Attenzione: in questa
storia vengono toccati temi quali self-harm, DCA, depressione,
trauma, abuso sessuale e ci sono alcune descrizioni compatibili con il livello
di violenza normalmente presenti nella serie originale. Penso di non averli
trattati con superficialità, ma siatene consci se siete sensibili a questi
temi. (Ci tengo a precisare che comunque l’happy ending
c’è!)
Note:
1. questa storia è già stata finita e sarà lunga più o meno 14mila parole
2. vengono accennati gli eventi del libro purple haze feedback, ma non è necessario averlo letto
1. la guerra è finita
2001,
Aprile
La prima volta che Fugo si spegne
una sigaretta addosso, ci pensa talmente poco che neanche se ne rende conto: il
dolore immediato lo spacca tanto da paralizzarlo e rimane lì, con il mozzicone incollato
alla pelle, finché non realizza che se continua a tenerla lì il dolore non
passerà. Nel buio non la vede ma la cenere lascia una striscia sulla sua
caviglia bianca, e non fa neanche in tempo a rientrare e accendere la luce che
la pelle si è già rigonfiata, piena di liquido.
Fugo ormai sono ore che non
pensa, anzi, forse sono giorni, l’ultima volta che si è sentito dentro il suo
corpo è stato quando ha scorso distrattamente il giornale facendo colazione. È
stato pochi istanti prima di leggere EX CARABINIERE TROVATO MORTO SULLA COSTA
IN SARDEGNA, a malapena un trafiletto, in fondo alla seconda pagina.
Un momento prima era lì, seduto,
con tutta una serie di stimoli che in maniera più o meno gradevole lo
ancoravano a terra, tra cui il profumo intenso del caffè davanti a lui, il mal
di testa che gli pulsava forte nella nuca, il rumore delle chiacchiere da bar
che sovrastavano quello del traffico appena fuori dalla porta; un attimo dopo
non c’era più niente.
Anche lì, in bagno, si sta di
nuovo guardando da fuori, fuori da se stesso. Ogni
tanto gli capita e il punto di vista è lo stesso che aveva quel giorno, quando
a tredici anni il suo professore di Diritto Internazionale ha coscientemente
deciso di compromettergli la crescita, la capacità di sviluppare relazioni
sociali, e la vita.
La visuale è quella: la terza
mensola della libreria di merda da cui Fugo si è permesso di estrarre il Codice
civile pochi istanti prima che andasse tutto a rotoli. Non gli è ben chiaro
come mai ogni volta che gli capita di guardarsi da fuori ripensi a quella
precisa mensola, né capisce perché gli riesca così facile immaginare che la
suddetta mensola in qualche modo lo segua, come un continuo ricordo dell’episodio
più vomitevole della sua intera esistenza, fatto sta che anche mentre infila
faticosamente la caviglia sotto il rubinetto e con la punta dell’indice
schiaccia la vescica che si è già formata per farla scoppiare, si sta guardando
dalla terza mensola di quella libreria.
La prima cosa che pensa è che
sembra un coglione, che sotto la lampadina di luce fredda del bagno si vede
benissimo che non si lava i capelli da giorni, che sembra più ratto che uomo, che
si fa anche un po’ pena da solo; la seconda cosa che pensa è che, oltre a
sembrare un coglione, lo è. Gli torna un ricordo, limpido come pochi altri
nella sua vita.
Il ricordo: Narancia aveva
iniziato a fumare, perché disgraziatamente i cazzi suoi non se li faceva mai e
aveva intercettato Buccellati mentre faceva lo stesso. Ovviamente non aveva
potuto fare a meno di imitarlo, aveva iniziato a fumare in camera (chiaro, perché
era una bestia) e quando Fugo era entrato e lo aveva trovato svaccato sul letto
a ciccare dentro una tazza del Napoli mezza spaccata, con la faccia da
imbecille, aveva infuso ogni suo grammo di pazienza nelle sue azioni
successive.
‘Posso?’, gli aveva domandato,
quasi sorprendendosi. ‘Eeeh, solo stavolta,’
era stata la risposta di Narancia, come una grazia furbetta, mentre gli porgeva
la sigaretta. Fugo l’aveva presa e gliel’aveva spenta sulla spalla, spingendo
di più per inseguirlo mentre si dimenava per scappare via, strillando.
Narancia non aveva più fumato in
camera.
Neanche Fugo, in effetti, fuma
per davvero. Il punto è che ha scoperto che se non mangia per dodici ore e poi
fuma una sigaretta inalando per bene il fumo e trattenendolo nei polmoni per un
po’, allora alla fine gli verrà mezzo da svenire e mezzo da vomitare, e
soprattutto ha scoperto che se in conseguenza di ciò si stende per terra con le
gambe alzate, riesce a dormire facendo sogni che sono solo strani invece di
essere orrendi.
Sono passati almeno cinque giorni
da quando ha letto EX CARABINIERE TROVATO MORTO SULLA COSTA IN SARDEGNA. Non ha
avuto il tempo di continuare a leggere l’articolo, perché in quel momento la
sua coscienza si è scollata dal suo corpo come quando apri un vasetto di yogurt
e rimane quello strato perfetto in sospensione, per la magia della fisica e del
grasso dello yogurt. Anzi, in realtà Fugo pensa che
sia più come quando fa la besciamella e la copre con la pellicola perché non
vuole che si formi la crosta sopra, perché fanculo i grumi, gli fanno schifo e
gli danno fastidio. Fugo ricorda di aver fatto le lasagne con Narancia e Mista un
paio di volte, e nessuno dei due comprendeva l’importanza della pellicola, ma
Fugo era ostinato e ce la metteva sempre. Ecco, lui esce da se
stesso così, come quando poi togli la pellicola dalla besciamella per metterla
sul ragù, senza neanche fare rumore, con un movimento pulito.
In ogni caso, riguardo l’EX
CARABINIERE TROVATO MORTO eccetera eccetera. Fugo è ritornato al bar il giorno
dopo, sperando di ritrovare il giornale, per ritagliare quel trafiletto
schifoso e tenerlo in un cassetto schifoso fino a quando non avrebbe trovato il
coraggio di leggerlo da cima a fondo, come a strappare un cerotto, come a
ficcarsi un coltello in pancia; il giornale non c’era più, e così l’ex
carabiniere trovato morto è rimasto solo una molla eccezionale per mettere in
atto idee terribili, come per esempio pensare potrei spegnere questa
sigaretta su di me e decidere di farlo entro i successivi due secondi.
La cosa più meschina che Fugo si
ritrova a pensare, mentre si sente svenire e quindi si stende sul pavimento del
bagno alzando le gambe sul bordo della vasca, guardando la luce fredda sul
soffitto e sperando che lo uccida come un antisettico miracoloso, è: fortuna
che è stato solo Abbacchio.
Ma, ovviamente, non è finita.
2001,
Aprile
Fugo suona il piano. È una delle
quattro cose che sa fare bene: il contabile, il criminale, la besciamella e il
pianista.
In realtà Fugo saprebbe fare una
enorme quantità di cose, ma tutte queste richiederebbero un livello di presenza
che lui non ha e quindi cui si accontenta di riscattare un paio di favori,
perché è incredibile il modo in cui la gente normale si affeziona a chi si
adopera per fare del bene, anche se quella persona è Bruno Buccellati, che
attualmente è considerato un traditore da stanare e appendere per il collo.
Almeno, così era fino a una settimana prima – sono giorni in cui tutto cambia e
si ribalta in fretta e Fugo non è più sicuro di nulla.
(Non pensa all’eventualità più
probabile, e cioè che siano morti proprio tutti. Fugo pensa che forse alla fine
anche la statistica si sbaglia ogni tanto.)
Così, giusto per impiegare il
tempo, e perché in effetti ha bisogno di soldi, si trova l’impiego di pianista
in un bar. Non a Napoli, mai più a Napoli se Dio esiste da qualche parte
e non lo odia ancora così tanto, ma a Salerno, che comunque non è abbastanza
lontano dagli artigli di Passione, ma se non altro è sulla soglia della tana
del lupo invece che nel suo letto.
Fugo continua a grattarsi le
croste che si formano sulle vesciche delle sigarette spente. Non vuole darsi il
tempo di guarire, e forse tutto sommato quando si fa male si sente rientrare un
pochino dentro la sua pelle. Le cose funzionano così: si gratta il bordo della
ferita – sente un brivido lungo la schiena. Solleva la crosta – sente la pelle
che tira, il pizzicorio del dolore. La stacca del
tutto, ricomincia a sanguinare di nuovo da capo, corre a fermare quel minuscolo
pianto prima che raggiunga il calzino di cotone – ed è incredibile, quasi un
miracolo, perché sulla schiena percepisce di nuovo i vestiti che indossa, sente
la presa della cravatta al collo, muove le dita dei piedi e si rende conto che
le scarpe gli vanno un minimo strette.
Quando non è impegnato a
trasformarsi in un centrino, Fugo suona il piano, e non è neanche tanto male.
Il vero peccato è che dopo le prime volte in cui deve ingranare e concentrarsi,
perché in effetti deve suonare jazz e le sue lezioni di infanzia erano state su
Wagner e Beethoven e cristiani vari, il lavoro smette di essere impegnativo, e
così, di nuovo, via: il suo corpo lì, lui fuori, a guardarsi dalla terza
mensola mentre mette tutto se stesso (poca roba,
davvero) dentro ogni esibizione. Riesce a pensare che sembra solo un pesce
fuori dall’acqua che non riesce a respirare e si dimena nella maniera disperata
che hanno le cose che non vogliono morire.
Ma alla fine, davvero, suonare
non è che gli faccia tanto schifo. Il proprietario del bar lo ha preso in
simpatia (come cazzo abbia fatto Fugo non ne ha idea)
e lo ha capito quel minimo che serve per sapere che è meglio lasciarlo in pace,
non parlargli, non chiedergli, magari pure non guardarlo neanche.
Poi, quando una sera Fugo rimane lì un po’ oltre il normale per raccogliere
la sua paga, è incredibile, come è vero Dio, per sbaglio ascolta una
conversazione che non lo riguarda e va di nuovo tutto in merda.
A quello là, Buccellati, gli
hanno fatto i funerali grandi.
È di nuovo da capo, come il
titolo di un improvviso trafiletto schifoso alla fine della seconda pagina di
un giornale che inizia per EX CARABINIERE TROVATO MORTO, ma forse è anche
peggio, perché è una frase spiccicata da uno stronzo che non conosce neanche, e
Fugo non è dotato nel mantenere la calma, per cui decide nel giro di due
secondi di fare proprio quello che il suo cervello nevrotico propone
febbrilmente.
Fugo prende il ragazzo che ha
parlato, gli spacca il naso a testate, lo butta per terra e gli rompe una sedia
sulla schiena; poi se ne va. Torna nell’appartamento in cui è in subaffitto,
accende una sigaretta, la fuma fino al filtro e se la spegne addosso, ma
neanche così riesce a dormire e passa la notte a guardare se
stesso dalla terza mensola.
2001,
Maggio
Fugo si ricorda le prime
conversazioni con Buccellati: ricorda che erano strane, perché Buccellati era
tutto strano sempre, ricorda che gli porgeva il caffè amaro, la mattina, senza realizzare
che per uno come Fugo la caffeina era un ottimo detonante per lo scazzo.
Quando una mattina
Fugo aveva rotto la serratura della porta del bagno a furia di sbatterla
ripetutamente senza apparente motivo (in realtà era aprile e lui non smetteva
di starnutire per l’allergia), il suo intuito era scattato e Buccellati aveva
comprato una scatola di infusi miscellanei. Poi, aveva iniziato a fargli sempre
la cortesia di mettere un pentolino sul fuoco quando preparava il proprio
caffè.
Era un atto di gentilezza che a
posteriori a Fugo aveva fatto strano perché, fino a quando non erano diventati
una squadra invece che un duo, Buccellati aveva mantenuto una certa
informalità, dove il fatto che Fugo obbedisse ai suoi ordini derivava più dalla
sua esperienza che da una reale differenza di rango.
Se non fossero stati entrambi
talmente disabituati e inadatti a stringere rapporti amichevoli, avrebbero
potuto persino diventare amici. Dopo, quando Buccellati era diventato a tutti
gli effetti il capo, era anche diventato strano pensare che un paio di anni
prima gli preparasse le tisane a colazione.
Oltre a questo ricordo, mentre
Fugo lavora e cioè suona (non più a Salerno, ovviamente), lo colpisce il fatto
che comunque all’epoca Buccellati aveva più o meno la sua stessa età ora, al
massimo diciotto anni, contro i suoi quattordici. Messa così, non lo stupisce
più di tanto che in realtà anche lui fosse un ragazzo imbarazzante, con modi di
fare che non avevano senso, e che talvolta riusciva anche ad avere tutti i
difetti di un adolescente, nonostante la sua posizione.
Buccellati era strambo, non ci si
poteva girare troppo intorno, era uno che si zippava il portafoglio dentro la
coscia perché tenerlo nelle tasche avrebbe rovinato il tessuto costoso dei suoi
pantaloni, e due ore dopo si ritrovava a buttare in mare i pezzi di qualche
criminale smembrato dal suo Stand. Un’altra ora dopo, come se nulla fosse,
ordinava una capricciosa e ci toglieva le olive.
Perché non prendere direttamente
una capricciosa senza olive? Fugo avrebbe voluto chiederglielo prima che
incassassero lui dentro una bara e la bara dentro un loculo a muro.
Fugo si ricorda anche di una
volta, terribile, in cui era tornato indietro dal supermercato perché aveva
lasciato il portafogli sul tavolo, e aprendo la porta dell’appartamento aveva
trovato Buccellati e Abbacchio sul divano, il primo a cavalcioni del secondo.
Per fortuna Buccellati era l’unico mezzo svestito, senza la sua solita giacca
bianca.
Al tempo Fugo aveva semplicemente
spento il cervello mentre il vomito gli risaliva a velocità record dalla bocca
dello stomaco e si era affrettato a prendere quello che gli serviva, mentre il
rumore di Abbacchio che si tirava su la zip dei pantaloni gli grattava il
cervello con la stessa piacevolezza di un gesso sulla lavagna. Buccellati lo
aveva inseguito giù per le scale, imbarazzato come non l’aveva mai visto da
quando si erano conosciuti, e Fugo aveva non-ascoltato con incredibile calma
tutto ciò che aveva da dire. Poi era andato a fare la spesa e non aveva per
niente pensato al fatto che anche solo vedere due persone in un contesto intimo
gli facesse venire voglia di strapparsi le unghie coi denti e cavarsi gli
occhi. Infine, aveva vomitato in un cestino della spazzatura lungo la strada.
Nonostante questo, pensa Fugo mentre suona, Buccellati e Abbacchio non avevano
neanche vent’anni. Questo fatto lo costringe a rimettere tutto in prospettiva:
l’immaturità di Buccellati quando qualcosa non andava secondo i piani e si
stizziva, la chiusura di Abbacchio quando non aveva voglia di stare a sentire
nessuno, il fatto che manco loro due, alle volte, sapessero che pesci pigliare.
E anche il fatto che decidessero di fare una sveltina sul divano mentre il
quattordicenne rompicoglioni che gli ronzava sempre intorno andava a fare la
spesa.
Se lo avesse realizzato prima,
forse si sarebbe risparmiato qualche scazzo. Adesso, gli viene solo da pensare
che sono morti troppo presto.
2001,
Settembre
Fugo viene prelevato. Riconosce un
sequestro quando lo vede messo in atto, principalmente perché lo ha visto messo
in atto, ma non gli è mai capitato di essere lui quello che perde coscienza per
il cloroformio piazzato sotto il suo naso. Soprattutto, un briciolo di fastidio
tutto sommato gli viene: chiunque sia il rapitore, lo ha trovato già mezzo
svenuto steso per terra sul tappeto del bagno, come un coglione. Vorrebbe
chiamare Purple Haze, ma perde i sensi prima di
poterlo fare.
2001,
Settembre
Mista lo odia. Fin lì, non c’è
tanto da stupirsi.
Pensandoci per più di cinque
secondi, Fugo realizza che quella è la sua occasione di ottenere il risultato
che non sarebbe mai capace di prendersi da solo: guarda fisso la pistola che
l’altro gli punta in mezzo agli occhi, poi guarda il suo proprietario, e ha la
ferma intenzione di fare un passo avanti.
È fantastico. Finalmente può
morire anche lui, così da non rischiare di dover guardare Narancia negli occhi
di nuovo dopo quello che è successo sei mesi prima.
Se non che, ovviamente, Mista non
lo ha fatto venire al San Siro di Milano per ammazzarlo. Anzi, non è stato
neanche Mista a decidere di farlo venire lì, perché in effetti se così fosse
magari lo ammazzerebbe pure.
Giorno Giovanna (Don Giorno
Giovanna) ha per lui degli ordini precisi e puntuali, un riscatto crudele che
per i più avrebbe l’aspetto di una grazia, di una seconda opportunità per fare
parte del nuovo mondo, ma Fugo sa bene cos’è: il lavoro sporco per i cani
sporchi. Ma, visto che ormai di suonare si è anche stufato, Fugo si deve
accontentare.
Se Don Giovanna vuole sottoporlo
a un test, può farlo, giacché se ne uscirà morto sarà un successo, e se ne esce
vivo c’è sempre tempo di morire più tardi.
Chiariti i particolari, una volta
che Fugo ha capito che la missione assegnatagli si piazza ambiguamente tra lavoro
sporco e suicidio, gli rimane solo una domanda. In realtà è più per
tirare fuori l’argomento che per avere una risposta vera, visto che quella la
conosce benissimo: mentre glielo chiede, si ritrova a essere un bambino come non
lo è mai stato nella sua vita.
Se è mai esistita la speranza,
quella vera, quella che permane anche quando non c’è proprio più niente
in cui sperare, quella che stava piccola piccola sul
fondo del vaso di Pandora, è quella che Fugo prova in quel momento.
“Ma è vero, Mista? Buccellati, è
davvero…”
Al cenno di Mista, Sheila E. si
chiude le orecchie con la stessa violenza con cui, probabilmente, uccide la
gente, e Fugo si domanda quanto faccia male bucarsi i timpani infilandosi
qualcosa nell’orecchio, pondera brevemente l’opzione come allettante
sostituzione delle sigarette spente sulla caviglia. Mista ha già abbassato la
pistola, ma Fugo pensa che forse dovrebbe continuare a puntarla, perché non sa
come potrebbe reagire alle sue prossime parole.
“È morto. Lui e Abbacchio, e
anche…”
Così Fugo viene a sapere di
Narancia. Non c’è, purtroppo, dolore fisico che potrebbe distrarlo dallo
strazio che lo assale.
2001, Settembre
Sei mesi non sono tanti, ma lo
diventano se la maggior parte delle proprie giornate si passano vegetando sul
pavimento del bagno. È quello che ha fatto Fugo: poi, esattamente come l’ultima
volta, quando c’è di mezzo Giorno Giovanna, le cose iniziano a muoversi con uno
scatto, come qualcosa che cede all’improvviso sotto un peso troppo grande.
Fugo vive gli avvenimenti della
Sicilia con una frenesia nevrotica che gli riaccende tutte le terminazioni
nervose che la depressione gli aveva bruciato.
Alla fine di tutto, si ritrova
seduto in un ristorante anonimo con in gola delle piaghe che bruciano come una
tortura infernale e in faccia uno sfregio che gli parte dall’angolo sinistro
della bocca e gli rincorre la guancia quasi fino all’orecchio. È orribile,
anche se non si guarda allo specchio da due giorni.
La pelle ha appena smesso di
spurgare acqua, ma è ancora di un rosso vivo che prima o poi diventerà
brunastro e poi su toni ancora più scuri. A quel punto, farà una crosta, come
tutte le ferite, come quelle che ha sulle caviglie, e Fugo sa già che gli
costerà fatica non andare a sollevarla.
Così, anticipando già il prurito
fastidioso e il sempre presente desiderio di darsi qualcosa a cui pensare che
non siano tutti i modi in cui Narancia potrebbe essere morto (non ha ancora
avuto l’occasione di chiedere, e comunque non ne avrebbe il coraggio), Fugo si
allontana poco poco dal tavolo e appoggia il piede di
traverso sul ginocchio destro.
Si gratta il bordo di una delle
ferite, una che ormai sta diventando sempre più insignificante ogni volta che
la crosta si riforma, con la pelle intorno tutta tesa – Fugo la sente come una
spina di acacia sulla carne morbida. Una volta, sui fiori dell’acacia,
Buccellati aveva fatto un commento felice, forse perché erano bianchi e
profumati come poche cose al mondo; Fugo non sa bene perché se lo ricordi. Magari
perché poi aveva iniziato ad accorgersi che quei cazzo di alberi stavano
dappertutto.
Allora inizia a sollevare la
crosta e ormai non sibila neanche più per il dolore, gli corre soltanto un
brivido sulla schiena – Fugo scuote la testa, come preso da un piccolo spasmo.
Chissà come è morto Narancia.
Magari gli hanno sparato. Magari il boss è riuscito a rompergli qualche osso
prima di farlo fuori. Magari anche dall’altra parte c’era uno stronzo con uno
stand assurdo e micidiale, che uccide solo esistendo, uno che se Fugo fosse
stato lì avrebbe potuto tenere impegnato. Magari ha fatto male, magari ha avuto
tutto il tempo per pentirsi di ogni cosa, magari ha persino maledetto
Fugo, quell’omm ‘e merda che per forse
Narancia è stato un po’ l’inizio di tutte le cose e poi non ha avuto neanche il
coraggio di venire a vederle finire.
Si accorge che Giorno Giovanna
sta seduto poco lontano quando ormai sta già passando alla prossima crosta,
tamponando il sangue della prima con il dorso della mano. Ora si sente le mani
sporche e, se avesse la forza di ragionare, avrebbe vergogna per il momento in
cui dovrà probabilmente portarle in vista. Purtroppo o
per sfortuna, il suo cervello è fisso a roteare vorticosamente su cose più
sgradevoli, per cui non se ne rende neanche conto.
Poi parlano un po’ e Giorno è
tutto fuorché umano.
Fugo ha visto il modo in cui
Sheila E si dipinge di devozione e va a morire per questo ragazzino, ha visto
il terrore di Murolo all’idea di finire tra gli sfavoriti di Don Giovanna. Si è
domandato da una parte quale sia il miracolo con cui Sheila E è stata portata a
nuova vita, e dall’altra quali cose atroci e disumane abbia visto il siciliano
con le sue carte. Quale sia stato il giudizio universale riversato dal nuovo
boss sul vecchio.
In ultimo, Fugo non riesce a
conciliare queste due cose all’interno del ragazzo che gli siede davanti. Come
accade con tutte le cose che non riesce a spiegare, prima Fugo si incazza e
poi, siccome incazzarsi non può, rimane paralizzato nella sua incapacità,
sbiancato dal suo essere inadatto, e non parla più di tanto anche dopo che il
miracolo divino gli ha curato le piaghe aperte in gola.
Giorno gli spiega cose, un
mucchio di cose, e Fugo le registra tutte da qualche parte in fondo al cervello
per analizzarle bene dopo, e poi fa il danno, e cioè gli dà la foto di quel
giorno sul molo prima di partire per Capri.
I morti sono tutti lì. L’ex
carabiniere trovato sulla spiaggia in Sardegna, il ragazzo amato da tanti a cui
hanno fatto i funerali grandi e Narancia, solo Narancia, che non era neanche
riuscito a diventare grande abbastanza da fare qualcosa di memorabile.
Fugo trema, la foto cade a terra,
e pensa che forse non la vuole mai più vedere, o che non vuole vedere
nient’altro che quella.
Perché io, finisce a
chiedergli, con le lacrime in gola che gli tagliano il fiato e lo costringono a
tirare dei respiri mezzi rotti. Perché io sono qui, e loro no?, ma è più un
capriccio inconsolabile da bambino che una vera domanda, perché Fugo lo sa che
un vero perché non esiste e, se esiste, neanche Giorno è capace di
spiegarglielo. Quando lo guarda attraverso le lacrime i suoi occhi sono morbidi
e duri al tempo stesso, solenni.
“Ti chiedo di fare un passo in
avanti,” dice Giorno, lo sguardo calcato del suo, “e se da solo non riesci a
farlo tutto intero, ne farò metà per te.”
Quando Fugo si inchina, esausto,
capisce o crede di capire. Metà del passo, per lui, suona come un miracolo.
2001,
Ottobre
Il problema quando il tuo amico
coglione muore, oltre al fatto che è morto, è che era un coglione, e tale
rimane anche dopo la sua dipartita.
Tutto quello che Fugo non aveva
la forza di rivangare perché faceva troppo male (musica, soprattutto, ma anche
luoghi condivisi, ricette, battute che capivano solo loro, quella roba lì) ora
agisce contro di lui. Qualsiasi piccola cosa è una miccia per i ricordi, ma
alla fine Fugo li rivanga con piacere sadico, sperando
magari che il dolore lo uccida, e poi si sente ancora più meschino; non riesce
neanche a piangere il suo amico senza che prevalga il suo egoismo infetto.
Fugo si ritrova ad ascoltare
Snoop Dogg seduto su una seggiola malandata in veranda, mentre la sigaretta tra
le sue dita brucia da sola, seicento gradi che poi sarà ben felice di spegnersi
addosso. Fugo piange lacrime secche che non gli scendono neanche fino al mento,
con le labbra strette in una linea bianca e compunta, e ripensa a tutte le cose
stupide che sono successe con quella colonna sonora.
Il suo primo stereo glielo
avevano regalato Fugo e Abbacchio. Un regalo combinato che in realtà era un
biglietto di scuse da parte di Fugo per una volta in cui lo aveva preso per la
nuca e gli aveva sbattuto la testa sul tavolo fino a farlo sanguinare, fino a
quando non gli si era aperto un taglio sul sopracciglio e da lì era uscito il
sangue che aveva macchiato la tovaglia bianca (da lì avevano smesso di avere
tovaglie bianche). Poi, non contento, visto che Abbacchio non era stato rapido nell’alzarsi
dal divano, Fugo aveva preso Narancia per la sua canotta (quella cosa di
cinghie era così afferrabile, porca puttana) e lo aveva gettato per terra, dove
poi aveva proceduto a dargli almeno quattro calci in viso e in grembo prima che
Abbacchio riuscisse a tirarlo via di lì, scaraventandolo contro il muro per
intontirlo e magari anche farlo ripigliare.
Narancia aveva imparato a non punzecchiare Fugo su certi temi, dove certi temi equivaleva
a scommetto che i prof ti adoravano. Magari ti portavano fuori a cena, eh,
Fugo? (con gesti osceni annessi). Fugo invece aveva imparato il prezzo
medio di uno stereo di qualità medio-bassa.
Aveva anche imparato che alcune
persone sono troppo buone, troppo luminose, per il mondo schifoso in cui si
ritrovano: Narancia, con la faccia gonfia e viola e spaccata, gli aveva chiesto
scusa almeno quindici volte e aveva chiesto se potesse abbracciarlo; era stata
una cosa imbarazzante, lui che lo stringeva e Fugo lì impalato, ogni suo senso
che gli urlava addosso di scappare, di strappare, mordere, urlare, correre,
via, via, via via via via. Invece era rimasto lì.
Una volta aperto il suo regalo,
Narancia aveva ufficialmente messo tutto quanto in un cassetto mentale, chiuso
per sempre. L’entusiasmo era stato troppo, soprattutto quando poi Buccellati
gli aveva dato un CD di Tupac a caso.
Nessuno sguardo spaurito, nessuna
esitazione nei giorni successivi, anzi. Comprati un CD, lo ascoltiamo
insieme, gli aveva detto, che musica ascolti? Fugo non gli aveva
dato una risposta, perché non ne aveva idea.
Snoop Dogg intanto continua a
parlare e nelle orecchie di Fugo ha la stessa sensazione della gomma morbida
che gli cola in bocca. Narancia è morto. Con difficoltà Fugo separa tra di loro
le parole che escono dalle cuffie, ma ricorda bene che questa era una delle
canzoni che ascoltava a ripetizione, e lui non aveva neanche mai provato a
leggerne il testo. Non che Narancia invece lo conoscesse: ovviamente faceva
schifo in inglese quanto in matematica.
In ogni caso, non è una canzone
dal significato straordinariamente filosofico, ma Fugo si sente comunque un
coglione a piangere sulle lyrics di Me & My Doggz.
2001,
Ottobre
Stranamente, ma neanche troppo,
l’unica cosa che gli gira in testa mentre Giorno Giovanna gli parla di affari è
‘cuz I’m a motherfucking born gangsta,
da una canzone che piaceva molto a Narancia. Come un disco rotto, sempre e solo
quella frase, perché in effetti l’unico tra di loro che è veramente nato per
fare quella vita è lui.
L’altra persona riguardo cui
poteva avere dei dubbi era Narancia. Magari non era nato per quella
vita, però l’aveva presa di sua volontà e indossata e molti avrebbero potuto
dire che gli calzasse anche bene.
Fugo ha dovuto ricredersi un paio
di settimane prima, quando lui e Mista hanno avuto una discussione. Mista lo ha
incrociato in corridoio a canticchiare sovrappensiero una canzone che
condividevano loro tre, insieme, e gli ha dato una spinta a piena forza contro
il muro; Fugo ha risposto perché l’ha preso di sorpresa, e poi hanno iniziato a
darsele veramente, mentre Mista gli urlava addosso.
Così ha finito per riportargli le
ultime parole di Narancia. Le ha strozzate fuori dalla sua gola mentre le
lacrime strozzavano lui, e mentre lui strozzava Fugo
con le sue mani giganti: Narancia voleva tornare a scuola. Ovviamente sotto
sotto ci voleva tornare, altrimenti non avrebbe fatto tutta quella fatica per
cercare di imparare le cazzo di tabelline con il peggior insegnante che la vita
potesse affibbiargli.
Considerando che Fugo poteva
finire in cattedra alla Federico II o direttamente alla Corte d’Assise,
considerando che Abbacchio voleva fare il carabiniere da quando aveva otto
anni, considerando che da quando Buccellati ne aveva dodici aveva iniziato a
smontare la gente per buttarla nel golfo, e che Narancia voleva tornare a
scuola, rimangono solo Mista e Giorno: Mista, probabilmente, metterebbe la
stessa determinazione nel fare l’assassino o il cassiere, per cui il discorso
per lui cade un po’. Quando prende una decisione, ci va fino in fondo, a
prescindere da quale essa sia.
Giorno, invece. In quei pochi
giorni di delirio che si erano susseguiti dopo il suo arrivo, Fugo aveva
trovato la sua una presenza stridente in mezzo alla loro squadra di derelitti,
come se un re che si sporca la faccia di terra per mescolarsi con la gente
normale, dimenticandosi della sua postura fiera, del suo sguardo brillante, del
modo in cui le sue spalle larghe potrebbero sostenere un mondo intero.
Ora, davanti a lui, mentre passeggia
per i corridoi della sua villa e gli spiega la sua visione per la nuova classe
politica che vuole in Italia, Giorno Giovanna ha ben ragione di essere un re,
forse anche di più, quasi un Redentore. Fugo continua a essere cattolico, forse
più perché a sua nonna e alla messa della domenica mattina associa alcuni dei
pochi ricordi felici della sua infanzia, e non sa bene se la sua possa essere
considerata blasfemia.
Probabilmente sì, ma quando
Giorno gli chiede di camminare con lui nel giardino si sente comunque come un
apostolo, magari un Matteo, che sente seguimi e segue, senza tanto
indugio. Finalmente Fugo capisce un po’ Abbacchio e le sue motivazioni per
votare la sua vita a un semplice uomo, anche se Giorno solo un uomo non sembra.
*
beeeeeeh.
buongiorno (?)
giusto altre due note:
1. purtroppo il grip che vento aureo ha sul mio
cervello è più o meno lo stesso che avete voi quando dovete aprire la macchinetta
del caffè chiusa strettissima
2. questa fanfiction è stata iniziata un po’ per sfogo, per cui per questo è un
po’ unhinged in questa parte. Poi migliora però per
cui se volete tenete duro (disse il bugiardo, sapendo che comunque doveva
peggiorare un altro po’)
3. fatemi sapere se devo alzare il rating ad arancione, sia ora che
successivamente, anche se non credo, ma io efp non l’ho
mai capito, per cui daje
bene ci vediamo!! ciaoooo
cate