Alla luce del sole

di denn_nanni
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CAPITOLO SETTE
Problemi in paradiso

Alice.

Seduta su una panchina in un parco non troppo distante da dove abito, osservo pigramente le persone che vi passeggiano. È una cosa che amavo fare a casa, mi rilassava notare le espressioni, le movenze, degli sconosciuti ed estraniarmi per breve tempo dalla mia vita; sento che è proprio quello che mi serve. Mi trovo qui perché oggi sono tutti in casa e, nonostante non ci siano stati scontri particolari tra noi, l'idea di una giornata intera con tutta la famigliola non mi allettava.

Sono passati cinque giorni dal mio arrivo e non sono ancora riuscita ad acclimatarmi, non che mi aspettassi diversamente. Ho conosciuto Dalila e Nathan, due persone a modo e molto solari. Lei è esattamente come l'ho vista nelle foto, i capelli scuri a caschetto le incorniciano il viso magro e le mettono in risalto gli occhi di un azzurro chiarissimo, ha un fisico formoso, è alta quanto me e, come mio padre, è stata molto comprensiva e discreta nei miei confronti, cosa che a malincuore devo ammettere di avere molto apprezzato. Nathan, invece, è un bambino dai capelli castano scuro e gli occhi bruni, un vulcano in eruzione ma sempre ben educato, forse potremo andare d'accordo, anche se a me i bambini non piacciono.

Ho rivisto Louis una sola volta, seppur per poco tempo. Mi ha raccontato un po' di cose riguardo la città, le scuole, università varie. Abbiamo parlato di cosa vogliamo fare dopo il diploma, lui ha le idee molto chiare, vuole studiare psicologia, mentre io non ne ho idea. Non ho mai speso troppo tempo pensando a cosa mi sarebbe piaciuto fare, mi sembrava di avere tutto il tempo del mondo; ora che sta per iniziare l'ultimo anno, mi rendo conto di aver temporeggiato un po' troppo e se ero confusa ed indecisa a Washington, la situazione venendo a Londra è solo peggiorata. D'altro canto, il preside della high school che frequenterò mi ha assicurato, nel nostro incontro, che le attività di orientamento saranno un punto centrale nel percorso dell'ultimo anno.
Adesso l'unica cosa a cui voglio pensare è il primo giorno di scuola, ovvero domani. Non è esattamente una delle situazioni migliori, mi andrò ad inserire in una classe già consolidata da anni, conoscerò dei professori nuovi per solo un anno e dovrò cavarmela con le nozioni apprese in una scuola diversa. Non mi è mai capitato di essere così in ansia per qualcosa perché fino ad adesso mi sono mossa in ambienti a me familiari; sotto qualche punto di vista, questa esperienza mi insegnerà molte cose, aiutandomi a crescere come non sarebbe successo rimanendo nella mia comfort zone.

Chiudo il libro che stavo leggendo e lo ripongo nella borsa nuova che mi sono comprata in un pomeriggio shopping con mio padre. Abbiamo acquistato tutto quello che mancava: lo specchio, una SIM, la vernice per ridipingere camera mia e le cose per la scuola. Si era offerto anche di pagarmi quella borsa che mi piaceva tanto, ma ho deciso di farmi un regalo di arrivo con i soldi che mi sono guadagnata con dei lavoretti, dopotutto sarebbe ipocrita da parte mia sfruttarlo più dello stretto necessario, visto che in primo luogo non sarei voluta venire.
Guardo l'orario, le cinque. Decido di tornare a casa per scoprire se Louis è al salice, giusto per avere un po' di compagnia. Nonostante il tempo passato assieme, non abbiamo pensato a scambiarci i numeri, quindi immagino di dover fare alla vecchia maniera. Mi alzo dalla panchina e mi incammino pigramente. Quella che due ore fa era una leggera brezza è diventato vento che, con mio enorme disappunto, mi scompiglia i capelli, il cielo si è ricoperto di nuvole grigie, perciò mi affretto, nonostante il meteo non prevedesse pioggia per oggi. Le persone intorno a me non sembrano turbate da questo repentino cambio di atmosfera, c'è chi chiacchiera pacificamente sui marciapiedi, chi va in bici e chi porta a spasso il cane; immagino che anche io, come loro, dovrò abituarmi al variabile meteo londinese.

Una volta giunta a casa, mi dirigo subito sul retro per sgattaiolare nel giardinetto, ma Louis non c'è, e non c'è stato nemmeno nei giorni scorsi e un po' mi è dispiaciuto. Ho avuto la tentazione di provare a suonare il campanello ma ho desistito tutte le volte per non sembrare eccessivamente pedante, dopotutto non ci conosciamo e non ha nessun tipo di obbligo nei miei confronti; dal canto mio mi avrebbe fatto bene un po' di compagnia.

Inizio a sentire qualche goccia di pioggia sui capelli, così mi sbrigo rientrare in casa. Saluto la famigliola che si trova in salotto per poi raggiungere la mia camera e mettermi dei vestiti più comodi. Mi stendo sul letto, dopo aver preparato con cura tutto ciò che mi servirà per la scuola domani, e mi abbandono ai social per smorzare un po' la noia fino a quando una chiamata non mi interrompe. Rispondo immediatamente e metto in viva voce.

«Alice...» sento mormorare dall'altro capo del telefono. Charlotte ha un tono sommesso e triste che mi mette subito in allarme e istintivamente mi metto seduta, come se dovessi correre immediatamente a casa sua per consolarla, ma anche se volessi non potrei farlo.

«Lottie, stai bene? Cosa è successo?» La sento iniziare a piangere, i singhiozzi, seppur contenuti, si sentono chiaramente attraverso l'altoparlante del cellulare. Sto in silenzio per un po' rispettando i suoi tempi fino a quando non ricomincia a parlare.

«Abbiamo litigato... di brutto.» dice con la voce tremante. Il primo a cui penso è Norman, il ragazzo con cui si stava frequentando, e mi viene voglia di picchiarlo perché sono state veramente poche le volte in cui ho sentito la mia migliore amica così provata da un litigio. Chissà cosa le ha fatto o le ha detto per ridurla in questo stato.

«Tu e Norman?» chiedo cautamente per essere sicura di non dilungarmi in una sfilza di insulti e minacce inutili. La sua risposta tuttavia mi lascia così sorpresa che rimango in silenzio per qualche istante: «Io e Thomas» dice.

Mi sono sempre resa conto che Charlotte e Thomas hanno due caratterini molto difficili, per certi versi incompatibili, ma si sono sempre voluti un gran bene e quelle poche volte in cui i rapporti rischiavano di incrinarsi seriamente per qualche incomprensione, io sono sempre stata la mediatrice e li ho aiutati a riconciliarsi.

Allora Lottie inizia a raccontare. «Lui e Norman hanno avuto un battibecco abbastanza acceso su una totale sciocchezza mentre eravamo a casa di Richard ieri sera;» ovvero stanotte per me. «avevo visto che era un po' giù di morale e pensavo fosse perché gli manchi, ho dato per scontato che avesse reagito un po' così, sopra le righe, perché già aveva gli affari suoi. Poi però ha annunciato che se ne andava, e lo ha fatto davvero! L'ho seguito per richiamarlo, farlo tornare indietro e rimanere con noi ma lui non ne ha voluto sapere.

«Mi ha urlato contro, dicendo che con quel pallone gonfiato di Norman lui non ha mai voluto e non vuole più averci a che fare. Ho cercato di capire cosa volesse dire, lui si è scaldato ancora di più dicendomi che ovviamente non posso capire cosa intende perché io sono una stronza spocchiosa tanto quanto quel "damerino" – lo ha proprio chiamato così! – con cui spreco il mio tempo. Li mi sono zittita e ho lasciato che se ne andasse, lo sai che io di solito scatto quando sono arrabbiata ma in quel momento, giuro, non sono riuscita a replicare, ero così sconvolta! Sono tornata dagli altri e mi sono messa a piangere.» si interrompe un attimo, probabilmente per riprendere fiato e riordinare le idee. «Poco fa sono andata a casa sua, pensavo che gli servisse solo tempo per calmarsi. Quando sono arrivata, ho suonato e lui è uscito chiedendomi testualmente "che cazzo ci fai qui?". Gli ho detto che volevo chiarire, era ovvio che aveva reagito così perché era di cattivo umore già da prima e che quindi volevo sapere come stesse e cose così. Lui non solo mi ha detto che non ha niente da rimangiarsi perché pensa tutto quello che ha detto, ma ha anche aggiunto che l'unico motivo per cui era di malumore era il fatto di essere costantemente obbligato a uscire con noi!» Lottie ricomincia a piangere più rumorosamente questa volta. Il suo racconto mi ha lasciata basita, pietrificata nella mia posizione. Per un momento mi passa per la testa che la mia amica stia ingigantendo l'accaduto, perché mi sembra impossibile che Thomas si sia potuto comportare da tale coglione, ma dubito anche che Lottie si stia inventando delle cose apposta. Non posso giudicare avendo sentito solo la sua versione, ciò non toglie che io possa rimanerci malissimo ugualmente.

Rimaniamo al telefono per una mezz'oretta, passata da lei a commiserarsi e ad analizzarsi e da me a consolarla. Sono io che chiudo, forse un po' bruscamente, la conversazione perché ho bisogno di sentire che cosa Thomas ha da dire a riguardo. Quando ormai mi ero decisa a chiamarlo, dopo aver riflettuto attentamente su cosa dire, mio padre bussa alla mia porta e mi dice che è arrivata la pizza.

Passo la cena a rimuginare, a ripetermi un discorso che avrei voluto fare a Thomas, partecipando poco alla conversazione della famigliola. Mio padre deve essersi accorto che qualcosa non va perché mi rendo conto che mi sta studiando con sguardo attento, il mento appoggiato alla mano e gli occhi appena strizzati. Ci faccio poco caso, e appena tutti hanno finito di mangiare, mi alzo e mi dileguo annunciando che sarei andata a preparare le cose per la scuola.

Faccio partire la chiamata mentre sono ancora sulle scale, mi accomodo nella sedia dinanzi alla scrivania mentre attendo una risposta. Che non arriva. Ritento un paio di volte, e il mio discorso va in fumo, perché Thomas mi sta chiaramente ignorando.

Metto il telefono in carica e mi avvicino alla finestra, aprendola e sedendomi scompostamente sul davanzale. Sta piovigginando, la notte è particolarmente scura e le luci di macchine, lampioni ed edifici sembrano più intense. C'è una piacevole malinconia dietro quel panorama, il rumore del poco traffico serale, la pioggia che cade leggiadra, i tetti scuri delle case del vicinato si stagliano minacciosi nelle strade illuminate.

Mi sento inutile, così distante dalle persone che avrebbero bisogno di me. Non dovrei essere qui a ricominciare, dovrei essere la a fare da spalla a coloro che lo necessitano. Da Londra, io non posso fare molto più che qualche chiamata facilmente ignorabile, non come se fossi a casa, dalla quale uscirei per poi correre sotto casa di Thomas per obbligarlo a non chiudersi in se stesso.

Nulla di tutto ciò è possibile ormai, una volta i problemi di uno erano i problemi di tutti, a questo punto, invece, io devo affrontare problemi solo miei, così come i problemi loro possono essere miei solo in parte. Mi ritrovo a sperare che, come io ho imparato da loro come si affronta la vita, loro abbiano imparato da me la mediazione, ora è turno di tutti dimostrarlo. Sono via da poco meno di una settimana e già tutto crolla, non posso fare a meno di pensare che se fossi rimasta, magari non avrebbero litigato, oppure avrebbero litigato e risolto dopo poco come sempre. Invece adesso devo rimanere a guardare e pensare a me stessa.

È con questi pensieri che mi preparo per dormire e mi corico, sperando di riuscire a contattare Thomas l'indomani oppure di ricevere qualche buona notizia.





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