y'rngfm
You're no good for me
Mia madre non è
esattamente una tipica sessantottina. Ma ama alla follia Bob Dylan e
conosce tutte le sue canzoni – o quasi, a memoria.
Io mi chiamo Bob, e non è
una coincidenza. Credo che i miei stessero quasi per divorziare, per
la questione del mio nome. Mio padre voleva chiamarmi come suo padre
e non la prese bene, questa cosa della mamma.
Però io mi chiamo lo
stesso Bob. E i miei non hanno divorziato, anche se penso che
avrebbero dovuto.
Suono la chitarra. Da
quando avevo quindici anni, più o meno. Adesso ne ho diciassette, e
non sono male. Non ho talento – sono portato, diciamo, ma ho un
buon orecchio.
La fissa per Bob non è
difficile indovinarlo, me l'ha attaccata mia madre. Certo, non ho la
sua sterminata conoscenza, ma ci sto lavorando. Però ascolto anche
altro. Tipo.. beh, non saprei dirvi su due piedi.
Ho una band. Il sabato
sera suoniamo in un locale in centro, una catapecchia per dirla
tutta. Ma non ci lamentiamo, perchè possiamo suonare – e qualche
volta veniamo pagati per farlo. Male che possa andare, ci rimediamo
qualche birra gratis. I ragazzi non sono male, ma niente di più.
A parte Dean. Lui è
maledettamente bravo.
Ha scritto tutte le nostre
canzoni quasi da solo – qualche volta gli ho dato una mano, diciamo
un dito. E' capace di suonare qualsiasi cosa – mettigli in mano due
graffette e un cucchiaio e lui ci caverà qualche suono, roba alla
McGiver per capirci – e effettivamente suona qualsiasi
cosa. Anche quando non sa come si chiama.
E'
lui che canta. Beh, non posso dire che sia esattamente Steve Tyler,
ma sa farsi sentire dal
pubblico, non so se mi spiego. Sentire
in quel modo che ti entra dentro, che ti passa direttamente per il
cervello. E' come una scossa elettrica.
Non ha
nessunissima tecnica, non si sforza neanche di essere intonato. E
forse è questo, che il suono gli esce dalla gola vero, intatto.
Senza contraffazioni della gola, senza artifici.
E' lui
l'anima della band. Lui che nel bene e nel male ci manda avanti e ci
tiene insieme. Gli altri ragazzi sono ok, ci divertiamo, sono in
gamba. Ma Dean è tutta un'altra storia.
E
anche questo sabato sera siamo noi – Marcus, Adam, io e Dean,
ovviamente.
Il
locale è vuoto, nessuna sorpresa. L'aria puzza di sigarette e alcol,
ma mi ci sto abituando, al contrario dello stomaco di Dean, che
continua a rifiutarsi di collaborare. Ha la faccia verde, e suda. Non
gli piace questo posto, non gli piace quest'odore, e penso che sta
qui la nostra più grande differenza: a me piace. Me lo ricorderò
per sempre come l'odore dei miei diciassette anni, della prima band,
di tutte le mie prime volte.
Per
lui è diverso. A lui non basta. Questo posto non si adatta al suo
corpo, alle sue esigenze. Troppo soffocante, troppo ammuffito. Troppo
poco.
Hey,
io lo so che per me tutto questo non rimarrà che una bella
esperienza. E' una cosa che non uscirà mai da questo bar. Ma per
Dean è diverso. Come tutto, del resto.
"Usciamo
un attimo per favore."
Mi
tocca una spalla col palmo aperto, ma sento appena il contatto.
"Cominciamo
appena hanno finito di montare. Se ti senti male è meglio che vai in
bagno."
Mi
guarda e mi odia, perchè non gli do una scusa per uscire da 'sto
buco.
"Accompagnami."
Seguo
la sua schiena fra i tavoli col legno macchiato. Non cammina come uno
che si sente male.
Il
bagno è bianco, neutro, non troppo lercio. Tre lavandini, cinque
cessi. Le scritte sono poche, pezzi di canzoni, nomi di band metal. I
ragazzi che frequentano questo posto sono romantici, devono
esserlo per resistere alla tentazione di sfasciare tutto.
“Non
mi va di suonare stasera. Non qui. Non di nuovo”
“Beh,
te l'ho spiegato prima che il palastadio l'avevano già preso gli U2
no?”
“Dovevamo
pensarci prima noi.”
“Ci
penseremo la prossima settimana, ok?”
Annuisce.
Apre il rubinetto e si sciacqua la faccia. Gli si bagnano le punte
dei capelli. Non ha un taglio alla moda, non ha nessun taglio credo,
niente di identificabile comunque. Gli partono dal cranio e vanno in
tutte le direzioni. Sono scuri, folti, selvatici. Ecco un'altra
differenza. A lui non gliene frega un cazzo dei suoi capelli. Stanno
come stanno e dio provvede.
“Bob.”
“Hm?”
“Molliamo
tutto. Andiamo a New York, suoniamo per strada. Io e te.”
“Certo.
Hai già pronto il borsone?”
“Non
prendermi per il culo. Sul serio Bob.”
“Ma
ti sei bevuto il cervello? Ma ti ascolti quando parli?”
“Che
ho detto di tanto idiota? Bob, tu ed io abbiamo talento, maledizione.
Non possiamo marcire per sempre in questo buco. A volte... oh dio
Bob, a volte mi sembra d'impazzire. Mi manca l'aria.”
Si
tocca la gola con le dita. Mi guarda. Ha gli occhi enormi,
spaventati.
“..
e tu vuoi farmi credere che non senti lo stesso?”
Ah, io
non lo so che cosa sento. Sento caldo alle mani e alla faccia. Sento
un campo magnetico che mi spinge contro di lui. A volte si riesce
quasi a toccarlo, il fascino di Dean. Del suo corpo, delle sue mani.
Ha qualcosa di strano, di casuale e di inquietante. Qualcosa nella
voce, nel modo di parlare. E' impossibile non accorgersene. Lui
guarda sempre dritto negli occhi. Modula la voce su frequenze strane,
ipnotiche. Sente i punti fragili delle tue difese con una precisione
inquietante. E non li colpisce, non li abbatte. Ci affonda le mani,
estrae i mattoni uno ad uno. Non fa male, è come un orgasmo. Non ti
rendi conto di quello che succede, c'è solo il delirio.
“E'
lo stesso. Ma io non sono come-”
“Come
me? No, tu sei Bob, altrimenti non staresti qui ora, a parlare con
me, e io non sarei nel cesso di un locale di terz'ordine, perchè qui
mi ci hai trascinato tu.”
Si
passa una mano bagnata tra i capelli, e le dita sciolgono i grossi
ricci.
“Ti
amo Bob. Hai talento, sai fare musica come nessun altro. Ho bisogno
di te. Se tu non vieni io non ce la faccio.”
Mi
sento le gambe molli, ma non posso permettermi di cedere. Non ora. Me
l'ha già detto, che mi ama. Mi ama perchè sono sempre me stesso,
dice, perchè ho talento. Per le mie mani, per le mie espressioni.
Perchè posso tenerlo per mano in questa cosa difficile che è
vivere. Sa di potermi dare tanto, e non mi nega niente. Sto ad
ascoltarlo mentre parla, e lui parla solo per me. Parla di tutto, di
poesia, di musica, di amore, di morte.
“New
York è perfetta. Catarsi, decadentismo. E vita. Tanta vita che
pulsa. Non avere paura. E' la nostra scala per il paradiso..”
“Non
esistono le scale per il paradiso.”
“Esistono,
quando non aspiri alla santità. Vuoi essere un santo, Bob?”
Si
avvicina. Sorride. Piega la bocca con dolcezza. Mi sfiora con la
punta delle dita sul viso, sul collo, fino all'attaccatura della
maglia. Perchè il linguaggio del corpo è il solo che capisco, e lui
lo sa, perchè è quello più semplice da capire.
Mi
tocca le labbra con la sua bocca. Prima se l'è bagnata con la
lingua, per farmi sentire il calore, la morbidezza.
Un
bacio può diventare allegoria di molte cose. In questo caso non
saprei che dire.
Mi
piace quando mi bacia, quando mi tocca. Ma non è una cosa sessuale.
E' uno dei tanti modi in cui Dean lascia che io prenda da lui. Non ha
mai messo muri, non ha mai difeso se stesso. Lascia che io lo
ferisca, che capisca dove ho sbagliato e che torni a leccargli le
ferite, senza umiliazione, senza rabbia.
Si
allontana, stacca le labbra lentamente. Si schiaccia contro il muro.
Aspetta che sia io a baciarlo.
So
cosa gli piace. Il genere di attenzione, di cura. Vuole che lo baci
piano, che gli accarezzi le labbra, senza che lui si muova. Vuole
sentire un po' d'amore, un po' di dolcezza.
Attorno
alla bocca ci sono i peli che pungono sulla pelle. E' piacevole,
tutto sommato.
Gli
passo la lingua fra le labbra, aspetto che le apra.
Anche
io voglio il mio piccolo pezzo di piacere.
E'
qui, fermo tra me e il muro, con le braccia abbandonate e le
ginocchia molli. Non reagisce, vuole solo perdersi dentro di me,
dentro di se.
A
volte la sua vena autodistruttiva mi spaventa.
“Torniamo
di là Bob. Non vorrei che Marcus molestasse il nostro bassista.”
No, Dean. Tu non vai bene per me.
Tu mi ucciderai.
Sei la cosa peggiore e migliore che potesse capitarmi.
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