amsterdam

di StagTree
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universo alternativo – preciso – in un cui reigen e mob non si conoscono e suonano strumenti e musica classici. mob è adulto. venticinque o più

non so come funzionano gli spettacoli di questo tipo e sono andata a fantasia sorry. ma la musica mi piace molto

 

https://www.youtube.com/watch?v=U5Y0uQLgriA

 

 

 

But time, is on your side

It's on your side now

Not pushing you down, and all around

It's no cause for concern

 

 

  1. diverso

 

 

Le esibizioni vanno avanti, e non hanno più bisogno delle sue mani – ha i calli, e la nota solo adesso, la bruttezza nel ruvido – quindi siede, nei retroscena, su una panca, e ascolta i passi secchi sul parquet, fuori tempo. C’è musica, ancora, e gli artisti fanno a turno per entrare e uscire, e il pubblico applaude. Non è l’unico pianista; non è l’unico pianista bravo.

Quando ha suonato lui – si è esibito lui, con la giacca nera e il papillon e tutto il resto – si è mosso sui tasti del pianoforte con la schiena incurvata, e il petto pieno d’aria. Molle, flessibile, il corpo è sciolto e preme, morbido, impercettibile; il ragazzo che lo ha accompagnato col violoncello suona timidamente, come il pezzo non lo vuole, e Reigen si è impegnato, accigliato, per regalargli lo spazio che merita. E il ragazzo nel frattempo, se ne accorge: china il viso, leggermente il mento, e a sua volta dona, a Reigen, un profilo giovane, e il maturo rossore sulle guance pallide, gli occhi stretti nella sua smorfia di timore. Il ragazzo lo tocca, con gratitudine e vergogna, e lo sguardo che si scambiano è irrimediabile.

Quando finiscono, si alzano e si piegano e dietro le quinte, quasi corre. Via da lui, Reigen – distrattamente, quando sente, arreso, il vecchio pavimento cigolare, usurato – lo pensa davvero. E le esibizioni vanno avanti, e non hanno più bisogno del ragazzo sommesso e delle sue, di mani, che hanno abbandonato il suo arco almeno mezz’ora fa; il ragazzo sommesso, di cui solamente a Reigen rimane una figura mentale, bianca, di gesso – e l’ombra nera sui suoi occhi non avrebbero potuto oscurarne la luce e l’emozione, lucidi di grazia, mascolina, chiusi poi nel flusso della melodia francese. Non ha motivo per essere lì, ma Reigen non è ancora pronto per lasciare al palco la sua immagine e ricordo, dar loro le spalle, cinte in alloro – non è dimenticare, perché non potrebbe mai dimenticare; è abbandonare – la memoria di un viso tonico, teso contratto – è abbandonare le sue linee magre e quadre del mento, eleganti, che seguono il collo e sorpassano il pomo d’Adamo, fin sotto al colletto soffocante della camicia bianca. E pensa, lo pensa davvero – giù ancora andranno, dove non può vederle. L’immagine è immortale: la corona lo cinge, sopra lo spesso nero alone dei capelli.

Gli tocca una spalla. Reigen si gira, non è aggraziato; da quell’altezza si sente d’esser più basso di quello che è (passivo, umile). E si guardano: ancora è intenso e intimo e personale, e sembra – gli sembra, ed è teso, ne è quasi convinto – che tutto si sia fermato per loro. Il ragazzo è impassivo e ha gli occhi fissi e attenti. Al primo rumore sbagliato, potrebbe balzare, ritirarsi; lepre.

“Reigen,” dice.

Reigen si fa tirare – si sforza – il viso in un sorriso, piccolo, benché, che sia. “Così mi chiamano,” dice. E pare funzionare, illuminato biecamente e senza ritegno. Persone e strumenti camminano loro attorno, e parlano a bassa voce, e con loro, da un’altra parte ancora – città e universi, lontani da loro – applausi. E’ un bel ragazzo.

Si presenta; dice, “Shigeo,” dopo una pausa. E non tende la mano, Shigeo, non serve; sotto la giacca aderisce alla pelle, una camicia bianca, e così sotto la camicia aderiscono muscoli, discreti – e così attorno al collo, una cravatta, e forse, è stretta troppo, troppo poco.

Shigeo è un bel ragazzo. Non è l’unico violoncellista, e non è l’unico bravo – ma è l’unico, Shigeo, e si eregge come una torre, alto, e dall’alto, su Reigen, cade la sua ombra, fantasma.





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