01_Pret kindness
Pret
kindness
Nell’estate 2011 la stazione londinese di Victoria Station era in rinnovazione:
erano iniziati da mesi i lavori per la metropolitana che avevano influenzato anche
l’aspetto dell’edificio principale. C’erano numerosi divieti di accesso e sensi
unici scritti a pennarello nero su lavagne bianche. I soffitti alti e luminosi
della stazione, che ricordavano quelli di azienda tessile ottocentesca, rendevano
la percezione della folla meno ingombrante.
In realtà erano le undici del mattino, un orario morto per qualsiasi
ferrovia al mondo.
Camminavo
con il mio solito broncio, ho la bocca con una piega verso il basso che mi fa
sembrare arrabbiata con mondo. Le ombre sotto gli occhi non aiutavano a darmi
un aspetto amichevole e, a peggiorare, il mio passo di camminata è sempre
deciso. In quel caso il passo era anche accompagnato da nervosismo, perché ero
stata chiamata a fare un colloquio da Pret
a Manger, una caffetteria-catena britannica. Il colloquio era negli uffici generali, proprio
nella stazione. A un certo punto mi sono
dovuta fermare e controllare le indicazioni che avevo scritto su un foglio, li avevo
poi riposti quasi con stizza nella mia borsa. Avevo camminato fino ad arrivare
a filo con i binari e girato a destra trovando finalmente gli uffici, un
sospiro mi era sfuggito dalle labbra e poi ero tornata alla mia espressione
neutrale che mi fa sembrare tanto una stronza.
Ero entrata nell’ufficio
della catena con un sorriso a bocca chiusa, per sembrare amichevole, e avevo
salutato la receptionista e chiesto informazioni. Dopo una breve attesa nella hall, in cui avevo potuto notare il
simbolo rosso della catena sui muri bianchi, era entrato l’intervistatore. Non
era amichevole, i gesti erano secchi e la voce dura: impartiva ordini, non dava
spiegazioni. Con il suo arrivo erano iniziate le prove per essere assunti in
una semplice catena di caffetteria low
cost.
La prima prova consisteva in
un questionario attitudinale su PC. Le domande descrivano un’ipotetica situazione
nel locale e avevi quattro scelte su come reagire: i test attitudinali m’innervosiscono
parecchio perché sento di essere giudicata come persona e non come lavoratore.
Il mio sguardo rimaneva fisso sul PC continuando a rispondere con esitazione,
ogni tanto mi passavo una mano dietro al collo in un gesto di auto conforto a
me tipico.
La seconda prova consisteva
in un colloquio. Fui portata in una stanza bianca, dove di fronte a me si
stagliava, ancora una volta, il simbolo della catena sul muro: quasi come uno
stemma nobiliare del capitalismo. L’intervistatore di prima era seduto con una
collega che sorrideva stancamente e aveva un’espressione indecifrabile, aveva
tra le mani un plico di fogli. Iniziarono a fare domande sulle risposte che
avevo dato al test, erano nel plico, ma non capivo che cosa mi dicevano perché
il loro accento era difficile e parlavano troppo veloce per me. Quando capivo
una domanda, il mio broken english non
li impressionava come le spiegazioni delle mie scelte nel test. Uno di loro
disse qualcosa dal tono infastidito all’altro e mi fecero uscire.
Rimasi in attesa nella hall senza
guardare gli altri candidati, avevo gettato qualche sguardo solo sulla receptionista
che era concentrata sul lavoro. Mezz’ora dopo il tirannico intervistatore era
uscito e aveva snocciolato una serie di nomi, tra cui il mio storpiato, e ci aveva
invitato ad andare via. Mi sono alzata per uscire solo quando l’ha fatto la
persona chiamata dopo di me
Quando sono uscita dagli
uffici, sono rimasta ferma fuori alla porta a far passare gli altri candidati e
poi ho camminato lentamente con gli occhi pieni di lacrime. Mi sono appoggiata
a un muro e ho iniziato a piangere disperatamente per il mio fallimento. Credo
che dopo un paio di minuti una signora anziana dall’aspetto britannico si sia
avvicinata. Mi ha chiesto che succedeva, tra singhiozzi avevo risposto che
avevo appena fallito un colloquio di lavoro e che la sera avrei dovuto lavorare
in un posto di merda. Sinceramente non so se mi ha compreso, il mio inglese era
patetico e ne avevo avuta la prova. Mi ha chiesto se volevo essere abbracciata
e ho accettato quel gesto gentile di una sconosciuta di una città che, fino a
quel momento, non mi aveva mostrato nessuna gentilezza. Ho accettato con
rassegnazione e ho sentito due braccia esili abbracciare la mia piccola figura.
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