No matter how life_1
Titolo: No matter how life
turns around (I'll see you again)
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons
Tipologia: One-shot (divisa in tre atti) [ 10274 parole fiumidiparole
]
Personaggi: Jonathan Samuel
Kent, Damian Wayne, Vari ed eventuali
Rating:
Giallo
Genere: Generale,
Sentimentale, Malinconico, Azione
Avvertimenti: What if?, Slash, AU,
Hurt/Comfort
Vorrei incontrarti tra 100 anni
challenge: 50. Battito cardiaco || 177. Esame || 63. Contadino
(Tipologia 4: Incontrarsi in un altro contesto storico/sociale (AU) +
Reincarnation AU)
Take your business elsewhere
Challenge: 9. Di mezzo c'è un segreto || 17. Personaggio X non
è umano || 28. Uno specchio || 34. Y non è mai stato così vicino a X ||
39. Stupire
200 summer prompts: Balliamo
|| Segreto || Personaggio X vuole esserci
SUPER
SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
ATTO UNO. ADE
Jon si svegliò di
soprassalto in un bagno di sudore, col cuore che batteva a mille e il
respiro affannato. Gli ci vollero attimi interminabili per rendersi
conto che si era svegliato nella penombra della sua camera da letto e
che dalle tende chiuse filtrava qualche timido raggio di sole, troppo
scombussolato dallo strano sogno che lo aveva strappato troppo presto
dal suo sonno.
Non ricordava bene che cosa avesse sognato, ma gli
aveva lasciato nel petto una strana sensazione opprimente. Sprazzi di
immagini si accavallavano le une alle altre, volti sconosciuti gli
sorridevano e sfumavano in mezzo a nuvole dorate, mentre enormi colonne
bianche si crepavano e collassavano improvvisamente su loro stesse,
creando polveroni che inghiottivano quello strano mondo; grida di
terrore si mescolavano con urla di battaglia, ordini su ordini
echeggiavano nella sua testa in una lingua che a stento capiva, e calde
dita si intrecciavano alle sue, stringendo con forza le sue mani mentre
qualcuno gli sussurrava parole d'amore e lo guardava con profondi occhi
verdi velati di pianto.
“Tra cent'anni,
mio amato... ci rivedremo tra cent'anni”.
Quella frase si ripeteva nella sua mente ancora e
ancora, anche adesso che era sveglio, ed era assurdo che fossero le
uniche parole che, in quel miscuglio di frasi masticate fra i denti ed
esclamazioni, era riuscito davvero a comprendere. Per quanto non
ricordasse granché di quello strano sogno, il dolore che gli stringeva
tuttora il petto era sembrato così vero da costringerlo a svegliarsi.
Aveva provato lo stesso terrore che si provava quando, durante il
sonno, si aveva la sensazione di cadere nel vuoto e per istante quella
paura irrazionale si era impossessata del suo cervello, svegliandolo
con quella strana ansia e paura che non riusciva a spiegarsi al punto
da fargli venire la nausea e, scalciando via le coperte, Jon barcollò
verso il bagno e si accasciò sulla tazza per vomitare l'anima.
Era strano come un sogno riuscisse a rimescolare le
persone. Mentre la mente intorpidita si risvegliava, i ricordi di
quelle visioni avevano cominciato ad affacciarsi di nuovo nella sua
testa, e aveva come la strana sensazione che in quel sogno fosse...
morto. Era strano da pensare, eppure era propro così che si sentiva. Il
petto gli doleva in maniera indescrivibile e l'affanno non era ancora
passato, senza contare lo stomaco ancora in subbuglio e il modo in cui
il suo cuore batteva all'impazzata.
Con un lungo gemito doloroso, Jon allungò a tentoni
una mano per tirare lo sciacquone e si sedette sul pavimento del bagno,
schiacciando il palmo della mano contro il petto. Perché faceva così
male? Era come se una lunga lama si fosse conficcata nelle sue carni e
gli avesse strappato il cuore, e il solo pensiero lo fece rabbrividire
ancora una volta da capo a piedi; la sua vista sfarfallò per un istante
e nell'abbassare lo sguardo gli sembrò di vedere le mani sporche di
sangue, urlando a squarciagola quando l'odore gli schiaffeggiò le
narici cos all'improvviso che cercò di strisciare lontano da se stesso.
Cosa diavolo gli stava succedendo?
«Era solo un sogno, Jonathan», si disse nello
schiaffeggiarsi le guance, cercando di tornare in sé e di alzarsi in
piedi. Le gambe gli tremavano e dovette tenersi al bordo del water e
poi al lavandino per restare stabile, guardandosi allo specchio per
attimi interminabili mentre il respiro si regolarizzava e il battito
del suo cuore si stabilizzava. I capelli erano un completo disastro,
una massa informe e riccioluta che andava da tutte le parti senza una
vera forma, e le occhiaie erano così scure che dava proprio
l'impressione di non aver dormito affatto; il pallore del suo viso
metteva in risalto le sue lentiggini e il volto scarno che lo osservava
di riflesso quasi non gli sembrò il suo, dato quanto sembrava sciupato
per la notte insonne.
Forse uscire con suo fratello Conner e i suoi amici
non era stata una grandiosa idea. Forse avrebbe dovuto dar retta a
Kathy e lasciar perdere, concentrarsi sull'esame che avrebbe dovuto
dare tra tre giorni, studiare per il successivo e chiudere
definitivamente con l'università per gettarsi nel fantastico mondo del
lavoro - sua madre continuava a pressarlo per diventare giornalista, ma
lui non ne aveva la minima intenzione -, ma erano settimane che si
sentiva stressato e aveva pensato che divertirsi un po' non gli avrebbe
fatto male... ma si era maledettamente sbagliato. Se bere gli faceva
quell'effetto, forse sarebbe stato meglio concentrarsi sui libri.
Traendo un lungo respiro, Jon si sciacquò prima la
faccia, restando per qualche minuto con la testa sotto il getto d'acqua
per cercare di schiarirsi i pensieri, e poi si lavò i denti per
scacciare il retrogusto di vomito che gli era rimasto in bocca,
barcollando ancora una volta verso la camera da letto proprio nello
stesso istante in cui la sveglia suonò e gli ricordò che avrebbe dovuto
alzarsi. Beh, complimenti, sveglia.
Sei in ritardo. Sbuffò mentalmente Jon con amara ironia,
spegnendola prima di prendere un cambio e darsi una lavata in fretta e
furia. Sua madre lo aspettava al Daily per la giornata del lavoro e, se
non avesse voluto evitare di darle un dispiacere, l'avrebbe chiamata
per dirle che non se la sentiva di andare. Quel sogno che aveva avuto
era stato così... strano, ma non voleva che potesse rovinargli i piani,
dato che erano mesi che aveva dato conferma che ci sarebbe stato.
Uscì di casa esattamente venti minuti dopo,
ricacciando indietro l’ennesimo sbadiglio prima di infilarsi nella sua
jeep e metterla in moto; si insinuò nel traffico di quella calda
mattinata a Metropolis e accese la radio solo per un po’ di compagnia,
con la speranza che la musica e gli annunci lo distraessero dalla
strana sensazione che gli aveva lasciato quel sogno. Per quanto non
fosse ancora vivido nella sua mente e fossero solo sprazzi di colore
macchiati su una tela, Jon aveva cominciato a sentirsi stranamente
triste nel rifletterci; era come se il suo subconscio avesse cercato di
parlargli, come se ogni pezzo avesse bisogno di qualcos’altro –
qualcuno? – per incastrarsi come avrebbe dovuto, ma non riusciva a
spiegarsi da dove nascessero tutte quelle sensazioni che si erano
impossessate del suo animo. E quel che era peggio era che, qualunque
cosa provasse a fare, quel sogno si riaffacciava nella sua testa per
fare in modo che non lo dimenticasse, nonostante non sembrasse avere
intenzione di rendersi chiaro agli occhi di Jon.
Frustrato, batté una mano sul volante e suonò un
paio di volte il clacson quando le auto davanti a lui lo
imbottigliarono nel traffico, lasciandosi sfuggire a denti stretti
colorite imprecazioni che gli avrebbero fatto avere una lavata di capo
dai suoi genitori nonostante avesse superato da un pezzo l’età in cui
avrebbero potuto avere da ridire. Non era un ragazzo che amava
imprecare ma, quando era sotto stress, la considerava una buona valvola
di sfogo oltre al canto; provò quindi a canticchiare tra sé e sé quando
passarono “Numb” alla radio, gridando a squarciagola e ignorando le
occhiate dei guidatori che si fermavano accanto a lui ai semafori.
Quando finalmente arrivò al Planet e fermò la Jeep
nell’enorme parcheggio, si rese conto di aver passato quasi quaranta
minuti in mezzo al traffico e mugugnò qualcosa tra sé e sé, afferrando
il cellulare nello stesso istante in cui suonò, e Jon rispose al volo
al secondo squillo. «Ehi, mamma. Sì, tranquilla, non me lo sono
dimenticato». Roteò gli occhi mentre la ascoltava, contento che lei non
potesse vederlo. «No, no. Sono proprio qua fuori. Sì, traffico. No, non
è una scusa come due mesi fa». Sua madre era un mostro. «Sì, dirò a
Janet che la saluti, arrivo».
Jon riagganciò e diede un paio di botte al volante
con la fronte, lamentandosi a mezza voce. Beh, ormai era lì e tanto
valeva ballare, no? Lo faceva per sua madre, lo faceva per sua madre… e
non poteva nemmeno scaricare l’incombenza a suo padre, visto che era
fuori città. Jon insisteva col pensare che se la fosse filata apposta,
ma non poteva esserne sicuro. Così, battendosi le mani sulle guance e
facendosi coraggio, scese dall’auto e si diresse all’interno
dell’edificio come un condannato al patibolo, salutando Janet della
reception prima di imboccare uno degli ascensori per salire verso il
sedicesimo piano. C’era un mucchio di gente, il caldo era asfissiante e
la musichetta da sala d’aspetto aveva cominciato a innervosito, ma Jon
tenne duro e scivolò fuori il più in fretta possibile quando le porte
dell’ascensore si aprirono al suo piano, traendo un lungo respiro di
sollievo. La prossima volta si sarebbe fatto centinaia di rampe di
scale, piuttosto che usare uno di quei maledetti ascensori.
Si diede una rassettata e si affrettò a dirigersi
verso gli uffici per raggiungere sua madre, ma quando svoltò l’angolo e
andò a sbattere contro qualcosa, Jon si sarebbe aspettato di tutto –
Jimmy Olsen che correva a scattare foto, Cat Grant che aveva sentito un
nuovo gossip e andava ad accertarsene per la sua redazione, lo stesso
Perry, il direttore, che sgattaiolava via dal suo ufficio per
sgraffignare caffè e ciambelle – tranne un ragazzo della sua stessa età
che Jon rimase a fissare imbambolato, costringendosi a chiudere la
bocca per non sembrare un idiota. Verdi. Grandi e profondi occhi verdi
che, curiosi, ricambiavano il suo sguardo e venivano nascosti per un
istante dallo sbattere delle lunghe ciglia scure, mentre quel ragazzo
reclinava il capo di lato e assumeva un’espressione scettica. Ora, Jon
non era uno che credeva nei cliché, nell’amore a prima vista o roba del
genere, eppure aveva sentito il cuore fare una capriola nel petto
quando si era perso in quelle iridi color smeraldo. Aveva squadrato
quel ragazzo da capo a piedi, si era soffermato sul taglio corto di
capelli ai lati della testa e sulla fossetta ad un angolo della bocca
quando aveva arricciato un po’ le labbra, e sulla pelle ambrata che
sembrava stranamente invitante. Doveva sembrare un idiota a fissarlo in
quel modo come un pesce fuor d’acqua. Lo sembrava, giusto? Perché lui
si sentiva esattamente così. E adesso perché sembrava aver dimenticato
come si faceva a respirare?
«Oh, vedo che voi due ragazzi siete già insieme». La
voce di sua madre per poco non lo fece sussultare, ma Jon riuscì a
mantenere un minimo di decoro e a non urlare come un idiota. Bene,
stava migliorando. «Jon, lui è Damian. Damian, questo è mio figlio Jon.
Spero che renderà la tua giornata a Metropolis interessante».
«Sono certo che lo farà, Miss Lane».
La sua voce era bella e calda, Jon poté notare che
arrotondava il suono delle parole con uno strano accento straniero, per
un istante ebbe come la strana sensazione di averlo già sentito e si
portò una mano al petto, stringendo la stoffa della maglietta fra le
dita. Ma cosa…
«Solo Lois, Damian». Gli fece un occhiolino, poi
finalmente guardò Jon, ancora scombussolato. «Damian ti stava giusto
aspettando, Jon. È pronto per visitare Metropolis».
La voce di sua madre giunse lontana, Jon sbatté le
palpebre più e più volte per cercare di riprendersi e per ricambiare
quello sguardo, e quando finalmente tornò con i piedi per terra per
poco la sua mascella non toccò il pavimento. «Aspetta, cosa? Che dovrei
fare?»
«Se quando ti ho chiamato al cellulare mi avessi
ascoltata davvero, non mi chiederesti sciocchezze».
Ouch, beccato. Lo
ribadiva, sua madre era un mostro e aveva qualche strano super potere
da mamma, non c’era altra spiegazione. Jon sentì Damian lasciarsi
scappare un piccolo sbuffo ilare che nascose con un colpo di tosse
senza intromettersi nella conversazione, e avrebbe dovuto infastidirlo
sentirsi fare una ramanzina da sua madre davanti ad un perfetto
estraneo ma, accidenti, cos’era quello strano calore all’altezza del
petto e la strana sensazione che si conoscessero da una vita?
«Leggi le mie labbra, mio sconsiderato figlio». Lois
si picchettò quello inferiore. «La guest star di questa giornata del
lavoro è Bruce Wayne, ma non avevo previsto che venisse fin qui con suo
figlio. Mentre io mi occupo di intervistare il signor Bruce, potresti
mostrare a Damian la zona, visto che ha intenzione di trasferirsi da
queste parti?»
Adesso aveva un senso, ma Jon era ancora troppo
stranito per ribattere in tono abbastanza fermo e risoluto. Al
contrario, annuì automaticamente e fece strada a quel ragazzo, Damian,
sentendosi stupido e imbambolato mentre tornavano agli ascensori. Cosa
gli era preso? Di solito era un ragazzo loquace e non aveva problemi né
a farsi degli amici né a fare nuove conoscenze, avrebbe persino potuto
dire che poteva trasformarsi in breve nell’anima della festa se solo
avesse voluto, invece con quel Damian si sentiva in imbarazzo e come se
fosse assente. Un momento, Wayne?
«Tu sei
Damian Wayne?!» la sua voce suonò vagamente isterica e più alta di
un’ottava, sensazione incrementata dal fatto che le porte si fossero
chiuse proprio in quel momento e fossero soli in quell’ascensore.
Damian rise, e quella risata scosse Jon nel
profondo. «Ci hai messo meno degli altri a recepire la notizia. Sono
impressionato, Jonathan Samuel».
«Cristo, no, solo mia madre mi chiama così». Jon
storse il naso, allungando una mano verso di lui per fare le cose come
si conveniva. Ricordava ancora le regole del vivere civile, visto?
«Jon. Semplicemente Jon».
Damian parve divertito da quel fare, allungando a
sua volta una mano per stringerla nonostante l’aria altezzosa che
aveva. «Damian. Solo Damian». Sollevò entrambe le sopracciglia,
squadrandolo da capo a piedi. «Prima che tu prenda sul serio le parole
di tua madre, conosco già Metropolis», mise subito in chiaro, e Jon si
accigliò.
«Allora a che ti servo io?»
«Come scusa per evitare di annoiarmi a morte insieme
a mio padre».
Jon si portò teatralmente una mano al petto,
storcendo il naso. «Gh, mi hai usato. Non supererò mai più questo
trauma».
«Sei sempre così melodrammatico o lo riservi solo a
persone che hai appena conosciuto?»
«Entrambe le cose, suppongo». Finalmente stava
cominciando a sciogliersi come suo solito, e la cosa lo rincuorò. Non
avrebbe sopportato una strana atmosfera fatta di imbarazzi e sensazioni
assurde e stupida musica da sala d’aspetto. Anzi, in compagnia di
Damian nemmeno ci faceva caso più. «Quindi anche il tuo trasferimento
era una balla?»
«Quello era vero», esordì Damian, e Jon inclinò la
testa di lato.
«Perché? Insomma, non che Metropolis non sia un bel
posto, ma vengo da una famiglia di contadini e avrei preferito mille
volte restare in campagna».
«La sede delle Wayne Enterprises di Metropolis si
occupa di questioni ecologiche, ho intenzione di prendere in mano la
situazione e cercare di migliorare la situazione climatica».
Per un istante Jon si sentì di nuovo stupido, ma si
riprese piuttosto in fretta. «Oh. Whoa. Mi aspettavo, che so, che era
meno uggiosa di Gotham e che era un bel posto dove prendere il sole, ma
mi ha sorpreso la tua profondità di spirito», provò a scherzare un po’,
massaggiandosi il collo quando Damian gli lanciò un’occhiata stranita e
sollevò ancora una volta entrambe le sopracciglia. Ottima mossa, Jon. Tu sì che ci sai fare
con i ragazzi, si schernì da solo, ma si sorprese quando Damian
sghignazzò tra sé e sé.
«Non negherò che è anche un bel posto, ma è troppo
luminoso per J miei gusti». Quando le porte dell’ascensore si aprirono,
il primo ad uscire fu proprio Damian e lo guardò con un ghignetto. «Ora
offrirmi un caffè».
Seguendolo, Jon aggrottò un po’ la fronte. «Non
sarebbe più giusto dire “Che ne diresti di offrirmi un caffè, per
favore”?»
«Sono il tuo appuntamento, è il minimo che tu possa fare per me».
Damian si incamminò verso l’uscita senza nemmeno
aspettarlo, lasciando Jon a fissare la sua schiena con fare
scombussolato e stranito per attimi che parvero interminabili, finché
non recepì il messaggio, arrossì fino alla punta delle orecchie e non
cominciò a balbettare come un idiota, correndogli dietro.
«Aspetta, chi ha deciso che questo era un
appuntamento?!» urlò, sentendo la fragorosa risata di Damian rimbombare
per tutta la hall prima che uscissero entrambi dall’edificio e Jon
pensò che tutto sommato non era poi così male sentir ridere quel
ragazzo.
Sì, forse non sarebbe stata una brutta giornata,
dopotutto.
_Note inconcludenti dell'autrice
Scritta
per la #vorreincontrartitra100anni e
per la #elsewherechallenge sul
gruppo facebook Hurt/comfort
Italia e anche per
l'iniziativa #200summerprompts indetta
dal gruppo Non
solo
Sherlock - gruppo eventi multifandom
Comunque. Questo è letteralmente un mattone ed è il motivo per cui io
non scrivo le AU: non ho il senso della misura ed è una fortuna che per
questa mi sia fermata solo a diecimila (a differenza dell'altra che è
decisamente molto più lunga di questa), quindi ho voluto dividere
questa storia in tre piccole parti suddivise in sottosezioni
Al momento non sembra che stia succedendo granché, ma vediamo Jon alle
prese con degli incubi e... il suo primo incontro con Damian! Gioia e
gaudio, anche se amian pretende già piccole cose e Jon resta lì
imbambolato come uno scemo
Oh, l'immagine di apertura è di Rim (sia lode e sempre) io l'ho solo
manipolata un pochino per creare l'effetto del titolo
Commenti e critiche, ovviamente, son sempre accetti
A presto! ♥
Messaggio
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Farai felici milioni di
scrittori.
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