No matter how life_2
Titolo: No matter how life
turns around (I'll see you again)
Autore: My Pride
Fandom: Super Sons
Tipologia: One-shot (divisa in tre atti) [ 10274 parole fiumidiparole
]
Personaggi: Jonathan Samuel
Kent, Damian Wayne, Vari ed eventuali
Rating:
Giallo
Genere: Generale,
Sentimentale, Malinconico, Azione
Avvertimenti: What if?, Slash, AU,
Hurt/Comfort
Vorrei incontrarti tra 100 anni
challenge: 50.
Battito cardiaco || 177. Esame || 63. Contadino (Tipologia 4:
Incontrarsi in un altro contesto storico/sociale (AU) + Reincarnation
AU)
Take your business elsewhere
Challenge: 9.
Di mezzo c'è un segreto || 17. Personaggio X non è umano || 28. Uno
specchio || 34. Y non è mai stato così vicino a X || 39. Stupire
200 summer prompts: Balliamo
|| Segreto || Personaggio X vuole esserci
SUPER
SONS © 2016Peter J. Tomasi/DC. All Rights Reserved.
ATTO DUE. PRATI DI ASFODELO
Era passato un mese
dal suo primo incontro con Damian e, per quanto nelle ultime settimane
si fossero divertiti, quei sogni – ormai incubi – non avevano smesso di
tormentare Jon.
Ogni notte si facevano sempre più vividi, le nuvole
dorate diventavano ammassi voluminosi che ricordavano antiche case, le
colonne diventavano sempre più alte e gli abitanti di quel luogo da
sogno figure sempre meno spettrali, ma c’era sempre e solo una
costante, quegli occhi verdi e languidi colmi di lacrime. Di chi erano?
Per chi piangeva quel ragazzo? Jon non riusciva a riposare come avrebbe
voluto e si svegliava sempre più stanco, senza più riconoscere la sua
immagine riflessa nello specchio. Quel mattino non era andata meglio, e
le occhiaie erano così profonde, mentre osservava il suo riflesso nello
specchio del bagno, che decise di rimanere a casa nel tentativo di
riposare almeno un po’. Avrebbe dovuto dare l’ultimo esame il prossimo
mese, ma in quelle condizioni non sarebbe riuscito a fare niente,
figurarsi a studiare. Così chiamò i suoi amici e disse loro che stava
male e che non sarebbe passato in biblioteca, facendosi una lunga
doccia per schiarire i pensieri e rilassarsi.
Fu mentre si stava lavando, però, che un paio
d’occhi verdi si affacciarono nuovamente nella sua mente e Jon si portò
una mano a coppa fra le gambe, rendendosi conto di ciò che stava per
fare appena in tempo. Oh. Oh,
Cristo. Stava per masturbarsi pensando a Damian? Perché, sì,
era inutile girarci intorno: sognava degli occhi verdi da un mese, ma
era ovvio che quelli che lo facessero impazzire erano gli occhi verdi
di Damian e che fossero anni che non si sentiva così vicino a qualcuno
come con lui. Com’era strana la vita, certe volte.
Picchiettò la fronte contro il muro e si diede
mentalmente dello stupido – prima o poi si sarebbe fatto venire una
commozione – mentre borbottava tra sé e sé, cercando di scuotersi e di
lavarsi e basta. Rimase sotto il getto scrosciante della doccia per
quelle che gli parvero ore, lo sguardo fisso sul piatto e sui suoi
piedi per osservare l'acqua che veniva inghiottita dallo scarico, con i
palmi contro il muro e i capelli che gli si incollavano il viso in
ciocche completamente zuppe. Il dormire poco gli aveva fatto peggiorare
il mal di testa che aveva da giorni e aveva pensato che una doccia
l'avrebbe rilassato un po', ma si era maledettamente sbagliato. Così,
una volta asciugatosi e infilatosi giusto un paio di pantaloni,
riacchiappò il suo cellulare e si gettò sul divano, indugiando nel
fissare lo schermo. Avrebbe dovuto chiamare Alan? Dirgli davvero che
avrebbe saltato l'incontro solo? Non lo sapeva, ma si sentiva piuttosto
fiacco e non aveva davvero voglia di vedere nessuno.
Stava quasi per cercare il numero dell'amico quando
il cellulare squillò e lui per poco non saltò dal divano come un
idiota, acchiappando quel maledetto telefono che era quasi scivolato
via dalle sue mani solo per notare l'ID chiamante e sospirare. Kathy. Aveva un sesto senso per
quelle cose oppure era soltanto una sua impressione?
«Ehi», rispose al terzo squillo, e subito gli giunse
alle orecchie la replica indignata dell'amica.
«Non dirmi “Ehi”, Jonno». La voce di Kathy suonava
abbastanza stanca e, mentre lei tratteneva uno sbadiglio, Jon sentì
qualche brusio di sottofondo. «Dove sei? Io e i ragazzi ti aspettiamo
da un'ora».
Un'ora? Ma
che diavolo...? «Un'ora?» ripeté ad alta voce, e Kathy sbuffò ilare.
«Beh, ben svegliato, bell'addormentato».
«Gh, non prendermi in giro, sono troppo stanco per
risponderti a tono e con lucidità».
«Oh... qualcuno ha fatto le ore piccole?» Jon non
poté vederla ma, dalla risatina che le scappò, fu sicuro che Kathy
stesse sorridendo come non mai. «Magari con quel ragazzo di cui ha
parlato tanto fino alla nausea?» Schioccò la lingua, imitando il rumore
di un bacio e poi qualcos'altro di molto più osceno risucchiando
l'aria, cosa che fece arrossire Jon fino alla punta delle orecchie.
«Cosa?! No!»
esclamò a voce un po' troppo alta e troppo in fretta, e Kathy scoppiò
in una fragorosa risata.
«Rilassati, Johnny! Stavo soltanto scherzando!»
«Ehi, Kathy, di' a quel Casanova di portare qui le
chiappe se ha passato la nottata a scopare!»
Alle parole di Alan, urlate così forte che poté
sentirle perfettamente nonostante fosse dall'altro capo del telefono,
Jon provò l'impulso di seppellire la testa nei cuscini del divano e
nascondersi fino alla fine dell'anno scolatico. Odiava i suoi amici e
le loro supposizioni, dannazione a lui e al fatto che avesse parlato
loro di Damian.
«Non ci ho combinato niente, idioti», borbottò
arreso, passandosi una mano sulla faccia. «A stento ci siamo baciati».
«Come no, frequenti un tipo per un mese e nemmeno lo
baci. Cos'è, aspettate il matrimonio?»
Avrebbe strozzato Kathy e la sua ironia, parola sua.
«Ci sentiamo, Kat», tagliò corto Jon con un brontolio, ma l'amica lo
frenò con una sequela cantilenante di “No, no, no” alla quale Jon
sbuffò. «Senti, non ho dormito bene e credo di avere la febbre. Tutto
qui». Dal ricevitore sentì un suono, una specie di mormorio di
disapprovazione, poi qualche rumore come se Kathy si fosse allontanata
e infine un sospiro.
«Ancora quegli strani sogni?» domandò sottovoce, e
Jon esitò. Kathy era l'unica a sapere degli incubi che faceva, anche se
non raccontata tutti i dettagli per non farla preoccupare troppo.
Inoltre neanche lui sapeva dare una vera e propria spiegazione a ciò
che sognava e a volte a stento li ricordava, quindi non avrebbe potuto
farlo comunque nemmeno volendo. Così sospirò e annui, ricordandosi solo
dopo attimi di silenzio che Kathy non era lì e non poteva vederlo.
«A volte», ammise. «Adesso riesco a vederli meglio,
ma non capisco comunque cosa vogliano significare».
«Forse dovresti davvero prendere in considerazione
l'idea di andare da un oniromante, Jon».
Jon storse il naso, arricciando le labbra. «Non mi
va di parlare di quello che sogno ad un perfetto sconosciuto, Kathy».
«Intanto è un mese che non dormi decentemente
proprio per colpa di quei sogni, quindi tu cerca di pensarci, okay?»
La preoccupazione della ragazza era palpabile anche
attraverso il cellulare, e Jon sospirò pesantemente, passandosi una
mano fra i capelli. «...d'accordo. Salutami i ragazzi, okay? Di' loro
che non mi sento bene, ci vediamo domani». Indugiò per un istante,
mordendosi il labbro. «Magari potresti accompagnarmi tu da
quell'onirocoso».
«Contaci», replicò, e dalla voce parve più
rassicurata. «Cerca di riposare, Jonno».
«Ci proverò. Ciao, Kathy».
«Ciao, Jon».
Quando riagganciarono, Jon gettò il cellulare sul
divano e spalancò le braccia dietro lo schienale, reclinando la testa
all'indietro con un gemito frustrato. Parlarne non lo aveva fatto
sentire meglio, ma almeno era riuscito a togliersi in parte il peso che
aveva nello stomaco da quando si era svegliato. Odiava dover dar buca
ai suoi amici in quel modo e ancor più non riuscire più a seguire il
normale ritmo della sua vita, e a lungo andare aveva quasi paura che
sarebbe incappato in una crisi nervosa e che il poco sonno che si
concedeva avrebbe finito col farlo delirare. Forse Kathy aveva
ragione, doveva proprio decidersi a parlare con qualcuno, ma poteva
farlo davvero? Lui stesso a volte si sentiva terrorizzato dai suoi
sogni, come avrebbe potuto raccontarli ad uno sconosciuto che, in base
ad essi, avrebbe giudicato anche la sua psiche? Non l'aveva nemmeno
accennato ai suoi genitori, dannazione! Persino suo fratello Conner era
completamente all'oscuro della cosa, e a Conner aveva raccontato
letteralmente di tutto, persino della sua scappatella con la sua amica
Georgia quando aveva quindici anni e del terrore che aveva avuto nel
credere che l'avesse messa incinta.
Sì, forse potrei
provare, si disse comunque, allungando pigramente un braccio per
afferrare il telecomando e cominciare a fare zapping; a quell'ora non
c'era granché da vedere, così mise semplicemente il canale dei cartoni
animati e lasciò che i Looney Tunes riempissero il soggiorno con le
loro voci squillanti e le loro situazioni al limite dell'assurdo,
giusto per avere un po' di compagnia e distrarsi dai sogni che gli
avevano rimescolato la testa. Non seppe quanto tempo passò lì seduto a
vegetare, sdraiandosi poco dopo solo per sprimacciare il cuscino e
alzare un po' il volume, lo sguardo fisso sullo schermo della tv e
l'aria a dir poco annoiata.
Nemmeno si accorse di essersi addormentato, ad un
certo punto. Qualcuno nella sua testa urlò a squarciagola un nome e Jon
vomitò al lato del divano prima ancora di aprire gli occhi, portandosi
le dita fra i capelli per stringere le ciocche e urlare, come se ciò
potesse aiutarlo a scacciare le orribili immagini che si erano impresse
nelle sue retine che schiacciò contro i palmi delle mani. Stavolta
l’incubo era stato fin troppo chiaro, e l’aveva terrorizzato: giganti
che calpestavano corpi ormai senza vita, colonne divelte e spezzate che
erano crollate in mille pezzi in un’enorme spiazzale che un tempo era
stato dorato e che si era invece macchiato di sangue, e poi un ragazzo
dal volto ancora sfocato, con addosso un’armatura scura e il cappuccio
a nascondere gran parte dei capelli, la falce in frantumi quanti le
spalline dorate e le vesti logore, che urlava il suo nome – il suo
nome? No, un momento, quello che aveva sentito nel dormiveglia non era
il suo nome – e cercava di raggiungerlo nonostante la caviglia
spezzata, poi qualcosa gli afferrava gli arti e lui aveva appena il
tempo di voltarsi indietro solo per vedere uno di quegli enormi Titani
strappare la sua carne e dilaniarlo, smembrandolo e divorandolo davanti
agli occhi terrorizzati di Thanatos.
Jon interruppe il filo dei suoi pensieri e sgranò
gli occhi, sbirciando il soggiorno attraverso la fessura tra le dita.
Chi era Thanatos? Perché quel nome si era fatto largo nella sua mente
come se avesse dovuto significare qualcosa? D’accordo, ne sapeva
abbastanza di mitologia da rendersi conto che erano nomi di Dei e che
Thanatos era considerato dai greci la personificazione della morte, ma
questo come lo aiutava a spiegare i suoi incubi? Non lo faceva, ecco
come. Conosceva solo in parte la storia di Thanathos, del “dio”
arrogante e impulsivo nemico degli umani e mal visto persino dagli
altri Dei, ma come avrebbe potuto il padrone del Tartaro, una potenza
così meschina e implacabile, piangere la morte di qualcuno quando egli
stesso rappresentava la morte? Tutte domande a cui Jon non sapeva
rispondere e che gli facevano solo dolere la testa, e si massaggiò le
tempie con entrambe le dita mentre si drizzava a sedere sul divano.
Era tutto così… strano e assurdo, ogni tassello che
gli sembrava di trovare si frantumava nelle sue mani solo per
aggiungerne un altro più complicato del precedente, e stava cominciando
davvero a sentirsi stanco per la situazione che stava vivendo. Anche se
adesso aveva almeno un nome, non se ne faceva assolutamente niente
quando quel nome accavallava nella sua testa dubbi su dubbi e lo
rendeva ancora più confuso di prima.
Sbuffando, Jon si alzò barcollante e andò in bagno
per lavarsi la bocca, afferrando anche lo straccio per dare una
ripulita. Fortunatamente aveva fatto sparire il tappeto mesi prima – lo
aveva considerato solo un ricettacolo di polvere che lui si scocciava
di pulire –, altrimenti gli sarebbe toccato portarlo in tintoria per
lavar via tutto il vomito che aveva sporcato il pavimento; storse un
po' il naso alla vista e per poco non diede di nuovo di stomaco – era
sensibile, d'accordo? Tante persone non resistevano –, ma si diede un
contegno e ripulì ogni traccia, passandosi il dorso della mano sulla
fronte accaldata. Non aveva fatto chissà quale sforzo, quindi perché si
sentiva bruciare? Forse il suo corpo stava cominciando a risentire
delle poche energie che riusciva ad accumulare, ma Jon non aveva
intenzione di provare a dormire ancora. Sarebbe stato letteralmente
inutile. Andò invece in cucina a prepararsi una bella tazza di the –
anche se faceva caldo voleva un the, e allora? Non voleva essere
giudicato per questo – e si piazzò poi davanti al computer portatile,
mollandolo sul tavolino per cominciare la sua ricerca. Ma cosa stava
cercando, esattamente? Informazioni su Thanatos? Sul perché facesse
quei sogni? Non lo sapeva, ma iniziò una ricerca a tappeto mentre
sorseggiava il proprio the al bergamotto, la fronte aggrottata dalla
concentrazione e lo stomaco che poco a poco si assestava grazie alla
bevanda calda.
Passò molto probabilmente ore davanti al computer,
scartando siti web che davano solo informazioni inutili per cercare
invece qualcosa che avrebbe potuto avere senso, e stava quasi per
rinunciare quando un articolo catturò la sua attenzione e lui cliccò
immediatamente su di esso; le prime righe erano cose che già sapeva,
vecchie rimembranze di vecchi racconti di sua zia Diana quando tornava
dai suoi viaggi nei siti archeologici di tutta la Grecia, ma ben presto
il racconto si fece più intenso, tanto che avvicinò il viso allo
schermo.
«Nei rari
ritratti, Thanatos è rappresentato come un giovane alato, spesso in
compagnia di suo fratello Ipno. Il suo carattere, secondo il mito, è
irruento: egli ama il sangue, la morte e la violenza, ritenuta un
potere invincibile. È nemico del genere umano, ma odia anche gli dei».
Jon lesse quel paragrafo ad alta voce più e più volte, quasi volesse
cercare di imprimerlo bene nella testa mentre si grattava il mento. Ciò
che aveva sognato non aveva assolutamente senso, soprattutto se ogni
ricerca su internet gli dava sempre lo stesso risultato riguardo
Thanatos e la sua storia. «Nella
mitologia non ha un mito vero e proprio, ma è presente nei racconti
popolari. Esiodo lo descrive come una creatura dal cuore di ferro,
visceri di piombo e ali di pipistrello».
Uno strano brivido corse lungo la sua schiena e Jon
si gettò automaticamente una rapida occhiata alle spalle, scrutando il
soggiorno come se avesse la sensazione di essere osservato; aggrottò la
fronte e si passò una mano fra i capelli, scuotendo la testa nel darsi
dell'idiota subito dopo. Si tratta solo di suggestione, Jon, si disse
immediatamente, traendo un lungo sospiro prima di voltarsi di nuovo
verso lo schermo del computer e continuare a digitare ricerche su
ricerche, deciso più che mai a trovare una spiegazione. Si fermò solo
quando trovò l'ennesima pagina che parlava in linea di massima delle
stesse cose, ma un paragrafo in particolare colpì Jon, che si sistemò
gli occhiali sul naso come se ciò avrebbe potuto aiutarlo a leggere
meglio.
«In altri miti,
Thanatos non viene ritratto in modo così implacabile, e viene
contrapposto al fratello Ker, simbolo della morte violenta, come
rappresentazione della morte in pace».
Era così concentrato che un rumore improvviso lo
fece trasalire e sussultò, voltandosi verso la finestra col cuore in
gola; inciampando nei suoi stessi piedi, si affacciò e scrutò il cielo,
cercando di scorgere l'ombra scura che gli era parso di vedere quando
era corso fin lì; per quanto stesse calando il tramonto, quell'ombra
era sembrata ben più di un comune uccello che si librava là fuori,
aveva avuto come l'impressione di vedere grosse ali di pipistrello
sbattere davanti ai vetri socchiusi, uno strano rumore di cuoio
rilegato e il possente spostamento d'aria che aveva fatto gonfiare le
tende, eppure non c'era assolutamente niente là fuori. Forse il poco
sonno e la stanchezza stavano iniziando a fargli immaginare fin troppe
cose, e i racconti che stava leggendo di certo non aiutavano la sua
paranoia.
Il suono di una notifica su Instagram lo distrasse
dai suoi pensieri e, afferrando al volo il cellulare, sorrise un po’
alla vista del nome di Damian tra i messaggi privati. Si erano seguiti
a vicenda praticamente lo stesso giorno in cui si erano conosciuti e di
tanto in tanto Jon sbirciava tra le sue storie e i suoi post – per lo
più aveva foto dei suoi animali, un alano e un gatto dal pelo nero che
sembrava un piccolo maggiordomo –, ma avevano anche passato il tempo a
messaggi are quando trovavano un momento per farlo; era strano come
Damian riuscisse a tranquillizzarlo pur non essendo lì, soprattutto
tenendo conto di quanto fosse sembrato stupido e impacciato in sua
compagnia durante i primi giorni in cui si erano visti. Non si stavano
esattamente frequentando, ma a Jon di certo non dispiaceva passare del
tempo in sua compagnia e non sarebbe stato male nemmeno uscire a vedere
un film o… d’accordo, doveva frenare un attimo. Un paio di uscite erano
da considerare un appuntamento? Sì, lo erano di certo. Jon si diede
dell’idiota e aprì il messaggio, sorridendo se possibile ancora di più.
“Ciao, Jonathan.
Mi chiedevo se fossi libero domani”.
Jon ridacchiò. Quale ventenne era così formale anche
quando scriveva un messaggio su Instagram? Avrebbe quasi voluto
prenderlo in giro, ma aveva già l’umore sotto le scarpe senza che il
suo stupido lato sarcastico si mettesse a punzecchiare Damian che, sì,
a parte i messaggi formali era stato persino gentile per i suoi
standard. Jon in quel mese aveva imparato che Damian sapeva essere
piuttosto arrogante e saccente quando voleva aver ragione a tutti i
costi, impressione data anche dallo snobismo che permeava tutto il suo
essere. Eppure Jon aveva capito che quella era solo una facciata per
tenersi dentro ciò che provava.
“Ehi, D. Ho un po’
di febbre, ti faccio sapere”.
La risposta non tardò ad arrivare, quasi avesse
guardato per tutto il tempo il cellulare. “Hai bisogno di qualcosa? Posso essere lì
in mezz’ora, quaranta minuti”.
Quanto accidenti era carino quel ragazzo, quel
giorno? “Tranquillo, un’aspirina e un
po’ di sonno e starò alla grande”.
“Mhn, se lo dici tu. Questo succede perché dormi in
mutande”.
D’accordo, Jon si rimangiava tutto quello che aveva
detto. Damian era lo stesso idiota che aveva conosciuto in quel mese. “E tu che diavolo ne sai che dormo in
mutande?”
“Grazie per averlo
confermato. Prendi qualcosa e va’ a dormire”.
“…ti odio, D”.
“Felice di sentirlo”.
Jon indugiò un po’ su cosa scrivere, cancellando più
e più volte messaggi che avrebbero potuto sembrare provocanti – “Ho
cambiato idea, vieni a curarmi tu”, “Sai cosa, forse ho bisogno di un
infermiere” – o addirittura pessime frasi di abbordaggio mentre tornava
seduto davanti al computer, ma Damian fu più svelto di lui.
“Guarda che stavo
scherzando”, scrisse, e Jon per poco non scoppiò a ridere. Oh,
accidenti, aveva davvero pensato…
“Non ti stavo
evitando”.
“Oh, sei vivo.
Sembrava il contrario”.
“Volevo scrivere
una battuta stupida, ma forse il mio cervello è troppo sciolto dalla
febbre per funzionare come si deve”.
“Dormi, Jonathan.
Ci vediamo quando starai meglio”.
“Voglio davvero
uscire con te”.
Oh, dannazione, l’aveva inviato davvero e non aveva
fatto in tempo a cancellarlo che Damian l’aveva già letto, tanto che in
quei pochi secondi che passò nel vedere che stava digitando qualcosa
quasi gli si mozzò il fiato nel petto.
“Felice di saperlo
😉” scrisse stavolta,
e Jon si passò una mano davanti al viso arrossato nel rendersi conto
che Damian aveva persino usato un’emoji. Va bene, sarebbe morto di
vergogna e di lui avrebbero ricordato che faceva strani sogni e
ricerche su déi greci.
“Sarà meglio che
dorma ciao” rispose in fretta, gemendo quando gli arrivò l’emoji
di una faccina divertita e un “Buonanotte”
da parte di Damian. Figure dell’idiota ne aveva? Perché ne aveva appena
fatte parecchie uva dietro l’altra, quindi tornò a concentrarsi sulle
sue ricerche per scacciare l’imbarazzo della situazione.
La sensazione di oppressione al petto tornò mezz’ora
dopo, quando ormai la vergogna era scemata e lui aveva sentito la testa
ribollire di domande su domande e girare vorticosamente, dolente;
faticava a tenere gli occhi aperti e gli sembrava che stessero
letteralmente bruciando, tanto che finì con l’appisolarsi per un
istante proprio sulla tastiera. Stavolta gli sembrò di camminare su una
nuvola, lo strano odore di zolfo sfumò e si mescolò con quello dei
fiori e lui si guardò intorno per cercare di capire cosa stesse
succedendo, dato che aveva come l’impressione di star letteralmente vivendo il sogno; non
c’erano colonne, non c’erano altre persone all’infuori di lui se non
ombre lontane, i suoi piedi nudi affondavano nel terreno e le sue dita
sfioravano i petali di quel prato di asfodeli, donandogli pace; aveva
la testa leggera e le sue vesti leggere si muovevano pigramente alla
piacevole brezza che trasportava con sé una moltitudine di profumi,
pollini e petali, soffi di zefiro che carezzavano le narici e placavano
l’animo, tutto così diverso dalla distruzione che, ogni singola notte,
Jon aveva visto quando si immergeva nel profondo dei suoi incubi.
Un nitrito lo distrasse, il volo di una moltitudine
di uccelli colorati richiamò la sua attenzione e lui si voltò,
avvertendo il suono familiare – un attimo, perché avrebbe dovuto
esserlo? – di un battito di grosse ali cartilaginee e lo stridio della
punta di una falce che scivolava contro una roccia. Col cappuccio
calato sugli occhi, l’armatura scintillante sotto al sole e la collana
d’oro che avvolgeva finemente tutto il collo, la figura appena
atterrata gli si avvicinò con passi aggraziati e silenziosi, facendo
frusciare la lunga veste scura che indossava.
«Non dovresti essere qui», disse Jon, ma quella non
era la sua voce. Era più roca, più profonda, vagamente velata di
rimpianto e preoccupazione, ma tutto svanì in un istante quando una
gelida mano gli sfiorò il viso, carezzandogli una guancia con tocco
gentile.
«Possono temermi, odiarmi e addirittura incatenarmi…
ma non possono tenermi lontano da te. Non con ciò che sta per
accadere».
«Neppure tu che sei la Morte puoi modificare il
destino deciso dalle Moire, Thanatos».
Le mani strinsero più forte, l’odore dei fiori sparì
come se fossero appassiti tutti nello stesso istante. «Abbi fiducia in
me… Zagreus».
«Jonno?»
Jon sollevò la testa così in fretta che il collo
scrocchiò e lui gemette di dolore, ripulendosi la bocca con il dorso
della mano quando si rese conto che un rivoletto di saliva aveva
cominciato a colargli giù fino al mento; gli ci volle un attimo di
troppo per mettere a fuoco la figura di Kathy, la quale lo osservò
stranita mentre sbatteva le palpebre. L’amica sapeva dove nascondeva
una copia delle chiavi quindi era sicuramente entrata così, ma perché
non aveva semplicemente suonato anziché farlo sobbalzare in quel modo?
«Mi hai fatto prendere un colpo, Kat». Jon si
massaggiò il collo, sentendo dolore da tutte le parti. «Non mi spiace
che entri quando vuoi, ma almeno vorrei che tu mi avvertissi».
«Ti ho chiamato per mezz’ora e non hai risposto, mi
ero preoccupata e sono corsa qui».
Jon si fermò con la mano premuta dietro al collo,
guardando l’amica con tanto d’occhi. «Mezz’ora?» chiese conferma, e al
suo annuire rimase ancor più sconcertato. Possibile che non avesse
minimamente sentito il telefono, visto il baccano infernale che
solitamente faceva la sua suoneria? «Scusa, tutto okay. Mi sono solo
appisolato».
«Non hai una bella cera, sicuro di star bene?»
«Sì, io… credo di sì».
«Credo è la
parola giusta, sei bianco come un fantasma». Senza tanti preamboli,
Kathy gli spiaccicò una mano sulla fronte, sgranando gli occhi nel
sentirla bollente sotto al suo tocco. «Accidenti, stai bruciando», lo
accusò quasi, chiudendo le stessa il portatile nonostante le proteste
di Jon. «Per oggi basta cazzeggiare, un bel brodo di pollo e dritto a
letto».
«Tu frequenti troppo mia nonna, Kat».
Kathy grugnì in risposta. «Martha è il mio spirito
guida. Ora smettila di insultare i suoi rimedi e datti una mossa,
campagnolo», disse schietta, e Jon roteò gli occhi.
Non se ne sarebbe andata finché lui non avesse fatto
ciò che aveva chiesto, così si fece forza sulle gambe malferme e si
tirò su, barcollando per un istante; l’amica ebbe la prontezza di
riflessi di afferrarlo per i fianchi e di sorreggerlo, e Jon le gettò
un braccio dietro alle spalle per non gravare con tutto il suo peso su
di lei mentre si dirigevano in camera da letto. Senza Kathy
probabilmente Jon sarebbe stato perso, ed era bello sapere che,
nonostante non si fossero inizialmente visti per anni, la loro amicizia
d’infanzia non fosse cambiata un granché. Fino a dieci anni aveva
vissuto nelle campagne di Hamilton e Kathy e suo nonno erano stati un
vero e proprio aiuto per la fattoria, o sarebbero colati a picco il
primo anno; col tempo erano riusciti a mantenere la baracca ma, non
appena i suoi genitori avevano ricevuto la proposta di lavorare alla
redazione giornalistica di Metropolis, l’intero mondo di Jon era
cambiato. Aveva pestato i piedi, aveva urlato che non era giusto e che
non avrebbe voluto abbandonare i suoi amici, aveva pianto e implorato
come solo un bambino di dieci anni avrebbe potuto fare, ma alla fine si
era ritrovato comunque ad impacchettare la sua roba per cominciare una
vita lontano da Hamilton. Salutare Kathy era stata la parte peggiore e
avevano pianto una giornata intera, e persino nella sua nuova casa di
Metropolis Jon si era sentito piuttosto a disagio. Gli ci era voluto
del tempo, molto più di quanto i suoi genitori avessero previsto, ma
alla fine era riuscito ad adattarsi e ad abituarsi alla frenetica vita
di città, del tutto diversa da quella vissuta fino a quel momento in
campagna.
In tutto quel tempo aveva cercato di tenersi in
contatto con i vecchi amici e, quando Kathy si era trasferita per
l’università, aveva toccato il cielo con un dito al pensiero di poter
passare nuovamente del tempo con la sua migliore amica. Forse
all’inizio da bambino aveva avuto una piccola cotta per lei, ma col
tempo aveva finito col vederla come la sorella che non aveva mai avuto
e a distanza di anni era bello poter contare ancora su di lei. Anche se
a volte era una ragazza petulante, era la sua ragazza petulante. E non
l’avrebbe cambiata con nessun altro al mondo.
Quando arrivarono i camera, Kathy lo costrinse
letteralmente a togliersi la maglietta nonostante le nuova proteste,
sbottando che non era di certo la prima volta che lo vedeva mezzo nudo
e che il suo fidanzato non ne sarebbe certamente stato geloso; Jon
aveva replicato comunque che Damian non era il suo fidanzato, ma Kathy
aveva fatto letteralmente finta di non sentirlo e, mentre lui si
cambiava, era andata a prendere dei medicinali nell’armadietto del
bagno, tornando persino con una pezza umida che gli schiaffò
letteralmente in fronte senza tanti complimenti.
«Kat! Ma che diavolo--»
«Oh, sta’ zitto. Ti farà bene, ti abbasserà un po’
la temperatura», affermò lei nel porgergli un bicchiere e delle
pastiglie, e Jon borbottò tra sé e sé, scostando le lenzuola coi piedi
prima di squadrare quelle medicine e storcere il naso. «Non fare quella
faccia e manda giù, Jonny-boy».
«E tu piantala di imitare mia madre, sei
inquietante».
«Sarai ancora più inquietato quando la chiamerò per
dirle che suo figlio si comporta come un moccioso e sarà qui davvero».
Jon sgranò gli occhi. «Non oseresti», sibilò, ma Kathy rise e si curvò
verso di lui, sorridendo.
«Mettimi alla prova», affermò, ridendo a più non
posso all’espressione sconcertata che si dipinse sul volto di Jon prima
che si decidesse a prendere le medicine.
Tutto sommato, Jon ammise a sé stesso che, per
quanto non si fosse sentito molto in vena di ricevere visite, non fu
comunque male avere compagnia. Avevano parlato, Kathy si era assicurata
che stesse bene e, lamentandosi di quanto poco fosse affidabile il suo
frigo mezzo vuoto, gli aveva ordinato la cena – “Grande e grosso e hai davvero solo ramen
istantaneo da mangiare?!” – e si era assicurata che la finisse
tutta e che prendesse le sue medicine, senza pressarlo sulla questione
che lo opprimeva da un po’ di tempo a quella parte. Era stato Jon
stesso a dirle delle sue ricerche e delle strane sensazioni che aveva
provato nel farle, di ciò che aveva scoperto e di quanto tutto suonasse
ridicolo e assurdo, e Kathy aveva insistito sul fatto che avrebbe
dovuto parlarne con qualcuno, anche solo per venire a capo della
matassa che si era ingarbugliata nella sua testa. Jon aveva parlato
letteralmente di tutto… ma non le aveva raccontato quel sogno che aveva
fatto, lo strano sogno in cui aveva discusso con Thanatos come se lo
conoscesse da tutta la vita, né tanto meno le aveva parlato di come in
quel sogno fosse un’altra persona. C’era troppo da spiegare e troppo da
catalogare… e stava cominciando a pensare che le cose gli stessero
letteralmente sfuggendo di mano.
Forse la notte avrebbe portato consiglio.
_Note inconcludenti dell'autrice
Allora, qui cominciamo ad addentrarci un po' di più nel
cuore della storia e qualche nodo comincia a venire al pettine, anche
se se ne stanno creando di nuovi
Qui entra in scena anche un'amica storica di Jon: Kathy! L'avevo già
nominata in altre one-shot legate alla raccolta Allegretto
~ Deux ou trois choses que je sais de nous e anche in qualche
storia della raccolta Smile in a
cornfield ~ a flower that has the breath of a thousand sunsets
A differenza di quelle storie, però, qui Kathy ha un ruolo più centrale
e sembra un po' guidare Jon, sempre più confuso dai sogni che sta
facendo e sempre più desideroso di vivere quella nuova relazione che
sta cominciando a vivere insieme a Damian. Come andranno a finire le
cose tra loro? Lo scopriremo presto!
Commenti e critiche, ovviamente, son sempre accetti
A presto! ♥
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