Dango troppo dolci e saluti troppo amari
Diclaimer:
Haikyuu! non mi appartiene e da questa storia non ci
ricavo
neanche uno zellino.
Dango
troppo dolci e saluti troppo amari
Il
giorno della
partenza era oramai prossimo.
Sulla
scrivania
della sua camera un biglietto aereo di sola andata, uno di quelli
vecchio stile in cartoncino e con una banda magnetica sul retro. Il
suo nome stampato in kanji e in caratteri occidentali.
Destinazione:
Argentina.
Negli
ultimi giorni
si era chiesto cosa mai gli fosse venuto in mente. Era un semplice
signor nessuno che aveva giocato in una scuola abbastanza forte della
prefettura (non la più forte visto che erano stati sempre
battuti
dalla più forte e questa a sua volta era stata battuta da
uno stormo
di corvi comparso all’improvviso). Non aveva un gran
curriculum,
anche se le referenze erano ottime, coach di vari licei e
università
si erano spesi in un gran numero di complimenti, ma alla fine lui era
stato un fallimento. Non era mai riuscito a portare la sua squadra
alla vittoria su un palcoscenico che fosse degno di quel nome.
Nessuno di loro avrebbe in qualche modo sfondato come giocatore
professionista perché lui non era riuscito a fare nulla
affinché
fossero notati. Diceva sempre di fidarsi ciecamente della sua squadra
e che non erano necessarie parole di incoraggiamento prima di un
match, eppure era stato lui a tradire la fiducia del suoi compagni,
deludendoli.
Non
l’avrebbe mai
ammesso a voce alta, ma ai suoi occhi non era stato necessario.
L’unica
cosa che
gli avevano chiesto era stato di offrire la cena: era stato un
susseguirsi di boccone amari, uno dopo l’altro. Avevano
cercato di
tirarsi su il morale, ma persino i dango con cui avevano concluso il
pasto gli erano sembrati amari (e i dango ricoperti di salsa di
fagioli azuki erano la cosa meno amara che potesse esistere al mondo,
secondi solo allo zucchero puro)*.
Nessuno
l’aveva
rimproverato, nessuno lo aveva incolpato, ma lui si sentiva
ugualmente il responsabile. Era il capitano e aveva fatto affondare
la sua nave. Patetico.
Alcuni
di loro
avrebbe avuto altre possibilità, ma di base il Seijoh era
una
squadra vecchia, la maggior parte di loro era al terzo anno e la loro
carriera sportiva liceale poteva dirsi finita nell’esatto
istante
in cui la palla schiacciata da Chibi-chan era
rimbalzata sulle mani di Kindaichi e lui – il capitano
– non era
riuscito a salvarla. Un pessimo
esempio.
Avevano perso. Il Karasuno – il corvi decaduti che avevano
ricominciato a volare – si sarebbe scontrato con lo
Shiratorizawa
in quella che sarebbe stata la loro disfatta. Eppure alla fine i
corvi avevano soggiogato l’aquila. Avevano vinto e sarebbero
andati
ai Nazionali.
Aveva
dovuto ammettere a se stesso che aveva di gran lunga preferito che
fossero stati loro a vincere, anziché Ushiwaka,
ma
al tempo stesso la sconfitta bruciava. Solo
che così
bruciava un po’ meno.
Era
stato fortunato, lui. Grazie al coach Irihata era riuscito a entrare
in contatto con quella persona che gli aveva cambiato la vita e fatto
capire cosa volesse fare con la pallavolo. E lui
aveva
capito il suo senso di frustrazione e inferiorità davanti a
coloro
che avevano un talento di natura, mentre Tooru
era
arrivato a dei risultati decenti (mediocri,
avrebbe
detto)
solo grazie all’impegno e alla costanza, ma non aveva nulla
di
veramente prezioso da offrire.
“Vieni
in
Argentina. Potrai allenarti con me. Il coach mi ha detto che sei
bravo. Dimostramelo e ti farò giocare per davvero.”
E davanti a quelle parole pronunciate proprio da lui,
Tooru
aveva immediatamente comprato un biglietto di sola andata. Ne aveva
parlato a casa e, a parte qualche remora iniziale e la promessa di
tornare subito se avesse avuto dei dubbi, il sostegno non
mancò. La
paura e l’incertezza però erano tante.
I bagagli erano oramai pronti, la sua stanza quasi del tutto svuotata
di quegli oggetti di uso comune che la rendevano un luogo abitato,
ora era solo un involucro che testimoniava il suo passaggio tra
quelle mura: i manga, i libri di scuola, una stampante impolverata,
diversi (insignificanti) trofei e la divisa da
capitano appesa
a un gancio con una gruccia.
La tuta no, quella l’aveva messa in valigia. Voleva un
ricordo,
voleva qualcosa che lo facesse sentire a casa. La divisa non
l’avrebbe mai messa, neanche in allenamento, ma la tuta
sì. Alla
peggio l’avrebbe usata in casa.
“Hey,
Shittykawa!” lo riscosse
la voce di Iwaizumi che aveva aperto senza nemmeno bussare la porta
della sua stanza.
“Iwa-chan!”
lo salutò
protestando al tempo stesso.
“Alza le
chiappe ed esci da questa
stanza” lo rimproverò l’amico.
“Io
veram-” Tooru non fece in
tempo a parlare che l’altro gli aveva tirato una pallonata in
faccia. Non abbastanza forte da fargli male, ma a sufficienza per
doversi impegnare a bloccarla.
“Attento!
Abbiamo già rotto fin
troppe giocando in casa!”
“E cosa vuoi
rompere? Non è
rimasto più nulla qui dentro...”
mormorò il moro con una nota di
- era rammarico quello?
Tooru non rispose, si tolse gli occhiali e si alzò dalla
sedia, non
prima di aver accuratamente chiuso la cartelletta in cui teneva i
suoi preziosissimi documenti di viaggio.
“Andiamo
Trashykawa...” gli
intimò l’amico riprendendo la palla che
l’altro gli stava
porgendo. Lo squadrò un attimo e quando vide che indossava
una
vecchia tuta che sarebbe stata buttata non appena fosse partito,
annuì. Per andare al parco loro due andava benissimo.
“La
smetterai mai in insultarmi, Iwa-chan?”
“No”
fu la secca risposta dell’altro.
Di norma Tooru avrebbe protestato o si sarebbe offeso, ma percepiva
qualcosa di strano nell’amico d’infanzia e, se non
fosse che lui
si sentiva uno straccio con le emozioni che facevano a pugni nel suo
stomaco e nel suo cervello, avrebbe detto anche Haijime era un
po’
dispiaciuto dalla sua imminente partenza.
Lui non gli aveva mai rimproverato nulla, non l’aveva mai
fatto
sentire in colpa per aver portato la squadra alla sconfitta –
gli
aveva fatto presente che essere una squadra vuol dire anche quello,
nessuno è l’unico responsabile del fallimento o
della vittoria –
e aveva le idee chiare sui cosa avrebbe voluto fare. Avrebbe studiato
Scienze motorie e dello sport, perché la pallavolo aveva
giocato un
ruolo importante nella sua vita e avrebbe voluto fare qualcosa a
riguardo, portarsi quello sport nel cuore, studiarlo e
chissà,
magari diventare allenatore o preparatore atletico per qualche
squadra. Se avesse avuto fortuna magari sarebbe riuscito a entrare in
un team di seconda divisione, ma avrebbe dovuto impegnarsi. Voglia e
determinazione non gli mancavano.
Raggiunsero
il parco dove gli piaceva andare fin da quando erano bambini (un
semplice spiazzo dietro una collinetta con uno scivolo e due
altalene) e
iniziarono
a passarsi la palla, lentamente, ma con una precisione millimetrica
che solo anni e anni di allenamenti avevano perfezionato. Tooru ogni
tanto alzava, Haijime schiacciava e l’altro riceveva. Senza
fretta,
senza troppa forza. Non c’era bisogno di imprimere alla palla
tutta
la potenza che
erano soliti metterci per segnare, per fare un ace nel campo
avversario. Per il momento era sufficiente divertirsi, passarsi il
pallone, chiamare un’alzata e ridere insieme al pensiero di
quanto
fossero cresciuti in quel luogo e cercando di ingoiare
l’amara
consapevolezza che, molto probabilmente, quella sarebbe stata
l’ultima volta. Le loro strade si sarebbero divise per sempre
e se
anche avessero provato a replicare, nulla sarebbe mai stato come
prima. Erano ancora adolescenti, ma oramai era anche adulti.
Avrebbero avuto successo? Avrebbero fallito? Non potevano saperlo, ma
sicuramente avrebbero fatto per inseguire i loro sogni, anche se
questo significava separarsi. Salutarsi in via definitiva,
perché
non si poteva tornare indietro.
Persero
la cognizione del tempo… avrebbero continuato per ore, ma
alla fine
dovettero fermarsi. I minuti scorrevano inesorabili, che loro
lo
volessero o meno.
Si sdraiarono sull’erba, come facevano da piccoli: non faceva
caldo
ma abbastanza da potersi permettere di rimanere un po’
così, in
attesa che arrivasse il momento di salutarsi per davvero.
“Ce
l’hai ancora su?” chiede all’improvviso
Haijime e Tooru non
ebbe bisogno di chiedergli spiegazioni. Alzò la gamba
sinistra e si
tirò il pantalone della tuta, rivelando una ginocchiera
bianca
oramai consunta e priva di imbottitura per il costante utilizzo.
C’era da dire che risparmiava non poco
sull’acquisto delle
protezioni, visto che alla fine ne usava una alla volta. Prima o poi
si sarebbe fatto male al ginocchio a furia di usare solo quel vecchio
cimelio, ma quel pezzo di stoffa era parte di lui.
Haijime alzò una mano andandogli a sfiorare delicatamente un
lembo
di pelle sopra la stoffa della ginocchiera, prima si voltarsi verso
l’amico e sorridere.
“Fattene
autografare un’altra quando sarai arrivato, altrimenti la tua
rotula ti lascerà a breve!”
“Non
portarmi sfortuna, Iwa-chan!” rispose Tooru ridendo e
abbassando la
gamba lentamente, in modo che la mano del moro potesse accompagnarlo.
Non aveva voglia di interrompere quel contatto.
Quel
tocco,
leggero e delicato, quasi reverenziale, gli brucia
la pelle
come se lo stesse marchiando a fuoco. Un marchio impresso solo nella
sua mente, la mano di Haijime è talmente delicata che non
gli lascia
nemmeno un graffio per sbaglio con l’unghia che si
è rotto mentre
stavano giocando, ma la sensazione dei polpastrelli
dell’amico
irradiano un calore che non può ignorare e che gli
rimarrà
tatuato nella memoria ancora per molto tempo.
“Te
ne spedirò una” aveva risposto Tooru con la sua
solita voce
canzonatoria ma che non riusciva a nascondere le mille emozioni che
stava provando in quel momento.
Haijime gli prese una mano e gliela strinse.
“Andrà
tutto bene. Diventerai il campione che qua non ti hanno permesso di
essere” lo rassicurò e Tooru dovette mordersi con
forza le labbra
per non scoppiare a piangere come una ragazzina… Iwa-chan
l’avrebbe preso in giro a morte per quello.
L'autografo
di Blanco sulla ginocchiera era
quasi
sparito, un lontano ricordo, un'ombra di un passato che non
tornerà
più, ma Tooru ha fatto una scelta.
Non sa se se ne pentirà o meno, ma per il momento
è
consapevole che lì non c'è posto per lui.
Non c'è posto per lui neanche nella vita di Iwa-chan.
“E’
tardi, dobbiamo tornare. Domani mattina ti aspetta un lungo
viaggio.”
Tooru
annuì e
si alzò.
Tornano
in silenzio, non c’era
più
spazio per le parole, sarebbero superflue.
Tutto
quello che dovevano dirsi se lo sono già detti in quegli
anni.
“Ci
rivedremo...” gli disse Oikawa, ammiccando in direzione
dell’amico
“Grazie per oggi.”
“Prego
Shittykawa… grazie a te. Per tutto.”
Tooru sorrise e lo guardò allontanarsi definitivamente:
dalla sua
casa e anche dalla sua vita.
E
quello che non
si sono detti, non era più il caso di dirlo.
Note
dell’autrice:
*
i dango sono degli gnocchi bolliti di sciroppo di zucchero e farina
di riso glutinoso
La storia della ginocchiera, non so se è canon o headcanon,
ma qui è
andata così.
Ecco,
una specie di pre-slash IwaOi non era esattamente contemplata, ma in
una settimana sono stata folgorata dall’ispirazione e ho
scritto
cinque storie (tre
sono Kurotsuki).
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