rimani al passo con
l’ansia che ti scuote come vetro al vento, oppure ti lasci
calpestare, sconfitto e inerte e miserabile.
Osamu però non credeva che crescendo, il cuore si potesse
comunque spezzare. Le tragedie sono altre. I lutti, le malattie, i
soldi che non bastano mai, la paura costante.
E invece Osamu sta malissimo semplicemente perché non si
è sentito dire ‘ti amo anche io’. Si
sente spiaccicato da qualcosa di immenso, pesante come il cielo. Ed
è sconcertante la potenza dell’amore, una miccia
perennemente in fiamme che catalizza su di sè
l’attenzione nonostante la vita sia la culla di sofferenze
ben più atroci. È così stupido e
irrazionale. Perciò, un po’, è anche
bellissimo.
Bellissimo come Keiji, quando entra nel suo ristorante dopo mesi. E
Osamu dentro trema, e fuori piove fortissimo, e fissa quella sagoma
sottile e curvilinea, disegnata a matita, matita color blu, che sorride
impacciata non appena incrocia il suo sguardo.
Poi Keiji si siede al solito tavolo all’angolo, vicino alla
solita finestra, e aspetta.
*
Osamu spegne la sigaretta nel posacenere, poi chiude la finestra. Il
bagliore di un lampo accende le pareti della stanza.
Guarda Keiji, in piedi accanto a lui. Keiji lo fissa di rimando, poi
esita un istante prima di prendergli la mano. Osamu chiude gli occhi,
le spalle attraversate da uno spasmo.
Le sue dita. La forma delle sue dita e della sua mano stretta dentro la
sua. Tutto torna al posto giusto, è una magia, sono la gioia
e il sollievo nella loro essenza più pura e disperata.
Keiji gli stringe la mano più forte. Osamu ricambia la
stretta e dopo un istante si stanno abbracciando come se il pavimento
sotto di loro si stesse sbriciolando.
“Mi ami ancora?” gli chiede Keiji, il viso premuto
contro l’incavo del suo collo.
Osamu sente il suo respiro, l’umidità delle sue
labbra, la montatura storta degli occhiali schiacciata sotto la
mascella.
Certo che ti amo ancora,
gli dirà Osamu. E poi si scuserà. Si
scuserà per tutto il peso che gli ha piantato addosso. Si
scuserà per il suo egoismo, per non avergliene mai parlato.
E gli dirà: per
favore, per favore, non piangere, e Keiji gli
dirà: mi
dispiace, mi dispiace, mi dispiace, è solo che avevo bisogno
di più tempo, è solo che io mi perdo sempre,
anche nelle cose belle.
È solo che a Keiji sembra di morire ogni giorno, tranciato
via dall’ansia, dalle secchiate di impegni e scadenze
imminenti. La verità è che Keiji ha sempre dovuto
contare molto più di lui. La verità è
che è stato Keiji quello ad annegare nel suo stesso blu.
Osamu, invece di aiutarlo a galleggiare, gli ha soltanto sbattuto in
faccia l’ennesima data entro cui terminare qualcosa,
l’ennesimo compito da svolgere prima che il tempo gli
portasse via anche l’amore.
Ma possono rimediare. È quello che faranno. Capiranno come
nuotare insieme e come fermare il tempo mentre si tengono per mano
sotto la pioggia, nel loro meraviglioso mondo blu.
Note
CIAAAAO! OSAAKA!!!!! LI AMO!!!!!! *ruggisce scatena lancia i piatti per
aria ringhia abbaia sale sul cucuzzolo della montagna e urla OSAAAKAAAA*
Vabbè. Grazie per aver letto. Vorrei rimanere qui
più a lungo perché adoro dire cazzate abusando di
questo spazio ma.... hahaha.... esame.... tre giorni di tempo... e io
qui a scrivere fic..... HAHHA:......,,,, di bocciare me lo merito.
INSOMMA. Grazie davvero di cuore per aver letto! I LOVE THEM SO MUCH
spero di tornare con un papiro su di loro bello drammatico MORTE MORTE
DATEMI LA MORTE MUAHAHAH (no ok devo /davvero/ andare via
cioè lo stress proprio è palese.)
Spero che stiate tutt* bene!!!!
See ya! ♥
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