Ho
perso una scommessa con Atlante e ora devo sollevare il cielo al posto
suo
I crave your mouth, your voice,
your hair.
Silent and starving, I
prowl through the streets.
Bread does not nourish
me, dawn disrupts me, all day
I hunt for the liquid
measure of your steps.
(Love Sonnet XI, Neruda)
Diario di Keiji, 17
settembre 2024
Ho sempre creduto che il peso e la leggerezza fossero due concetti
opposti, e invece sono straordinariamente simili. Nonostante
identifichino due condizioni differenti, tendono a comparire insieme
come se si tenessero per mano, incatenati l’uno
all’altro. Il peso si trascina dietro la leggerezza e
viceversa. Sono amalgamati e indissolubili. I loro contorni sfumano e
riconoscerli, distinguerli, diventa complicato.
Per esempio, quando ho paura sono sia troppo pesante che troppo
leggero. Quando ho paura, paura vera, quella che trancia di netto ogni
briciolo di razionalità presente nel corpo,
c’è qualcosa che mi schiaccia. Qualcosa di
immenso. Una valanga di buio mi scroscia addosso e mi paralizza.
È il cielo che si frantuma e che comincia a precipitare come
se fosse grandine, mentre io rimango immobile, senza neanche respirare.
Al contempo però mi sento leggero. Così leggero
che temo che prenderò il volo. Fluttuerò lontano,
mi staccherò dal mio stesso corpo e non sarò mai
più in grado di tornarci dentro. Da questa improvvisa
leggerezza scaturisce la certezza di essere l’essere
più fragile al mondo. La paura mi rende leggero e quindi
evanescente, leggero e quindi effimero, caduco. Mi sento leggero e un
istante dopo mi sento già morto, perché capisco
quanto fuggevole sia la nostra esistenza e visualizzo il nulla che
c’era prima di noi e il nulla che lasceremo dopo. Noi
esistiamo, distruggiamo quello che abbiamo intorno, e poi finiamo senza
lasciare neanche una traccia del nostro passaggio. Quelli che invece
riescono a lasciare qualcosa, lasciano solo briciole di
un’eco momentaneo che prima o poi si zittirà per
sempre. Un giorno ci dimenticheranno e niente di quello che per noi
è stato fondamentale, niente di quello che abbiamo amato o
sacrificato, significherà qualcosa. La memoria è
la chiave dell’immortalità e per questo
l’immortalità non esiste, perché il
ricordo è destinato a essere provvisorio, sempre. E la
portata di questa fine, la sua pesantezza, è strettamente
allacciata alla leggerezza e alla fragilità della condizione
umana. Anche l’odio e la rabbia sono momentanei, anche se
trovo triste che siano proprio loro le emozioni più
resistenti e quelle che impiegano più tempo per essere
cancellate.
Per me, l’emozione più difficile da eradicare
è la paura. Se qualcosa di me risuona, seppur
impercettibilmente, quel qualcosa è fatto interamente di
paura. Il mio cuore è fatto interamente di paura. E la paura
è l’istante in cui convergogno il peso e la
leggerezza.
Un’altra cosa pesante e leggera: la gioia. La gioia vera,
come la paura, priva il corpo di peso. Sconfigge la forza
gravitazionale, e ti permette di volare anche se sei privo di ali. Ti
senti come se, chiudendo gli occhi, potessi arrivare ovunque, cadere
ovunque. Come se potessi trasformarti in aria, o nei raggi del sole, e
continuare a salire e a salire ancora.
Eppure la gioia, quella vera, è anche una scarica. Una
scarica che inevitabilmente ti schiaccia a terra.
L’adrenalina e l’intensità che si
materializzano nelle vene concretizzano la tua luce e la tua ombra, e
di conseguenza il tuo corpo, rendendolo pesante, rendendolo definito e
netto, come se un bambino avesse preso un pennarello e stesse
ricalcando a forza i tuoi contorni fino a bucare la pagina. Ti senti
vivo, pulsante come un cuore, pesante come un cuore, pesante come la
vita.
Peso e leggerezza, di nuovo. In egual misura.
Un’altra cosa che mi fa sentire pesante e leggero: Osamu.
La stabilità di Osamu non soltanto mi fa sentire ancorato a
terra, ma è come se la terra fossi io. È come se
dentro di me ci fossero milioni di radici. Mi sembra di avere un bosco
in mezzo alle costole. E i fiumi, e le montagne, e il mare. Mi sento
pesante e pieno. Eppure, al contempo, divento trasparente e
intangibile. Quando c’è Osamu la realtà
intorno a me si tramuta nell’ennesimo vestito di cui
liberarsi.
Stare con Osamu significa dimenticare. Tuffarsi in un oceano fatto di
luce. Ci si spoglia della pelle, delle ossa, l’ombra si lima
finché non rimane soltanto la parte più
inafferrabile e tiepida. Questo processo di graduale disgregazione non
è doloroso. È naturale, liberatorio.
Pesantezza e leggerezza. Ho provato a studiarle. Ho provato a capire
quale prevalesse sull’altra. Credevo che riflettere avrebbe
potuto chiarire quello che sento. Credevo che la soluzione stesse
proprio nel trasformare l’ignoto in un terreno conosciuto,
come quando nei videogiochi esplori una mappa e quella piano piano si
colora. Ma mi sbagliavo, perché esistono alcune cose che
vanno accettate esattamente così come sono, altrimenti
c’è il rischio di finire strangolati per mezzo
delle nostre stesse mani. C’è un abisso dentro di
noi che si spalanca all’improvviso. È doloroso,
eppure affascinante e irresistibile, e il desiderio di sprofondarci
dentro, di esplorare, cresce, si fa sempre più allettante.
Ma bisogna, a un certo punto, voltarsi. Cambiare strada. Lasciare
l’abisso lì, imparare a conviverci.
L’unica, l’unica cosa che vorrei capire adesso,
è se ho il diritto di chiedere a Osamu di tornare indietro.
Marzo 2023
Sono al ristorante. Ci sono solo loro due, perché
è lunedì, e il lunedì il ristorante
è chiuso. Osamu, la lingua sciolta dalla birra, inveisce
contro una cliente con cui ha litigato il giorno prima.
Una parte di Keiji ascolta partecipe, scuote la testa allibita davanti
alla presunzione delle persone. L’altra parte di lui
è in estasi totale. La cucina di Osamu è
ultraterrena. Osamu è ultraterreno. Il ristorante solo per
loro due è ultraterreno.
E gli onigiri. Quegli onigiri sono inspiegabili. Si sciolgono in bocca,
arrivano dritti al cuore, ricuciscono, aggiustano. La cucina di Osamu
è balsamica. Osamu ha i superpoteri, Osamu è un
eroe.
Keiji si domanda se nel riso non ci metta la droga.
“Keiji,” lo chiama Osamu. “Mi stai
ascoltando?”
“Sì,” risponde la parte di Keiji attenta
e pronta.
“Allora perché stai sorridendo
così?”
Keiji torna immediatamente serio. Non se n’era accorto.
Scuote la testa, arrossisce un po’ e dice:
“è solo che sono troppo felice. Ti sto ascoltanto,
davvero, ma sono comunque troppo felice.”
“Perché ho litigato con una stronza?”
“Per tutto questo,” risponde Keiji senza pensare,
mimando un cerchietto con il dito. In quel cerchio ci sono gli onigiri,
il ristorante, loro due.
È solo che si è creata una zona sicura. Una bolla
di sapone calda e dorata, una scena dipinta ad acquerello. Keiji ci
rimarrebbe dentro per sempre, loro due mentre mangiano e bevono e i
problemi, il dolore, rimasti fuori. Non possono entrare. Il ristorante
di Osamu è un posto magico: lì dentro niente
può toccarli. All’ingresso
c’è un filtro, e quando un cliente spalanca la
porta per entrare e il campanello tintinna, la negatività,
la tristezza, la paura e l’autodistruzione rimangono
invischiate dentro quella ragnatela invisibile.
Il cibo di Osamu è in grado di rigenerare. Osamu
è un cuoco perché cucina, ma è anche
un sarto perché mentre mangi ti entra dentro e ricuce i tuoi
contorni sfaldati. La tua sagoma, un groviglio indefinito e
impiastricciato, torna ad assumere una forma familiare, una forma che
apprezzi, una forma in cui ti identifichi. Scorgi un luccichio sulle
mani che prima non avevi notato e scopri stupito e commosso che
dopotutto ti vuoi bene, che dopotutto sei stato bravo, che sei dalla
tua parte e fai il tifo per te stesso. Ti percepisci e ti scopri
prezioso. Osamu ti guarda e ti dice: stai andando benissimo.
Perciò per favore, sii più gentile con te stesso.
Da quando Keiji esce con lui, ha avuto il privilegio di scoprire che
Osamu gli restituisce le cose belle che ha perduto cambiando. Osamu
restituisce i sassolini e le conchiglie che Keiji collezionava da
bambino e che crescendo aveva finito col dimenticare.
“Perché mi guardi così?” gli
domanda Osamu, sogghignando.
Keiji sbatte le palpebre. “Così come?”
Osamu esita, poi risponde: “come se mi amassi.”
C’è un’impercettibile sfumatura di
speranza nella sua voce. Per un istante, Keiji pensa: ha ragione. Ma la
verità è che Keiji non sa cosa sia
l’amore. Keiji sa solo che è come se lo stessero
tagliando con delle forbici, strisciolina dopo strisciolina.
È tempestato da sensazioni violente. Pensa che per Osamu
sarebbe disposto a fare qualunque cosa, e poi pensa che non
è vero, che per lui non ha intenzione di fare niente, vuole
solo divorarlo. Guarda Osamu e si sente così affamato.
Affamato e insaziabile.
Keiji pensa: questo non
è amore.
Settembre 2021
Keiji sta bene.
È il compleanno di Bokuto. I suoi compagni di squadra gli
hanno organizzato una festa a sorpresa nella casa in campagna di Shion.
C’è anche Osamu, che cucina per tutti in giardino
aiutato da Atsumu. Keiji non riesce a staccargli gli occhi di dosso. E
non riesce a smettere di mangiare onigiri.
È piacevole. Piacevole e leggero. L’odore della
carne e del riso, le voci vibranti, colorate. Keiji scopre che ridere
è facile, che stare in mezzo agli altri è facile,
ed è come se in quel momento riesca a fare pace con il
tempo, integrandosi perfettamente all’interno della
realtà, sentendosi parte di un meccanismo composto da tante
persone. Fluisce fra gli altri e con gli altri come se fosse acqua.
Keiji sta bene, sta benissimo. Finché, a un certo punto, non
sta bene più.
Gli attacchi di panico sono imprevedibili e ultimamente arrivano di
frequente. Si manifestano all’improvviso, e in qualunque tipo
di situazione.
Keiji sta bene, sta ridendo, e a un certo punto la risata gli
s’impiglia nella gola, si paralizza. Più
l’ansia cresce e si dilata, più il corpo
s’intorpidisce. Le braccia formicolano. Sta perdendo il
controllo.
“Scusa un momento,” dice a Konoha, interrompendolo,
prima di voltarsi e andare verso l'interno della casa. Deve trovare un
luogo isolato e aspettare che passi. Non ha alcuna intenzione di dare
di matto fra tutte quelle persone e rovinare l’atmosfera
allegra.
Mentre si sforza di camminare normalmente, incrocia lo sguardo di Osamu
per un istante. Osamu gli sorride. Keiji non riesce a ricambiare e
prosegue dritto.
Keiji sale delle scale e si infila in una stanza da letto al piano di
sopra. È immacolata, ma l’aria sa di chiuso, come
se qualcuno non entrasse lì dentro da tempo. Keiji si chiude
la porta alle spalle e si accuccia per terra, cedendo al terrore che lo
ingoia.
Il suo corpo lo vomita via. Keiji si ritrova scaraventato fuori da se
stesso, incapace di muovere un muscolo.
Può solo aspettare che passi. E mentre aspetta, muore di
paura.
“Akaashi-kun?”
È la voce di Osamu. Keiji rimane in silenzio, ma Osamu lo
trova comunque.
Apre piano la porta, entra nella stanza, e poi lo vede per terra.
Osamu sgrana gli occhi. Keiji vede la paura strabordargli dalle pupille
“Attacco di panico,” sibila quindi con una voce che
non è la sua, prima che Osamu si metta a chiamare aiuto.
“Sto bene. Fra poco passa da solo.”
Osamu continua a fissarlo, esitante. Infine scrolla le spalle e si
siede per terra accanto a lui, chiudendo la porta.
Vattene,
pensa Keiji. E poi: ci
saranno almeno trenta persone in questa cazzo di festa.
Perché proprio tu devi vedermi così?
“Ogni tanto è capitato anche a me,”
confessa Osamu. Keiji si aggrappa alla sua voce, a quella distrazione.
“Poche volte, credo tre in tutto. E ho sempre chiamato Tsumu,
perché parlare con lui, ascoltarlo, mi faceva stare
meglio.”
Keiji annuisce. “Sì, aiuta.”
“Va bene se rimango qui? Puoi ascoltare me.”
Non devi rimanere,
pensa Keiji. Passerà
da solo fra poco.
Però gli dice: “grazie.”
Osamu accenna un sorriso. “Vuoi che chiami Bokuto o Kuroo? Li
conosci meglio, forse potrebbero-
“No,” lo interrompe Keiji. “Per favore,
non chiamare nessuno. Non voglio rovinare la festa.”
“Non rovineresti nessuna festa.”
“Non puoi saperlo.”
“Okay,” risponde subito Osamu. “Ma ti
è andata male. Perché quando inizio a parlare di
cucina non la smetto più.”
Keiji esala una risata annacquata, e Osamu comincia. Keiji stringe
forte quelle parole, un filo che lo guida all’interno di un
labirinto. Ci sono dei momenti in cui la disconnessione è
inevitabile, ma Osamu si accorge quando Keiji viene sopraffatto e
cambia tono, lo guarda negli occhi, gli sfiora il braccio per
ricordargli di respirare, sospingendolo verso la superficie.
Poi Osamu gli chiede come abbia trovato i suoi onigiri. E Keiji
risponde che sono i più buoni che abbia mai mangiato. E
riuscire a formulare una frase lo aiuta a rifocalizzare la
realtà, a ritornare dentro la sua stessa testa.
Il tempo passa, e l’ansia si affievolisce. Rimane solo una
sensazione densa, come se Keiji galleggiasse dentro la melassa, ma
è sopportabile.
“Grazie,” gli dice infine. “Sei
stato…
Keiji si interrompe. Osamu non dice niente.
“Grazie,” ripete Keiji.
Osamu sorride. “Va meglio?”
“Sì.”
“Sei sicuro?”
“Sono sicuro.”
Rimangono zitti nella luce soffusa della stanza. Keiji chiude gli occhi
e si crogiola nel silenzio. Gli piace il silenzio. È
confortevole. Confortevole ma anche elettrico, perché le
loro mani si sfiorano, e perché nessuno dei due si
è ancora alzato.
Osamu gli accarezza l’indice col suo. È un tocco
fugace e leggero, quasi inesistente, come se gli avesse soffiato piano
sulla pelle. Keiji apre gli occhi e si volta a guardarlo sorpreso.
Osamu ritira la mano.
“Dovremmo tornare dagli altri,” dice Osamu infine,
un po’ nervosamente. “Cioè, altrimenti
penseranno che stiamo scopando dentro la stanza della nonna di Inunaki,
o di chissà chi altro.”
Keiji lo guarda. Poi guarda la curva del suo collo, la camicia un
po’ sgualcita.
“Lo sai, forse potremmo farlo davvero.”
Osamu inarca le sopracciglia. “Fare cosa?”
Keiji lo bacia.
Dicembre 2022
Nel ristorante si diffonde una canzone che Keiji non riconosce. Il
testo è in inglese, perciò Keiji riesce ad
afferrare solo qualche parola, ma la melodia è passionale,
toccante, coinvolgente. Ha il ritmo frenetico e intenso di
un’ode: è una celebrazione.
“La canzone,” dice Keiji, sgranando gli occhi.
“È stupenda. Come si chiama?”
“Non ne ho idea,” risponde Osamu. “Ho
collegato le casse alla radio, magari il titolo ce lo dicono alla fine.
Altrimenti la cerco con qualche app.”
Keiji scuote la testa. “No, non importa. Balliamo?”
Osamu inarca le sopracciglia, sorpreso. Keiji è sorpreso
quanto lui, però si alza, sorride un po’
impacciato, e gli porge la mano.
Osamu scopre i denti in un sorriso, si alza pure lui, gli prende la
mano e gli stringe l’altro braccio attorno al fianco.
“Credevo che ballare non ti piacesse.”
“Infatti non mi piace,” conferma Keiji, mentre
Osamu gli accarezza il polso con il pollice. “Non so neanche
come si faccia. Mi andava e basta.”
Perché è una bella musica. Perché qui
dentro tutto diventa bello.
Cominciano a dondolare insensatamente fra i tavoli, tentando di seguire
il ritmo. Poi però i tavoli svaniscono e svanisce persino la
musica. Ci sono solo gli occhi di Osamu agganciati ai suoi. Che li
accarezzano, che ci si sciolgono dentro.
Keiji gli stringe le mani. Ha la sensazione di squagliarsi come burro.
Non pensa più a nulla, ascolta solo il fruscio dei loro
vestiti e delle scarpe sul pavimento, il respiro di Osamu, petto contro
petto.
E quel momento, quell’istante in cui i pensieri si
cancellano, in cui le parole si annullano, è qualcosa di
incredibilmente prezioso. Di prezioso e vero e primordiale, come se
Keiji sia tornato indietro nel tempo di centinaia di milioni di anni.
Tutto ciò che è stato costruito arbitrariamente
cessa di esistere. La realtà si sbriciola, strato dopo
strato, privandosi di tutto ciò che è fittizio e
orchestrato. I pensieri muoiono. Le parole muoiono. Rimane solamente
una tempesta di sensazioni ancestrali, ridotte sino all’osso,
alla loro essenza più vera, l’anima.
Keiji odia le parole. È una guerra continua e corrosiva. Le
parole vorticano, le parole tagliano come carta sottile, le parole sono
frammenti che devi mettere in ordine, costantemente. La comunicazione
è un puzzle perpetuo che devi risolvere in un battito di
ciglia se vuoi esprimere quello che davvero vuoi dire e se vuoi che
l’altra persona ti capisca, ma alla fine il risultato
sarà sempre fraintendibile, sempre incerto. La tua essenza,
trasposta a parole, diventa vaga e indefinita. Tu sei le parole che
dici ad alta voce e le parole non sono altro che tasselli dalle
molteplici sfumature che possono essere ricomposti e ordinati in modo
differente da chiunque ti ascolti. Tu, quando parli, puoi venire
compreso in maniera differente, e quindi diventare incompreso. Tu,
quando parli, diventi qualcosa di ambiguo. La profondità di
quello che sei, di quello che provi, non può essere espressa
nella sua interezza tramite parole, ma emergerà solo una
piccola parte di essa se sei fortunato. Non puoi esprimere
quell’intensità e quell’astrazione con
un mezzo concreto e semplice come quello del linguaggio. La tua
verità si trova imbottigliata dentro la tua testa e
rimarrà lì per sempre.
Le parole per Keiji sono come le scadenze: le sente incombere su di
lui, sono a un soffio dal crollargli rovinosamente addosso. Le parole
prima o poi lo schiacceranno. Lo stanno già facendo.
E questo è il motivo per cui Osamu delle volte non gli
sembra neanche reale. Perché con Osamu, delle volte, spesso,
le parole non servono. Tutto si riduce all’essenza
dell’anima. Anzi, non si tratta di una riduzione, quanto
piuttosto di un’evoluzione intensa, repentina, violenta.
Keiji si libera di tutto quel peso che grava sulle sue spalle,
più pesante del cielo, di tutta quella leggerezza che lo
rende labile e pericolante, e diventa invece vero. Osamu capisce con
esattezza quello che Keiji prova perché lo sente dentro,
nella carne, e per Keiji è lo stesso: sente con chiarezza
che Osamu capisce quello che prova, lo vede riflesso nel suo viso, vede
la gioia, vede la felicità, come se Keiji entrasse dentro
gli occhi di Osamu e gli abbracciasse le pupille, lo abbracciasse da
dentro. C’è l’intimità, e
l’intimità non ha bisogno di essere spiegata a
parole, l’intimità non vuole le parole, le ripudia
perché sono un velo, sono una deviazione, una distorsione
della verità di quello che Osamu e Keiji sono.
Keiji si abbandona a quella sensazione. Si abbandona a quella marea
densa e dolce e salata in cui rimane solo l’interezza. Ci
sono solo la musica e il suono del loro respiro e dei loro passi sul
pavimento lucido. Keiji e Osamu respirano e si stringono forte le mani
e si guardano negli occhi e galleggiano sull’acqua, sospinti
dalla corrente.
Eppure a un certo punto finirà. La corrente
continuerà ad attraversare l’oceano e loro
finiranno arenati su un’isola deserta. E rimarranno immobili,
in piedi, le labbra secche e gli occhi rossi, aspettanto che una nuova
marea torni a prenderli.
Novembre 2022
Silenzio.
Silenzio, e il respiro di Osamu che oscilla nel buio, che batte il
tempo.
Keiji ha gli occhi aperti, e aspetta che le pupille si abituino alla
notte. Percepisce la schiena di Osamu contro il suo viso, la sua pelle
contro le labbra, il suo odore. Keiji è al buio ed
è praticamente cieco, eppure la schiena di Osamu potrebbe
disegnarla a memoria.
Vuole toccarla. Vuole accarezzarla con le dita e affondargli i denti
nelle spalle ampie mentre gli conta le vertebre, una per una. Poi
vorrebbe accarezzargli il fianco e poi la coscia e mettergli la mano in
mezzo alle gambe. Ma si trattiene, perché il respiro di
Osamu è il respiro placido di quando è
addormentato. E Keiji sa che Osamu non dorme tanto, che non dorme quasi
per niente, perciò si impone di rimanere immobile e
respirare piano.
Prova a respirare adeguandosi al suo ritmo. Lo impressiona sempre
constatare quanto sia complicato per lui seguire il respiro di Osamu.
Osamu fa respiri densi e ampi, con pause prolungate. Keiji si sforza di
emularlo, ma verso la fine di ogni pausa va in apnea per qualche
istante. Keiji ha bisogno di respirare prima. Il ritmo del suo respiro,
almeno da sveglio, è più celere, nervoso, come se
avesse paura di qualcosa. Osamu invece è come se andasse a
fondo, come se ogni respiro non si limitasse a consegnare solo ossigeno
al sangue, ma anche qualcos’altro, qualcosa di pesante e
iridescente come l’anima. Osamu è saldo, ha radici
penetranti e ramificate, non crollerà. Keiji invece
è la foglia secca in balia delle risate del vento.
Le pupille si sono abituate all’oscurità. Ora
riesce a distinguere l’ombra della schiena di Osamu, la sua
sagoma distesa accanto a lui.
C’è qualcosa di Osamu che gli fa perdere
completamente la testa. La sua ragione si annulla, implode, e dentro
Keiji si riversa un oceano costituito solo da fame, una fame feroce e
irragionevole che lo spinge a desiderare il corpo di Osamu,
l’anima di Osamu, solo per lui. Keiji la vuole vicina, la
vuole dentro, vuole che gli appartenga. E delle volte baciarlo non
basta, mordergli il collo non basta, succhiarglielo non basta, farsi
scopare forte non basta. Se potesse, Keiji ingoierebbe Osamu intero.
Anzi, vorrebbe che fosse Osamu a ingoiare lui.
Keiji vorrebbe solo sprofondare dentro Osamu come un sasso nel mare.
Andare sempre più giù mentre intorno a lui si
materializzano stelle e fulmini e riecheggia la musica. Keiji
ballerebbe sprofondando, felice di essere chiuso a chiave dentro al
corpo di Osamu.
Maggio 2023
“Ti amo,” gli dice Osamu all’improvviso.
Stanno passeggiando per il centro di Osaka. Keiji si blocca in mezzo
alla strada. Una ragazza sbatte contro la sua schiena. Keiji non chiede
scusa.
“Cosa?”
Osamu scrolla le spalle. “Ho detto che ti amo.”
Nella folla le parole di Osamu sembrano scaturire via da un sogno. Le
lettere si disgregano, si disperdono come una nuvola di farfalle. Keiji
perde il senso della realtà. Lo sguardo serio di Osamu,
però, è una pugnalata, una secchiata di acqua
fredda che lo agguanta per il colletto della maglia.
Ha detto che mi ama.
Devo dirglielo anche io.
Ma quel dovere è una ghigliottina. Quel ti amo di Osamu
improvviso pesa come l’ennesima scadenza indesiderata. Keiji
si sente tradito.
“Non devi dirmelo anche tu,” si affretta ad
aggiungere Osamu. “Volevo solo… non lo so, volevo
solo che lo sapessi.”
Non dovrebbe sentirsi così. Terrorizzato come una preda
all’angolo. Dovrebbe essere felice da scoppiare. Dovrebbe
soltanto essere grato che una persona come Osamu abbia scelto di amare
qualcuno come lui.
“Keiji,” gli dice Osamu. “Non
impanicarti, per favore. Non importa che tu lo dica o meno, mi piace
stare con te a prescindere.”
Poi Osamu sorride. È rassicurante, è un sorriso
che emana solo luce.
Ma Keiji oramai ha imparato a vedere. Ha imparato a distinguere le
diverse sfumature di luce dentro i suoi occhi. Perciò Keiji
discerne chiaramente il cuore di Osamu raggomitolarsi su se stesso come
un gattino stanco. Sente il rumore del vetro che si incrina.
È terrificante quanto l’amore sia fragile, quanto
renda fragile gli esseri umani. Osamu, temprato come
l’acciaio, adesso potrebbe sbriciolarsi con un soffio come
cristallo. Basterebbe una parola di Keiji, una avvelenata, per
ucciderlo sul colpo.
Keiji capisce in quell’istante la reale portata del potere
che detiene. Ed è così spaventosa. Fatale. Non la
vuole.
Novembre 2023
Silenzio. È notte e Osamu è sveglio. Keiji lo sa
perché il suo respiro è leggero, tocca piano il
buio come se ne avesse paura.
Keiji rimane immobile e spera che Osamu non parli. Spera che rimanga in
silenzio come lui, fingendo che tutto vada bene. Ma Osamu è
diverso.
“Keiji,” lo chiama Osamu sottovoce,
perché anche lui conosce il respiro di Keiji quando dorme.
“Non ti piaccio più?”
Gli viene da ridere, e poi gli viene da piangere.
Certo che mi piaci,
vorrebbe dirgli. Certo che mi piaci, ma
Il problema è ciò che segue quel
‘ma’. Il problema sono le parole e i pensieri e la
sua testa, che non riescono a descrivere quel gorgo denso e angosciante
che c’è dopo il ‘ma’. Se Keiji
fosse in grado di descrivere con esattezza quello che prova, non ci
sarebbero problemi. Se Keiji fosse in grado di comunicare nella stessa
maniera cristallina di Osamu, la loro relazione continuerebbe a essere
un pilastro fisso e stabile, un faro di luce, e non quella costruzione
di cristallo tremendamente fragile e pericolante. Osamu prova a
raddrizzarla, a ripararla, a saldarla, ma Keiji distrugge. O meglio,
più che distruggere, Keiji semina dubbio e insicurezza, ogni
suo passo crea una tela fitta di crepe sottili ma profonde.
Quanto è difficile trovare le parole esatte? Quanto
è difficile trovare la parola esatta, con la sfumatura
perfetta, collocarla nel giusto ordine in modo tale che
l’altra persona riesca a cogliere un briciolo di
verità in quella sequenza arbitraria di suoni?
Dov’è il collegamento? Come possono le parole
riuscire a portare a galla, anche solo in minima parte, la
verità dell’anima?
Per Keiji è inconcepibile. Per Keiji è
impossibile, e per questo non riesce a capire neanche lui cosa
c’è dopo quel ma. Cos’è
quella sensazione burrascosa e opprimente, quella specie di matassa
appiccicosa e impermeabile, nascosta lì, sotto le costole?
Quel peso insostenibile eppure talmente leggero da risultare invisibile?
“Keiji. Ci sei?”
Keiji chiude gli occhi. Spera che il buio lo inghiotta. Che il buio lo
trascini lontano, come un buco nero, il fiume dell’oblio in
cui tutto è uguale e non si può sentire
né ascoltare né vedere niente.
L’annullamento dei sensi. Keiji vorrebbe essere trascinato
giù brutalmente, contro il suo volere, vorrebbe che qualcuno
lo prendesse per il collo e gli ficcasse la testa sott’acqua
tenendola ferma fino a farlo morire. Soltanto così avrebbe
una giustificazione. Soltanto così potrebbe dire: non
è colpa mia, non è colpa mia, non l’ho
deciso io di non riuscire a parlare, di non riuscire a dirti quello che
provo.
E invece è colpa sua. Perché non
c’è nessuno che lo sta affogando. È
Keiji che sceglie di tenere la testa sott’acqua
costantemente, di non vedere né sentire niente. Keiji
è un codardo. Keiji ha paura di tutto. Keiji sente la
matassa pesante e leggera di indefinito che gli riveste le ossa, che le
strangola. E c’è un ticchettio irregolare, il
ticchettio di qualcosa che è rotto, che assomiglia agli
occhi delle bambole quando si chiudono, alle chele di un granchio.
“Lo sai,” continua Osamu, “non sei
obbligato a stare con me. E se non ti piace più quello che
abbiamo, se non ti piaccio più io, va bene. Ma devi dirmelo.
Perché non posso leggerti nella mente, non ho ancora i
superpoteri.”
Keiji non risponde. Il corpo paralizzato. Non sa che dire, la testa
è svuotata, c’è solo la voce di Osamu e
tutta la tristezza e la paura che trapassano dal suo tono. E
c’è l’incapacità di Keiji di
esprimere se stesso, il rifiuto di guardarsi dentro. Codardo. Crudele.
Keiji abbraccia l’apatia che gli anestetizza la lingua. La
mente fluttua. Keiji è un cadavere. Keiji vuole essere un
cadavere, un bozzolo vuoto.
“Keiji?”
Keiji vorrebbe esplodere. Vorrebbe mettersi a urlare che ci tiene, ma
la polvere da sparo è troppo umida, troppo lontana,
recondita, estranea, cementificata dall’ansia, dalla
stanchezza. Non ha ossigeno, non c’è fuoco.
Vorrebbe piangere, perché piangere significa tenerci. Se
singhiozzasse Osamu capirebbe, vedrebbe una manifestazione concreta
della sua verità dell’anima. Ma Keiji non piange.
“Io lo so che delle volte per te parlare è
difficile. Lo capisco. Ma ci devi provare, ci dovrai riuscire prima o
poi, perché io non posso andare avanti
così.”
Silenzio.
Osamu sospira. Clic-clac. Orologi e occhi di bambole che sbatacchiano,
chele di granchio.
Keiji gli cerca le mani. Le stringe forte e se le porta sulle guance.
Le stringe forte forte.
Ti prego, non te ne
andare. Ti prego, scusami, scusami se non riesco a dirti quello che
sento, ma ti giuro che dentro sono paralizzato.
Osamu stringe di rimando le sue mani.
Keiji non si merita niente di tutto questo.
Diario di Keiji, 20
maggio 2023
Mi sento così pieno. Pieno e sovraccarico, come se qualcuno
mi tenesse la bocca aperta e ci vomitasse dentro, continuamente.
Si tratta del lavoro. È colpa delle scadenze, della lista
delle cose da fare che si allunga e del tempo che non è mai
abbastanza, eppure non si tratta soltanto di questo.
C’è qualcos’altro, qualcosa di
intrinseco, che mi incatena e mi pietrifica, e anche semplicemente
alzarsi dal letto richiede uno sforzo sovrumano, come se dovessi
sollevare il cielo.
Osamu è quello che sta pagando le spese di questa specie di
accidia mischiata allo sfinimento. Perché io mi sono chiuso
nel mio silenzio, e Osamu è quello che ancora una volta deve
impegnarsi a trovare le parole che io non riesco a dire. La nostra
relazione oramai è diventata come il gioco
dell’impiccato, spazi vuoti che Osamu deve riempire tirando a
indovinare.
Mi manca. Mi manca eppure non rispondo neanche al telefono se mi
chiama, perché ogni volta che apro bocca
c’è soltanto il vuoto dentro la mia testa.
È come se mi stesse per scoppiare il corpo, come se mi
stessi per scucire perché sento troppe cose. Eppure,
nell’esatto momento in cui provo ad esternarle, queste mi
sfuggono, si nascondono, affogano da qualche parte.
L’altra volta Osamu ha detto che mi ama. Ed è
vero, lo vedo, lo sento, perché se non mi amasse non
sprecherebbe le sue giornate a tentare di decifrarmi. Non sceglierebbe
di rimanere con me quando lui mi dà così tanto, e
io non riesco a restituirgli nulla in cambio. Non si tratta solo di
egoismo. Io non sto risucchiando solo lui, ma sto risucchiando anche me
stesso, è nichilismo puro.
Quando me l’ha detto, la prima sensazione che ho provato
è stata paura. E mi vergogno di dirlo, mi vergogno
così tanto, lo so che dovrei solo essere felice, ma quel
‘ti amo’, quell’amore palesato in maniera
così diretta e trasparente, mi ha terrorizzato. Mi ha
terrorizzato perché io non sono in grado di fare lo stesso.
Io non sono in grado di amare qualcuno in maniera così
genuina, perché sono una brutta persona. E non si tratta di
autocompatimento, è la verità: sono egoista,
vigliacco e crudele, mentre Osamu è tutto il contrario.
Osamu cura, restaura, aggiusta, io brucio e prendo quello che mi serve
perché mi sento disperato.
Voglio stare con Osamu. Voglio stare con lui e mi manca da morire, ma
lo voglio e mi manca perché lo amo o perché ne ho
bisogno? La linea è sottile. O forse non è
sottile, forse la differenza è netta, sono soltanto io che
mi rifiuto di distinguerla perché non voglio ammettere a me
stesso che forse, da parte mia, non c’è mai stato
niente di vero o di genuino, ma solo sfruttamento. Forse l’ho
usato perché mi sento solo. Forse l’ho usato
perché mi può dare quello di cui ho bisogno. E se
così fosse, io non mi devo azzardare a parlare di amore.
Forse quello che conta di più nel mio piccolo, insulso mondo
sono io. Io e il mio lavoro, io e i miei progetti, io e le scadenze dei
miei progetti. Io gravito intorno a me stesso. Tutto ciò che
non è per me o non riguarda il mio lavoro, diventa
secondario. E mi piacerebbe definirlo come un senso di
responsabilità estremo, ma la responsabilità
è un concetto positivo e caldo - Osamu è
responsabile - mentre io, dentro me stesso, percepisco solo ghiaccio.
La verità è che trascurarsi è facile,
ma è molto più facile trascurare gli altri.
È molto più facile sbatterli fuori dalla tua
vita, è molto più facile essere egocentrici,
essere menefreghisti, essere pigri.
Credevo di aver bisogno di tempo, credevo che prima o poi sarei
riuscito a comprendere il suo ritmo febbrile e caotico, agganciarmi a
una lancetta e diventare parte di questo gigantesco orologio che ci ha
ingoiato tutti. Ma la verità è che non
l’ho fatto, che qualcosa dentro di me è rotto, e
non riesco a incastrarmi da nessuna parte.
Non ha senso. Vivo come se un mio fallimento possa determinare la fine
del mondo. Ma è un concetto totalmente insensato,
perché il mondo non smetterà di girare se non
rispetto una scadenza a lavoro. Questa enorme pressione che ci
autoinfliggiamo è narcisismo allo stato puro,
perché nessuno di noi è così
importante. Letteralmente: non siamo un cazzo di nessuno. Possiamo
permetterci di andare piano o di fermarci del tutto, perché
il tempo continuerà a girare impassibile anche se noi ci
tiriamo indietro.
Eppure, nonostante razionalmente lo capisca, la sensazione che qualcuno
continui a vomitarmi piombo in bocca non accenna a svanire. E sono
sempre più pesante, e voglio sempre più
solitudine, e voglio Osamu ma forse lo voglio perché mi
è utile.
C’è questo ticchettio che risuona perennemente,
persino mentre dormo. Il ticchettio della vita che prosegue e che mi
ricorda che sono ancora fermo, che sono ancora indietro, che
sarò sempre più indietro, come un allarme che si
intensifica.
E il tempo non basta mai. Non basta mai. Eppure il tempo è
uguale per tutti, anche per Osamu, che riesce a mandare avanti un
ristorante da solo, che è occupato sedici ore al giorno e
che nonostante tutto riesce a vedermi, a chiamarmi, a farmi sentire
così importante.
Non riesco a pensare ad altro se non al momento in cui si
stancherà. Perché lo farà, prima o
poi, perché per quanto possa capire i miei problemi, per
quanto sia bravo a entrarmi dentro la testa, a riempire i vuoti, prima
o poi capirà che non ne vale la pena.
Luglio 2022
Sono a casa di Osamu, sul suo divano. Stanno vedendo Ratatuille.
È il film preferito di Osamu, lo conosce a memoria. Anche a
Keiji piace, ma più che il film gli piace
l’espressione serena di Osamu mentre lo guarda. Sono nella
loro bolla. Osamu gli tiene la mano, ogni tanto la stringe, ogni tanto
l’accarezza.
Keiji lo guarda e pensa che qualcosa in Osamu non funzioni. Osamu
continua a vedere dentro Keiji qualcosa che non esiste. Per questo lo
abbraccia, per questo lo accarezza come se fosse la cosa più
preziosa dell’universo, perché Osamu vede una
bugia e ha deciso di credere che fosse sincera.
Keiji dentro di sé custodisce il peso di quella menzogna. E
sa che prima o poi finirà per proiettarglielo addosso, sullo
stomaco, e Osamu capirà. Keiji può solo sperare
che accada il più tardi possibile.
Keiji poggia la guancia contro la sua spalla. Sente il suo odore, e
comincia ad accarezzargli l’addome, e a giocare con
l’elastico della tuta che indossa.
“Keiji,” sibila Osamu. “Hai promesso. Non
durante Ratatuille.”
Keiji gli infila la mano dentro i pantaloni. Osamu chiude gli occhi e
soffia.
“Puoi continuare a vedere il film,” mormora Keiji,
abbassando il viso.
“E tu?”
“Te lo succhio,” risponde Keiji, la bocca sulla
stoffa dei pantaloni. “E ascolto i dialoghi.”
Osamu scoppia a ridere.
“Stai davvero per farmi un pompino mentre mi vedo
Ratatuille?”
Keiji annuisce fra le sue gambe, la testa leggerissima,
l’odore di Osamu sulle labbra.
Osamu gli conficca le unghie nelle braccia.
“Delle volte non posso credere che tu sia reale.”
Keiji sorride.
Infatti non sono reale.
Sono solo pieno di bugie. E spero che non le scoprirai mai.
Gennaio 2024
È notte. Sono al buio completo, nel letto a casa di Keiji.
Non si toccano, non si sfiorano nemmeno. Nessuno dei due dorme.
Keiji sente un orologio. Sente il ticchettio delle lancette, il rumore
del tempo che sta per scadere.
Serra le palpebre. Spera che quella notte scivoli via, che sorga il
sole in fretta, perché magari la luce scaccerà
via quell’angoscia che si dimena lì con loro, fra
le lenzuola. Il presagio di un cambiamento imminente bussa alla porta.
E porta con sè sofferenza, Keiji lo sa, esattamente come sa
che è inevitabile.
Né lui né Osamu devono parlare. Non si devono
neanche toccare. Devono rimanere immobili come se fossero stati
tramutati in pietra, perché sono le parole, i gesti e la
voce a veicolare il cambiamento, a permettergli di insinuarsi dentro di
loro.
Finché restano immobili, il cambiamento non avrà
niente a cui aggrapparsi. Non potrà toccarli.
Ma poi Osamu parla. Parla e spalanca la porta alla catastrofe.
“Keiji,” dice. “Non ce la faccio
più.”
Keiji vede il buio. Vede più buio del buio della stanza.
Vede il buio e ingoia la rabbia, perché Osamu sapeva, sapeva
che sarebbe dovuto rimanere in silenzio, sapeva che
l’immobilità era l’unico luogo in cui
nascondersi, in cui rimanere acquattati come prede ad aspettare che la
minaccia passasse. Eppure Osamu ha scelto di parlare. Li ha condannati
a morte.
“Non ce la faccio più,” ripete.
Sì che ce la
fai, vuole dirgli Keiji. Sì che ce la fai, che
ce la facciamo. Troveremo un modo. È colpa mia, è
colpa mia, e sistemerò tutto, te lo giuro, ma devi darmi
un’altra possibilità. Devi farlo. E devi smetterla
di parlare adesso.
Keiji vuole dirgli tutto questo. Ma in gola, come una marea, si
materializzano sensazioni veementi e nauseanti, scaraventandosi
l’una contro l’altra. Paura, disperazione,
supplica, rabbia, crudeltà, senso di colpa. E poi,
cristallino, Keiji riesce a distinguere e a isolare un solo pensiero.
Non ne ho il diritto.
Non ho il diritto di chiedergli di farmi riprovare.
Osamu sospira affranto. Poi si muove.
Fermati. Fermati e
fa’ silenzio. Dobbiamo rimanere immobili, immobili e
nascosti.
Ma i vestiti frusciano, la lampadina si accende. Osamu si alza dal suo
letto.
“Dove vai?” domanda Keiji atterrito, la voce
rotta.
“A casa,” risponde Osamu. “Non posso
rimanere qui. Ti amo tantissimo Keiji, davvero. E delle volte penso
solo a quanto cazzo sia ingiusto che io ti amo e tu no. Ma succede, la
merda capita, la vita capita. E non è colpa tua. Amare o non
amare qualcuno, non è una cosa che puoi scegliere. Ma non
posso restare con te. E tu non puoi costringermi a farlo,
perché non sei uno stronzo. Però sei triste. E
sono triste anche io.”
Keiji lo fissa stralunato mentre si riveste.
No, pensa. Non voglio. Non ce la faccio.
Non posso perderti. Ho bisogno di te. Se te ne vai, io muoio.
Keiji gli afferra il polso.
“Lascia.”
Lo sguardo di Osamu luccica e brucia.
“No,” risponde Keiji. “Ti prego. Ho solo
bisogno di altro tempo. Per capire-
“Cosa?” gli domanda Osamu, arrabbiato.
“Che c’è da capire? L’amore
non è un cazzo di puzzle impossibile, Keiji. Non
c’è niente di complicato. Io ti amo e tu no.
Smettila di provare a convincerti e a convincermi del contrario. Stai
solo facendo del male a tutti e due. Lascia.”
Ma Keiji non lascia. Stringe più forte la presa.
Mi dispiace. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.
Osamu ringhia e si libera con uno strattone. E poi va via.
Ottobre 2021
Il primo appuntamento con Osamu è strano. Keiji non si
aspettava di sentirlo di nuovo dopo il compleanno di Bokuto. Credeva
che di solito le persone con cui lo fai di nascosto alle feste di
compleanno scomparissero, invece Osamu non soltanto si fa risentire, ma
lo invita al cinema, e poi a bere birra in un izakaya a Osaka.
A Keiji non sembra neanche possibile, di essere lì, a
sgranocchiare takoyaki mentre Osamu gli parla, la testa sempre
più leggera. È la classica cosa che sembra troppo
bella per essere vera. Però è reale, è
lì.
Poi Osamu lo accompagna alla stazione. E mentre aspettano, Keiji prova
a nascondere un sorriso.
Annunciano il suo treno. Osamu lo guarda e gli dice: “lo sai,
potresti restare da me.”
Sembra un po’ imbarazzato. Lo guarda negli occhi, poi
distoglie lo sguardo, e poi torna a guardarlo negli occhi. Keiji lo
trova tenero. Gentile. Ha voglia di infilargli le mani nelle tasche
della giacca.
Scuote la testa.
“Vorrei,” risponde. “Ma ho del lavoro che
devo finire entro domani mattina.”
Osamu lo guarda impressionato. “Perciò adesso vai
a casa e ti metti a lavorare?”
“Non farmici pensare.”
Poi tocca a Keiji distogliere lo sguardo, puntarlo sui binari vuoti
davanti a lui. “Possiamo fare la prossima volta.
Cioè, se ti va.”
Mentre arrossisce, Keiji si chiede se non abbia fatto il passo
più lungo della gamba. Forse Osamu non ha la minima
intenzione di rivederlo.
“Certo che mi va,” risponde subito Osamu, senza
esitare. “Sono stato… uhm, molto bene. Dobbiamo
decisamente rifarlo.”
Keiji trova la situazione estremamente imbarazzante, ma è
quel tipo di imbarazzo bello, quel tipo di imbarazzo che ti fa
sorridere come uno scemo.
Poi il treno arriva. Keiji guarda Osamu, che esita un istante e poi gli
sfiora la guancia con le dita, facendole scivolare dietro
l’orecchio. È una carezza fugace e leggerissima,
eppure è così intima. Keiji sente il tepore delle
dita di Osamu pulsare sulla sua pelle pure se ha tolto la mano
già da un pezzo.
Keiji sale sul treno. Il treno parte.
Alla prima stazione, Keiji scende. Chiama Osamu e gli dice:
“ciao, ho cambiato idea. Mi aspetti?”
E Osamu lo fa. Keiji sale il primo treno che trova e torna indietro.
Osamu lo aspetta sui binari con un sorriso spalancato.
L’audacia gli brilla negli occhi.
"Cos’è che ti ha fatto cambiare idea?" domanda
compiaciuto.
"Non lo so, forse hai i superpoteri o qualcosa del genere," risponde
Keiji. "In più sto morendo di fame, e mi hanno detto che tu
sei bravo a cucinare."
"Non solo bravo. Sono il migliore. Ma come fai con le scadenze per
domani?"
Keiji riflette per un istante. Poi solleva la mano e gli sfiora il
collo e l’orecchio nello stesso modo leggero in cui Osamu ha
fatto prima.
"Non me ne frega."
Agosto 2024
Il telefono squilla. Keiji sobbalza e prova a ignorare la delusione che
gli sputa in faccia quando sullo schermo non compare il nome di Osamu,
bensì un numero sconosciuto. Keiji soppesa la
possibilità di non rispondere, ma forse si tratta di una
chiamata di lavoro, perciò si arrende e dice:
“pronto?”.
“Kaashi-kun.”
Keiji strabuzza gli occhi. È Osamu, pensa per un istante. Il
forte accento del Kansai è inequivocabile. Ma
c’è quella sfumatura irrisoria e un po’
spaccona che Keiji non ha mai sentito addosso alla sua voce.
“Miya-san? Atsumu-san?”
“Indovinato,” risponde l’altro. Keiji lo
sente sorridere.
Questo è
strano, pensa.
“È successo qualcosa?” si affretta a
domandare Keiji, allarmato.
“Niente di nuovo, se è questo che intendi. Ieri
abbiamo vinto contro la EJP Raijin.”
“Lo so, me l’ha detto Bokuto-san. Hai bisogno di
qualcosa?”
“Volevo solo chiederti come stavi.”
Keiji rimane zitto. Non ha mai avuto un rapporto particolarmente
stretto con Atsumu. Non perché non gli piaccia, ma
perché le occasioni sono sempre state poche e
perché né Keiji, né Atsumu, hanno
sentito il bisogno di approfondire la reciproca conoscenza.
Perciò sì, è decisamente strano.
“Bene,” risponde infine Keiji, incerto.
“E tu?”
“Pure,” risponde Atsumu.
“Okay.”
“Okay.”
Keiji sta per mandarlo al diavolo - perché l’ha
chiamato? è una specie di scherzo? - ma si impone di
rimanere educato. Aspetta in silenzio finché Atsumu si
schiarisce la gola.
“Senti, lo so che non sono cazzi miei. Ma perché
vi siete lasciati?”
Fanculo
l’educazione, pensa Keiji, prendendo fuoco.
“Decisamente non sono cazzi tuoi,” sibila.
“A malapena mi conosci.”
Atsumu ride sguaiatamente dall’altra parte del telefono.
Quella è una di quelle rarissime volte in cui Keiji ha
voglia di tirare un pugno in faccia a qualcuno.
“Andiamo, ‘Kaashi-kun. Voglio solo capirci di
più. Mi dispiace vedere ‘Samu
così.”
Così come?
“Perché non chiedi a lui? È tuo
fratello.”
“L’ho fatto. Ma ci sono sempre due
versioni.”
“Non in questo caso,” risponde Keiji.
“Qualunque cosa Osamu ti abbia detto, è vera. Ha
ragione. Non gli ho mai dato niente. Ho solo preso. Sono stato un
ingrato ed egoista pezzo di merda.”
Silenzio.
“Io ho sentito una storia diversa,” dice Atsumu.
Keiji sbuffa rumorosamente. “Ah sì?
Illuminami.”
“Osamu mi ha detto che stai passando un brutto momento e che
l’ingrato egoista pezzo di merda è stato proprio
lui. Mi ha detto che ti ha lasciato solo proprio quando avevi bisogno
di più aiuto.”
Keiji sbatte le palpebre. “Cosa?”
“Mi ha detto che non ha il diritto di chiederti scusa. Crede
che ti abbia rovinato la vita, o qualche stronzata del genere, che non
se lo perdonerà mai, eccetera eccetera.”
Keiji sbatte di nuovo le palpebre. Il pavimento sotto di lui dondola.
“Cosa?”
“Te l’ho detto. Ci sono sempre due
versioni.”
Keiji rimane muto e sconvolto. Non è possibile.
“Posso dirti una cosa?”
Keiji esita, poi annuisce. “Fa’
pure.”
“Non sei una brutta persona, Kaashi-kun.”
“E come lo sai?”
“Lo ami anche tu. Semplicemente avete due modi diversi per
farlo. Ti ricordi quando Samu è rimasto senza cameriere e ti
sei offerto di fare i turni finché non avesse trovato
qualcun’altro? È finita che sei rimasto al
ristorante per quasi due mesi, nonostante il lavoro e tutta la tua roba
da correggere. Ti ricordi quando gli hai comprato un biglietto per
Napoli semplicemente perché ti ha detto che voleva mangiare
una vera pizza? O uno per Rio perché voleva assaggiare la
Feijoada?”
Keiji annuisce. Se lo ricorda.
“L’hai sempre ascoltato. L’hai sempre
incoraggiato. Lo so che pensi di non esserci mai stato per lui, troppo
preso da te stesso. Ma non è vero. Non è vero
perché lo so, perché me l’ha detto
‘Samu, perché ogni volta che stava male o era
stanco, mi diceva ‘meno male che c’è
Keiji’. Io non lo so perché nella tua testa ti
vedi come un mostro o come la causa di tutte le sofferenze di mio
fratello, e probabilmente non lo sa neanche lui, ma credimi, non lo
sei. E mi dispiace distruggere i tuoi deliri di onnipotenza, ma tu non
sei una persona crudele, o difficile, o irrecuperabile. Avete avuto una
crisi, ma beh, è una cosa che capita a tutti, è
capitato anche a me. E so che il modo in cui ama Samu può
spaventare, ma è semplicemente il suo modo di fare le cose.
Non significa che tu lo ami di meno o che non lo ami affatto.”
Keiji sente gli occhi che bruciano. Si impone di ricacciare indietro le
lacrime. Non riesce a credere di star per scoppiare a piangere mentre
parla al telefono con Atsumu Miya. È surreale.
“Kaashi-kun? Ci sei?”
“Sì,” risponde Keiji. “Ci
sono. Solo che non so cosa dire.”
“Potresti iniziare con un grazie.”
“Grazie.”
“Potresti anche dire che sono il miglior alzatore sulla
faccia del pianeta e che sono più bello di mio
fratello.”
“Potrei, ma non lo farò.”
“Chissenefrega,” risponde Atsumu, schioccando la
lingua. “Tanto sono cose che so già, non ho
bisogno che tu le dica ad alta voce. Credo solo che tutta questa
stronzata della rottura sia molto, molto stupida.”
Keiji esala una risata annacquata. “Sì, forse hai
ragione. Posso chiederti una cosa?”
“Spara.”
“Hai detto detto che è capitato anche a te. Con
chi?”
Atsumu ride.
“E perché dovrei dirtelo? A malapena ti
conosco,” risponde, rifacendogli la voce.
Keiji sorride.
Lettera a Osamu, 3
ottobre 2024
Cosa significa amare qualcuno?
Ci ho pensato. Lo so che per te penso troppo e che l’amore
è una cosa che avviene spontaneamente, non qualcosa da
vivisezionare. E ti giuro che quello che abbiamo avuto, almeno per me,
è stato vivo e irrefrenabile. Tu mi hai agguantato e io mi
sono lasciato travolgere con tutto me stesso. Ma dovevo capire. Dovevo
capire se per te sarei andato bene, o se al contrario avrei finito solo
col farti del male.
Mi hanno detto che non esiste un solo modo di amare. E credo che sia
vero, credo che esistano diversi tipi di amore propri di ogni persona e
relazione. Perciò amare te, amare specificatamente Osamu,
è qualcosa di irripetibile, di mai visto prima e di
esclusivo,perché non esiste nessuno come te e nessuno come
me. Ma questa esclusività, almeno ai miei occhi, lo rende
difficile da capire. Non posso paragonare quello che abbiamo avuto noi
a quello che ho avuto con un’altra persona. Quello che
c’è stato fra noi, quello che
c’è ancora per me, è complesso,
imperscrutabile e profondissimo. Cresce, diventa bollente, diventa
gelido, è un bozzolo da cui è difficile estrarre
la verità. Ed è proprio la verità che
ho provato ad afferrare. Perché verità e bugia,
proprio come leggerezza e pesantezza, sembrano due concetti opposti,
eppure sono uniti, sfumano l’uno nell’altro e
diventa difficile riconoscerli.
Per te non è difficile. Tu sei sempre stato sincero. Il tuo
modo di amare è trasparente. Tu riesci ad amare pienamente,
e lo fai con la stessa facilità con cui respiri. Ma io non
sono come te: per me, capire se ti amassi davvero o se avessi solo
bisogno di te è stato difficilissimo.
Io sono egoista. Sono egoista e ho bisogno di te. Ho bisogno di te
perché sono felice quando stiamo insieme. Ho bisogno di te
perché da quando ci siamo lasciati mi sento vuoto, o meglio,
mi sento pieno di vuoto. Quello che hai, quello che sei, il modo in cui
vivi la realtà, la gentilezza con cui la tocchi, sono
diventati fondamentali. Mi servono. Non mi bastano più solo
i miei occhi, o solo le mie mani. Ho bisogno di te, di te intero, corpo
e ombra, ho bisogno di parlarti, di ascoltarti, di abbracciarti, di
toccarti, di esistere all’interno di una scatola stretta con
te vicino.
Queste necessità, questo desiderio insaziabile, mi
terrorizzano. Mi terrorizzano perché mi fanno capire la
portata del mio egoismo. E mi terrorizza anche pensare che, prima o
poi, il mio egoismo finirà per inghiottirti e per farti del
male. Ma è proprio quest’ultimo terrore a farmi
pensare che forse non c’è solo egoismo dentro di
me. Non può essere solo egoismo, perché se lo
fosse stato ti avrei mangiato e basta. Invece mi sono fermato. Mi sono
fermato e ho riflettuto, e riflettuto ancora, e ho finito col perdermi
nei miei pensieri e ferirti comunque, alla fine.
Io penso di essere crudele. O meglio, una parte dentro di me
è crudele e violenta, acida. Gli piace corrodere. Gli piace
corrodere te. E tu, Osamu, sei buono e mi ami e quindi scegli di farti
corrodere perché l’importante è che io
stia bene. E questa tua dolcezza mi pietrifica. Mi spinge a starti
lontano. Perché tu, da quando ci conosciamo, non fai altro
che sacrificare te stesso e il tuo tempo pur di stare con me, non fai
altro che dare e dare e dare, continuamente, mentre io non faccio altro
che ingoiare tutto quello che mi dai. Ma nonostante lo strazio,
nonostante il dolore, tu per me ci sei sempre, sempre stato.
Ho pensato che forse, in realtà, anche tu sei egoista. Forse
anche tu vuoi stare con me perché fa stare bene te. Forse
questo tuo modo di amare facilmente e pienamente è una
scelta nata da una tua necessità, forse la tua dolcezza non
è altro che una manifestazione meno affilata di
un’anima egoista quanto la mia. Forse è
così, forse non è così. Probabilmente
no. Secondo me tu sei buono e basta, ti piace aggiustare quello che
è rotto, ricucire. A prescindere da quale sia la risposta,
c’è una verità che resta inconfutabile:
io e te siamo diversi, e quello a sbagliare sono stato io.
E mi dispiace. Mi dispiace tantissimo. E mi manchi. Mi manca la
temperatura specifica del tuo corpo e della tua anima. E anche se non
riesco ad amare come ami tu, anche se non riesco a essere gentile e
balsamico come sei tu, c’è qualcosa di vero in
quello che provo. Qualcosa di vero, che brilla di luce propria, che non
è uno stupido riflesso del mio lato egoista, o del mio
bisogno di stare con qualcuno. Qualcosa di disperato e intenso e
grezzo, ma puro. Qualcosa che è senz’altro amore.
*
Osamu ti guarda. Gli tremano gli occhi come pozzanghere. Ti afferra le
mani e ti spinge dentro casa, prima di abbracciarti forte.
“Mi dispiace,” dice. “Mi dispiace, mi
dispiace, mi dispiace.”
E ci sei tu, sconvolto, perché ti aspettavi astio,
diffidenza, una porta sbattuta in faccia; di certo non delle scuse, di
certo non delle lacrime.
Strofini il viso contro il collo umido di Osamu.
“Non devi chiedermi scusa,” la voce ti trema. Sei
così emozionato che temi ti si spezzi la gola.
“Non hai fatto niente di sbagliato. Niente, Osamu.
È stata colpa mia.”
Osamu scuote la testa.
“No,” dice. “No. L’ho fatto di
proposito. Lasciarti, andarmene, l’ho fatto solo
perché ti volevo fare del male, volevo vendicarmi, volevo
farti sentire come ci si sente, volevo che tu pagassi. Ma non dovevi
pagare niente, Keiji. Sono stato io a non capirti. Sono stato io a
metterti ansia e fretta per tutta questa storia. Per me amarti
è facile, ma non significa che sia così per
tutti. Non significa che siccome per te è complesso, o
difficile, allora mi ami male o mi ami di meno o non mi ami per niente.
Non sei una persona crudele, Keiji. Sei dolce. Sei buono. Soltanto che
delle volte senti tutto troppo forte e anneghi, e io invece di
aiutarti, di reggerti, ti ho solo spinto con la testa ancora
più sott’acqua. Mi dispiace moltissimo.”
Keiji chiede scusa e mentre chiede scusa lo bacia. Osamu ride sulle sue
labbra, brilla, e Keiji si crogiola in quella luce che trema.
Poi gli dice che lo ama. E Osamu risponde che lo sa, lo sa, l'ha sempre
saputo.
La verità che ha cercato per tutto quel tempo, Keiji
l’ha trovata.
Note
CIAO! Importantissimo: il paragrafo iniziale sul peso e sulla
leggerezza è stato ispirato/influenzato dal libro
‘L’insostenibile leggerezza
dell’essere’ di Kundera che mi ha dato la spinta
per iniziare questa storia.
Detto ciò, grazie mille per essere arrivati sino alla fine,
significa tantissimo e niente abbracci per chiunque!
Breve storia di questa storia: è stato un periodo in cui
volevo dire tanto, volevo proprio mettermi al computer e vomitare
parole su parole, perché ero super piena di cose che
pungevano e si scontravano e volevo sputarle via. Il problema
è che non riuscivo proprio a tirarle fuori. Avevo tantissime
cose di cui volevo parlare, tantissime cose che avrei voluto che questa
storia fosse, però quando provavo a scrivere davanti a me e
nella mia testa c’era solo questo grandissimo vuoto che
faceva spazio a tanta frustrazione per
l’incapacità di scrivere. Perciò
Akaashi in questo caso è stata un po’ la mia
ombra, nel senso che lui ha proprio la necessità di parlare
e di provare a descrivere almeno un briciolo di quello che
c’è dentro la sua anima, ma non ci riesce,
perché delle volte utilizzare il linguaggio sembra un atto
completamente futile e quasi incompatibile con quello che
c’è di vero dentro te stesso. Insomma, questa
storia avrei voluto che fosse qualcosa di fluido, una specie di valanga
perché io mi sentivo letteralmente satura di roba, ma niente
è venuto fuori con facilità, l’80% di
quello che avete letto me lo sono cavato dalla testa con un uncino
praticamente e secondo me si sentono sia la frustrazione che la fatica
che mi hanno super impedito di creare una roba scorrevole e intensa e
insomma questa storia non rappresenta neanche il 5% di quello che
avrebbe dovuto essere il risultato finale, ma mi sono sforzata
così tanto che mi sono rifiutata di eliminarla (magari ne
è valsa la pena anche solo per una frase, ecco,
perché comunque anche se ci ho messo tantissimo e il
risultato non è quello desiderato è comunque una
cosa che ho concluso nonostante proprio la sensazione di
GRRRRRRRHHKDAAAAH e l’incapacità di esprimere
quello che avevo dentro). Insomma, il problema di questa storia
è che non sono riuscita ad andare minimamente a fondo, ho
semplicemente girato intorno al nucleo senza sfiorarlo, però
vabbé davvero la fatica immane con cui l’ho
buttata giù è stata troppa per cancellarla e
rendere tutto vano ahahah. Fine papiro, alla prossima sperando di
trovare al più presto uno spiffero dove soffiare via le
parole! GRAZIE PER AVER LETTO!
OLÈ!!
See ya! ♥
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