Everything’s
changing,
but…
nothing will really change.
05.
hospital
«Muntz, sei di turno anche oggi?» Il tono incuriosito
del dottor Riviera attirò l’attenzione del portantino: il ragazzo stava
recuperando le lenzuola dalla pulizia di uno dei tanti reparti degenze presenti
in quell’ala dello Springfield General Hospital. Nelson sorrise cordiale mentre
gettava i tessuti nella cesta adibita del bucato, congedando lo strano medico con
una frase di circostanza che lo fece ridere non poco. Aveva sempre pensato che
Nick Riviera fosse soltanto un pazzo, uno squinternato riuscito a entrare in
ospedale con qualche raccomandazione – una oliata qui, una mazzetta lì – ma
aveva avuto modo di cambiare idea poco tempo prima, quando quello stesso uomo
assurdo si dimostrò all’altezza di parlare con un certo tipo di malati.
Lì dove i medici convenzionali fallivano, lui arrivava.
Proprio perché particolare, anticonformista, confondente, scavalcava il suo
ruolo mettendosi alla pari dei pazienti più difficili. Questo aveva imparato
nel vederlo interagire con sua madre in uno degli ennesimi ricoveri. Aveva
scelto quindi di proporsi per un lavoro all’interno del plesso ospedaliero così
da poterle stare accanto, considerando ciò che la struttura aveva fatto per
lui, per lei, per loro insomma.
Il carrello cigolava procedendo nel corridoio di servizio, ma Nelson si era
abituato a quel rumore che gli teneva compagnia tanto spesso: quel benedetto
pavimento verde sapone accostato al giallo pennarello delle pareti era orribile,
ma gli permetteva di portare a casa qualche soldo per un posto letto e cibo decente
a ogni pasto. Infilò gli auricolari alle orecchie impostando la playlist
preferita, e lì riprese il turno di lavoro.
«Lisa, che sorpresa! Che ci fai qui?» Nelson sorrise all’amica mentre inspirava
l’ultima boccata di fumo dalla sigaretta, prontamente gettata sul posacenere
esterno a una uscita laterale del sottopassaggio nel seminterrato. «Come hai
fatto a trovarmi qui?»
Lei lo guardò sorridendo, ciondolando la testa prima a destra e poi a sinistra.
«Sono le due e un quarto di una giornata lavorativa, riguardo al fumare sei
preciso come un orologio svizzero, lo sai. Questa uscita poi è la più vicina
alla degenza di Psichiatria, quindi, andando per esclusione…»
«Ok, ok, tante parole, troppe parole. Mi hai trovato, e hai vinto una cosa.» La
prese per il polso e se la portò vicino, abbracciandola con forza e sfregandole
la testa col palmo. «Ecco il tuo premio: contatto fisico a badilate!»
Lisa sorrise aggrappandosi alla giacchetta della divisa. Le piaceva davvero il
contatto umano, ne aveva bisogno come l’aria. La faceva stare bene, soprattutto
se partiva da una delle uniche persone di cui si fidava ciecamente.
«Non cambierai mai, eh?»
«Certo che no, e se io cambiassi, tu che faresti poi? Perché non provi a
chiedere un abbraccio a Milhouse, eh?» Sghignazzò
sapendo di averla colpita sul vivo: l’argomento Van Houten
era ancora un tabù per lei, dopo che lui aveva tentato spesso di rintracciarla infastidendola, perché…
di base… lei non c’era stata. Scosse le spalle cercando di smaltire la pelle
d’oca che stava correndo su tutto il corpo.
«Ti va di andare a bere un caffè qui vicino?»
«No, oggi no, Lisa, ma grazie lo stesso. Oggi vado a trovare mamma.»
Lo sguardo Simpson si intenerì: quanto aveva fatto Nelson, e quanto stava
facendo per la sua famiglia… lo stimava molto, e un po’ in fondo in fondo
sapeva di avere ancora una cotta mostruosa per lui, ce l’aveva dalle elementari
e non aveva mai ammesso di esserci rimasta male nel non aver continuato a
frequentarlo. Erano piccoli, era stato tutto troppo assurdo per essere
qualificato in qualcosa di serio che fosse valso la pena coltivare. Ora che
convivevano per condividere tempo e spese era più difficile, ma si era imposta
di non superare certi limiti proprio perché lui era in difficoltà e stava
vivendo un altro periodo difficile della sua vita.
Cazzo.
Non era proprio un discorso da affrontare con se
stessa in presenza del diretto interessato…
Mise le mani a schermo del proprio petto allontanandosi di poco, riprendendo
possesso del proprio spazio e di aria nuova. Lo guardava e lo apprezzava con
gli stessi occhi di quando aveva soltanto otto o nove anni, ora un po’ più
grande, ora quando tutto sarebbe stato più complicato; se si fosse mossa con
enfasi e avesse rovinato tutto, che ne sarebbe stato di loro, della loro
amicizia? Dell’aiuto reciproco, della compagnia, della comprensione? Tante di
quelle domande, di parole che stavano lavorando a velocità impressionante nel
cervello, e Lisa non si accorse della faccia da ebete che aveva dipinta
addosso.
«Ohi? Ci sei?» Nelson sventolò la mano davanti al suo volto dall’espressione
buffa che aveva scatenato una risata spontanea e contagiosa.
Stupida, smettila di guardarlo così.
«Dai, adesso devo andare. Ci vediamo stasera allora.»
Nelson già stava correndo nel dedalo interno di corridoi mentre ancora Lisa lo
stava salutando con la mano, imbambolata. Raccolse i lembi della gonna scura
che indossava, chiedendosi se avesse dovuto farsi carina per quella sera: non
era niente di che, era già da qualche mese che condividevano lo stesso piccolo
bilocale eppure, per qualche motivo che al momento ancora le stava sfuggendo, sistemarsi
in modo più curato per un ragazzo non era mai stato una priorità, non per lei,
ma ci avrebbe provato. Che male c’era a cercare nell’armadio qualcosa di più
adatto di un golfino arancione?
«Nelson, Nelson Nelson. Sei innamorato, lo vedo.» La
signora Muntz quel giorno pareva particolarmente di
buon umore: rivedere suo figlio a cadenza regolare era una medicina – non
l’unica che le serviva purtroppo, ma aiutava molto – e in quel giorno libero da
colloqui lunghi e snervanti, era ciò di cui aveva maggiormente bisogno. I
capelli ingrigiti raccolti alla bene e meglio le ricadevano disordinati sul
collo, mescolandosi con il blu della camicia da notte che stava indossando in un
contrasto gradevole. Nelson si era seduto sul suo letto, pettinandole la chioma
e riordinandola in una treccia goffa, dandole una certa importanza con un
sorriso concentrato e la lingua che sporgeva dal labbro inferiore, proprio come
nei cartoni animati che tanto amava guardare da bambino.
«Ma, mamma, cosa stai dicendo?!» Lasciò cadere l’elastico dalle dita, andando a
sbattere con la testa contro l’anta del mobiletto personale lasciata aperta con
sbadataggine. Imprecò massaggiandosi la parte colpita, spostandosi di fronte
alla madre, «non dire stupidaggini, sto solo vivendo con lei fino a che la
situazione non si sistemerà per tutti…»
«Oh, non dire così, tesoro. Una madre queste cose le capisce.» Gli sorrise con
il calore sulle labbra e nel petto, abbracciandolo senza preavviso.
«Mamma, possono vederci!»
«E chi? Gli infermieri? Sono troppo impegnati a giocare a carte durante il
giorno per poter farci caso, o sempre attaccati a quei cellulari. Ti sto solo
abbracciando, quando eri piccolo non ti piaceva. Invece adesso mi pare che tu
sia più coccolone, vero?»
Puzzavi di alcool e di altri odori strani, mamma, certo che non mi piaceva…
adesso odori… odori di vestiti puliti.
Nelson si staccò con imbarazzo dopo aver goduto ancora qualche secondo di
quel contatto stretto. Era più coccolone? Sì. Si sentiva un rammollito? Certo.
Andava bene lo stesso? Ovvio.
«Ma come stai qui? Ti trattano bene?»
«Certo Nelson, tre pasti caldi al giorno, due merende, lenzuola e pulizie,
vestiti, un lusso. Qui c’è tutto quello…» la voce si ruppe. Avrebbe voluto
aggiungere “tutto quello che non potevo darti quando eri piccolo” ma il magone
dato dal troppo dolore per quel ricordo la scosse: letteralmente uno schiaffo
sul volto non più giovane. «Sto bene qui, sì. E tu? Con la biondina?»
Un paio di versi inarticolati uscì dalla bocca del ragazzo, contorcendosi sulle
stesse gambe. Pareva di pongo.
«Visto? Sei innamorato, che ti ho detto? Ahhhh, se
avessi venti anni di meno mi innamorerei volentieri anche io, di nuovo. Da
quando papà è morto non sono riuscita pi-» La donna si bloccò, amareggiata,
scottata dalle stesse parole che aveva pronunciato. Se n’era resa conto
soltanto nel momento in cui gli occhi di suo figlio luccicarono un po’ troppo.
Non concluse la frase, si sporse verso di lui e l’abbracciò ancora una volta,
più forte, tremando lievemente. Si scusò ancora, di nuovo si diede dell’idiota
pensando di aver ferito per l’ennesima volta la sensibilità di chi aveva
sopportato fin troppo peso su delle spalle tanto piccole: la cura stava dando i
suoi frutti ma, umanamente, aveva ancora così tanto da imparare nel conversare
con il prossimo… questo, però, le pastiglie non potevano insegnarlo.
«Pizza? Pizza!»
L’entusiasmo di Nelson si avvertì nel completo di quei pochi metri quadri di
superficie calpestabile che lui amava definire “casa”. Un appartamentino in
periferia, un piccolo affitto d’un corridoio stretto, un salotto con cucinino e
un divano letto, una camera e un bagno. Non era tanto, ma era suo, e questo
bastava nel farlo sentire tanto fiero di se stesso. Da
quando sua madre era ricoverata aveva cercato di eliminare ogni traccia di un
fantasma sgradevole – non lei, ma ciò che la stava divorando – pulendo,
gettando oggetti, immondizia, vestiti, tutto.
Aveva eliminato tanto, e poco era rimasto, ma ciò che c’era bastava: si teneva
impegnato nel pulire, spolverare e riordinare, ma da quando Lisa era entrata
nel suo quotidiano era tutto diverso. Era cominciato come un semplice aiuto
domestico fondamentale (non era stato tanto difficile buttare tutto, ma
riuscire a trovare il coraggio di farlo e di cancellare definitivamente ogni
traccia fisica di un presente ormai impossibile) per poi trasformarsi nella
bizzarra proposta che le aveva fatto un giorno.
«Senti, ti va di venire da me? Potremmo smezzare l’affitto e le spese, è
davvero poco. Io non guadagno moltissimo e neanche tu, così potremmo riuscire a
campare un po’. Che dici, proviamo?»
E puff, in un modo tanto facile quanto
sorprendente Lisa era diventata la sua coinquilina.
«Sì, stasera pizza, ti spiace?» la voce familiare aveva risposto dalla sala, ma
Nelson rimase spiazzato nel vedere come il tavolino era stato portato al
centro, apparecchiato con una cura maniacale… pareva un ristorante. E lei.
Era bellissima.
Lisa era qualcosa che non riusciva nemmeno esprimere a parole.
Non era solo per l’abito che aveva scelto per l’occasione – da quando lei si
vestiva così elegante per stare in casa? – ma anche tutto il resto: gli occhi
truccati, il profumo differente… era un sorriso imbarazzato quello?
«Lisa, ma che succede?»
Nelson avrebbe potuto dirle qualsiasi cosa, esordire con ogni singola parola e
invece era caduto in una banalissima domanda idiota.
«In che senso? Una non si può sistemare un po’ per mangiare una pizza? Non sono
mica tutti golfini arancioni e collanine di perle bianche, sai?» Pareva piccata
la ragazza, certo: con tutta la cura che ci aveva messo per sistemare ogni
cosa, ripulire, riordinare, rendere più accogliente quel piccolo locale, e non
solo… il guardaroba era svuotato sul pavimento, il bagno un disastro (aveva
rovesciato lo smalto sul lavandino, la cipria le era caduta a terra aprendosi e
diffondendo sulle piastrelle una profumata polverina bianca, sottile, che le
era finita sotto ai piedi facendola starnutire) e per la mancanza di tempo
aveva chiuso le porte facendo finta di nulla. Però, insomma, sentire esordire
così il coinquilino quasi le diede fastidio. D’accordo, stava pur sempre
parlando di Nelson ma un complimento in più non le sarebbe dispiaciuto affatto.
«S-sì, immagino sia normale. Anzi, scusami, se avessi saputo mi sarei cambiato
pure io. Cosa si festeggia?»
Nulla, non c’era niente da festeggiare, lei voleva solo essere carina per lui.
Come quando aveva otto anni e si metteva le scarpe nuove per andare a trovarlo.
Come quando anni dopo aveva scelto di aiutarlo nella situazione difficile che
stava vivendo, indossando la migliore faccia che aveva per poterlo confortare e
rassicurare.
Non c’era nulla da festeggiare, era vero, ma le sarebbe piaciuto creare
qualcosa che avrebbe potuto meritare attenzione. Ed era lì per dirglielo.
«Dai, mangiamo che si fredda.»
Ma non lo disse.
Lisa sorrise amaramente abbassando lo sguardo sul piatto: si rese conto di non
aver nulla di interessante se non il suo sax, il suo amore per i libri e lo
studio. Nulla più.
Cosa avrebbe potuto dargli? Niente.
O almeno, niente di che.
«Sai, ti ricordi di Terry?»
Lei drizzò le antenne. Certo che se la ricordava, avevano frequentato le stesse
scuole. Non l’aveva mai presa in simpatia, aveva molto più in comune con la
sorella gemella; con lei sì, era stato facile instaurare un bel rapporto. Con Terry
però, proprio no.
«Chi, la bisbetica che non ti lasciava stare un attimo? Quella che rompeva
continuamente le scatole, che ti perseguitava alle medie e che poi ti ha rotto
le palle fino a qualche anno fa?»
Nelson rise sputando parte del contenuto della bocca.
«Esatto, proprio lei! Vedo che te la ricordi bene, una descrizione perfetta!» La
pausa fu troppo breve. «Beh, ha detto che viene tra poco.»
Fu la volta di Lisa di sputare, e per sua sfortuna aveva appena portato alle
labbra il bicchiere colmo di vino. Non una gran produzione, ma era ciò che
aveva trovato nello stipetto degli alcolici e riteneva fosse sufficientemente
chic da non sfigurare. Anche se si trattava solo di pizza.
«Ma scusa, non è la tua ex? Non avevate già chiuso?»
La smorfia inorridita bastò a risponderle: «Ex? Scherziamo? Non ci sono mai
stato assieme. Non so cosa ti abbia raccontato Bart, ma sei completamente fuori
strada.»
Rilassamento. Rassicurazione. Non ci è stato assieme. Bene.
«Ci sono solo andato a letto.»
L’impazienza del bussare alla porta scaraventò bellamente la serata nella
pattumiera.