I
Non tornano dopo cinque
anni. Neanche dopo il sesto. O dopo il settimo.
Tra la fine del settimo e
l'inizio dell'ottavo qualcosa inizia a cambiare. Non smette di sperare, non
pensa che lo farà mai. Semplicemente smette di aspettare.
Il bunker rimane irraggiungibile;
le sue chiamate radio ancora non ricevono risposta.
Clarke continua a vivere i
suoi tempi di pace, anche se quella pace ha assunto contorni da guerra nel suo
cuore.
Nella primavera del sesto
anno, un arrivo inaspettato la costringe a riconsiderare tutto ciò che credeva
vero e a impugnare di nuovo le armi.
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I will call them my people
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I will call them my people, which were not my people; and her beloved,
which was not beloved.
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"Vi aiuterò, se voi
aprirete il bunker."
Hyp è raggomitolato sulla
sua spalla e non riesce a distogliere lo sguardo dal daimon di Diyoza.
Clarke non può biasimarlo.
Anche lei sta avendo problemi di concentrazione. È un armadillo. È la prima
volta che ne vede uno. La sua corazza scintilla come ferro di spada nella
penombra, un baluginio di pericolo che invita alla cautela.
L'espressione di Diyoza è
impenetrabile quanto le scaglie della sua anima. "Perché dovrei assecondare
la tua richiesta?"
È una domanda legittima,
ciò nonostante prova una scintilla di noia. Due apocalissi e ancora le vecchie
domande, il solito egoismo congenito e l'istinto di preservazione destinato
unicamente ai propri simili.
"Siamo tutto ciò che
resta della razza umana," risponde, cercando di tenere a bada il livore
che prova, il desiderio di dirle che questa
è la mia casa. Queste sono le mie regole. Prendere o lasciare. Si morde la
lingua. Lei ha bisogno di Diyoza più di quanto Diyoza abbia bisogno di lei. Lo
sanno entrambe ed è inutile girarci attorno.
"Non voglio che mia
figlia cresca nel vecchio mondo. Do tu des. Ci stai?"
Le tende la mano.
I secondi si trasformano in
un minuto. Nessuna delle due batte ciglio, muove un muscolo. In piedi accanto a
Diyoza, Shaw e il suo daimon-cornacchia si agitano inquieti.
Alla fine Diyoza le porge
la sua per stringerla. La presa è forte e ferma, così come lo è la sua voce
mentre elenca con funzionale praticità le sue condizioni. "Voglio una
mappa della Valle. Voglio che venga ripartita equamente prima di aprire quel
maledetto bunker."
Clarke annuisce. La coda di
Hyp smette di battere nervosamente contro la sua schiena.
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Il pulviscolo riempie il
suo campo visivo, ma non le impedisce di vedere oltre.
Non importa quanti anni
siano trascorsi, Atalanta rimane la cosa più colorata su cui abbia mai posato
lo sguardo. La testolina blu cobalto, la gola rossa, la coda purpurea e il
piumaggio del resto del corpo di quel verde petrolio vibrante.
Ricorda un altro giorno.
Una porta aperta sull'ignoto e poi l'esplosione sensoriale. L'aria satura degli
odori della foresta e le grida di giubilo di cento adolescenti che scoprivano
per la prima volta cosa significhi respirare a pieni polmoni senza sentirsi in
colpa. L'euforia di chi assaggia per la prima volta la libertà di essere sé
stesso.
La nostalgia dei vecchi
giorni alla Navicella è così acuta che potrebbe piangere.
Hyp strofina la testa
contro il suo collo in un gesto che è in parte conforto e in parte ammonimento.
Giusto. Non è il momento di lasciarsi andare a un viaggio nei ricordi. Clarke
fa un passo in avanti per uscire dalla polvere e dalla luce che entrano a
fiotti dallo squarcio nel soffitto da cui si è appena calata.
La regina-guerriera che le
va incontro non assomiglia alla ragazza del passato. Sembra un'immagine
strappata da un racconto mitologico. Come Pentesilea, la regina delle Amazzoni.
"Octavia," dice.
La vede battere le palpebre, ancora quell'espressione frastornata, come se
stesse avendo difficoltà a ricordarsi dell'esistenza del sole, come se si
stesse risvegliando dall'orrore di un lungo incubo. Metà del volto è coperto da
pittura tribale, come un tatuaggio che inneggia all'ostinazione di chi non ha
ceduto e non è mai caduto, che esorta alla violenza.
"Clarke?"
Gracchia. Anche la sua voce è diversa. Aspra, rauca. Come se avesse trascorso
gli ultimi anni ad urlare così forte da riempirsi di sangue le corde vocali.
Riconosce facilmente i sintomi. Sa cosa si prova. "Dov'è mio
fratello?"
Clarke deglutisce a vuoto.
Improvvisamente le sembra di essere finita in una tempesta di sabbia. "Mi
dispiace."
Octavia sembra capire.
Strizza gli occhi che per una frazione di secondo esprimono la stessa sofferenza
che le trafigge il petto a ondate regolari da sei anni a questa parte. Non è più semplicemente il dolore prolungato
di un'amputazione, di un arto fantasma. È lutto. È già pronta a vedere quel
dolore esplodere, trasformato in qualcosa di potente, mutato in rabbia, e
a diventare rosso sangue come la vendetta.
Clarke non aggiunge altro.
Octavia non glielo permette. Quando la abbraccia, muscoli d'acciaio e pura
forza, si sente una ladra. Sta rubando il momento di qualcun altro. Non è a lei
che dovrebbe essere diretta questa gioia indomabile. "Sono felice che
almeno tu sia qui."
La riunione è di breve
durata. Diyoza scende insieme a McCreary e Clarke la osserva attentamente
mentre parla con Octavia. Studia le loro reazioni.
Hyp le fa notare le
incrostazioni di sangue sul pavimento, le grate di ferro, il trono nell'angolo
e sbagliato, le sussurra
all'orecchio. Sempre la voce della ragione. C'è
qualcosa di orribile e sbagliato. Respiri anche tu la paura?
Quando Diyoza domanda
quante persone salveranno, Octavia risponde prima che lei possa aprire bocca.
"Settecentoquarantadue."
Diyoza non batte ciglio,
nonostante il numero sia decisamente inferiore rispetto a quello preventivato.
"Possiamo portarne due alla volta." Già operativa, si volta per
rivolgersi alla folla che osserva da dietro le grate, immobile e in silenzio.
Troppo immobile, troppo in silenzio.
"Non ancora," lei
interviene, superando la sensazione di malessere e freddo che le si è incuneata
nelle ossa. Entrambe le donne si voltano a osservarla e non sa cosa sia peggio,
se l'acciglio di Diyoza o l'inespressività di Octavia.
Clarke si avvicina
all'ultima, conscia degli sguardi riottosi del gruppo di guardie che circondano
Octavia, di quelli della folla che seguono ogni sua mossa. Si china in avanti in
modo che sia l'unica a sentire. "Mandali via,” sussurra. “Dobbiamo
parlare."
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*
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"La Valle è nostra. Ci
spetta di diritto."
"Perché? Pensi che
essendo arrivati qui prima, tu possa arrogarti il diritto di precedenza?"
"Così non va,"
dice Hyp. Lei non potrebbe essere più d'accordo.
"Smettetela,"
ordina seccamente. "Diyoza, dammi un attimo da sola con lei."
Anche una volta che la
porta si richiude, l'espressione belligerante sul viso affilato di Octavia non
subisce mutamenti.
"Cosa vuoi,
Clarke?" Atalanta le vola incontro, la sua voce un tempo trillante ora ha
un suono acuto e tagliente simile a un fischio. "Non hai alcun potere
qui."
"No, ma voi
l'avete," lei risponde senza la minima esitazione. Sta iniziando a
riconoscere la minaccia pendente nello sguardo di Octavia. Sa cosa vuol dire e
le spezza il cuore. È il senso di colpa del sopravvissuto, la vergogna mista al
rimorso. "Non so cosa vi sia successo in questi anni. Posso immaginarlo.
Ci sono passata anch'io. Portiamo il fardello perché non debbano portarlo
loro."
Le ciglia di Octavia
fremono come ali palpitanti, come le piume di Atalanta. Creano ombre inquiete
sui suoi zigomi pronunciati. Evidenziano brutalmente l'estrema magrezza e
gettano una luce drammatica su quale, esattamente, possa essere stata la sua
scelta impossibile.
"Qualunque scelta tu
sia stata costretta a prendere, per quanto orribile sia stata, era necessaria e
vi ha permesso di sopravvivere."
Atalanta svolazza vicino
alla guancia di Octavia che in risposta fa una smorfia. "Quattrocentocinquantotto
morti."
I soliti Blake. Nonostante
le differenze, è sempre incredibile notare quanto si somiglino. Il pensiero non
ha la solita esasperata tenerezza. Al contrario la riempie di rammarico, di
pungente tristezza.
"Settecento ancora
vivi," replica Hyp al suo posto quando la sua assenza di risposta sta
diventando palese. La sua coda le si attorciglia attorno al collo in una
carezza di conforto e parte dell'agonia ritorna ad essere sopportabile,
retrocede come la risacca.
"Non capisci.”
L’allarme con cui la guarda è anche dubbio tormentoso. L’angoscia di Octavia è
la stessa che l’ha perseguitata per mesi prima di incontrare Madi. Unica
superstite in un mondo di cenere e incombente minaccia. Ricorda la paura e la
pietà per sé stessa, l’oppressione e il delirio del mondo intero esacerbati
dalla solitudine. “Se non ho quella Valle, cosa avrò ottenuto? A cosa è servito
tutto quello che ho fatto?”
Clarke sente le parole che
non ha pronunciato. Cosa mi rimane? Oltre il rimpianto e il cordoglio? Oltre
l’orrore di ciò che sono stata costretta a fare, di cosa sono diventata?
Al che lei vorrebbe
rispondere: hai me. Ti rimango io.
Sa che non sarebbe
sufficiente. Lui sarebbe bastato, forse. La sua presenza sarebbe stata sufficiente
a risvegliare una scintilla di umanità. Nel suo caso, invece, sa bene di non
avere questa influenza.
E nonostante tutto, non c’è
nulla di sbagliato nel provare. Fa un passo in avanti e vede Hyp fare
altrettanto, accostarsi a Octavia e muovere la coda come se volesse
accoccolarsi contro di lei.
“È servito a farti arrivare
fin qui, ti ha portato ad oggi. Esattamente a questo. Fai la scelta giusta.
Dimentica il passato. Possiamo vivere in pace. Queste persone non sono una
minaccia se tu non le rendi tali.”
Aspetta e osserva con il
fiato sospeso la donna e il daimon che ha di fronte. Lo sguardo intenso che
Octavia e Atalanta si scambiano le fa provare un brivido di speranza. Forse
possono ancora trovare una soluzione, un compromesso. Forse-
“Non sono come te,” dice Octavia
e la speranza di Clarke arde come un sempreverde divorato dalle fiamme
dell’Inferno. “Non rinnegherò chi sono solo perché è conveniente. Avrò quella
Valle e se non sei con me allora sei contro di me. Sei un tutt'uno con Wronku o
sei un nemico del Wronku. Scegli.”
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Diyoza la squadra da capo a
piedi, a braccia incrociate. “Deduco che non sia andata come avevi sperato,”
commenta.
Clarke non sa se ridere o
piangere. “È un eufemismo.”
“Ho bisogno di sapere da
che parte stai, Wanheda.”
Wanheda. Il passato che torna a bussare. Chiude gli occhi e
sospira, ma è come gettare sale su una ferita che non si è mai cicatrizzata. “Le
notizie viaggiano veloci.”
“Solo se sei abbastanza
sveglio da separare le utili dal ciarpame. Dal poco che ho potuto osservare,
sembri l'unica che non brama la guerra. Mi dispiacerebbe essere costretta a rendere
tua figlia un’orfana. Te lo chiederò un'altra volta. Da che parte stai?”
Clarke ripensa all’ostilità
di Octavia. Non può fingere di non vedere la verità che è alla luce del sole, ignorare
la sua smania feroce di vendetta contro la crudeltà che il mondo le ha
scagliato contro da quando è nata.
“Dalla parte di chi sceglie
la pace.”
Diyoza non distoglie lo
sguardo dal suo. C’è recalcitrante approvazione, un invito al cameratismo che
Clarke non si sente ancora pronta ad accettare. “Ti avevo promesso che avrei
aperto il bunker. Ho mantenuto la mia parte dell'accordo. Ora tocca a te fare
la tua.”
È giusto. Clarke annuisce. “Parlerò
con mia madre.”
“E la tua amica? Non sembra
propensa a trovare un punto d'accordo.”
Il respiro di Hyp è
irregolare e sente il corpo del suo daimon contorcersi sotto la giacca di pelle
come se fosse in preda agli spasmi. L’incontro con Octavia li ha scossi più di
quanto entrambi siano pronti ad ammettere. “Ho già un piano per quello.” Non sa
ancora se è pronta a fare il necessario per portarlo a compimento, ma è una
preoccupazione per dopo.
Ovviamente Diyoza è lesta a
cogliere la sua esitazione. “Ucciderla sarebbe la soluzione più veloce. Entrambe
abbiamo visto abbastanza campi di battaglia da sapere che la solfa che ogni
vita ha valore è una favoletta. Una vita in cambio di quelle di centinaia vale
un po' di cinismo e una coscienza sporca.”
Lo sarebbe, è vero.
“Tieni a lei,” dice Diyoza.
“Più di quanto tu tenga agli altri. Perché?”
Le risposte potrebbero
essere molteplici. Senso di colpa. Non si è mai perdonata per averla abbandonata
fuori dal bunker. Affetto. Malgrado gli screzi, Octavia rimane parte della sua
famiglia. In ultimo, quello che ha il sopravvento è-
“Conoscevo suo fratello.”
Un altro spasmo. Invece di emettere un guaito, Hyp affonda i canini nella sua
spalla. La fitta di sofferenza che la trafigge in quel punto è qualcosa di
accettabile e preferibile al dolore che le trancia il petto. “Se fosse qui
farebbe tutto ciò che è in suo potere per proteggerla. Mia sorella, una mia
responsabilità, è quello che diceva.”
I suoi occhi sono asciutti,
ma devono lasciare trapelare più di quello che preferirebbe. La comprensione di
Diyoza non è condiscendenza, ma l’empatia che Octavia sembra impossibilitata a
provare.
“Ammirabile, lo ammetto. Ma
sai cos'altro è il tuo amico? Non è qui. Il resto di noi lo è e siamo
noi a dover fare i conti con lei. Hai fatto la tua scelta?”
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“Natrona.”
Hyp sta ringhiando e Clarke
si chiede come siano arrivate a questo punto. Antagoniste invece che alleate.
Su fronti opposti di una guerra inutile che avrebbe potuto concludersi senza
alcuno spargimento di sangue. Peggio ancora, che avrebbero potuto evitare sin
dall’inizio se solo Octavia fosse stata meno orgogliosa e accecata dalla sua
stessa ingordigia. Consumata com’è dal potere.
Forse lo è. Forse Octavia
ha ragione e Clarke è davvero la traditrice che la accusa di essere.
Ripensa a Madi, costretta
nella stessa fossa di combattimento in cui si trova ora lei. Ripensa a Diyoza,
alla protuberanza che la giacca servirà a nascondere ancora per poco. Ripensa a
sua madre, perseguitata dal fantasma di Kane come lei lo è dai fantasmi degli
amici che ha perso nel Praimfaya, la sua seconda famiglia. Ci sono persone che
non è più disposta a perdere e se per tenerle al sicuro essere considerata una
traditrice dalla sua stessa gente è l’unica arma nel suo arsenale, allora così
sia.
“No, non lo sono. Tu lo
sei,” dice e raccoglie la spada che le è stata lanciata dalle tribune.
Quando Octavia le si
avventa contro, Clarke reagisce. Non per colpire o contrattaccare, ma in
difesa. Viso contro viso, la lama dell’una puntata alla gola dell’altra, cerca
di non pensare a Bellamy, a quello che penserebbe di lei vedendola impugnare
un’arma contro sua sorella.
“Stai anteponendo i tuoi
interessi al bene collettivo. Possiamo ancora avere la pace. Potremmo, se tu
fossi disposta a cedere il potere. La tua parola non è più legge. Gli anni bui
sono finiti.”
Octavia si divincola dalla
presa con un grido di miseria e disperazione, quello di un leone ferito. Un
altro attacco, questa volta più violento di quelli che l’hanno preceduto, reso spietato
dalla forza brutale e dalla frustrazione.
A Clarke non resta che
continuare a bloccare, schivare e parare la furia del suo assalto, aspettando
una breccia. Il suo obiettivo è incapacitarla, anche se è una strategia
rischiosa. Octavia non è più la ragazza di un tempo e sei anni di pace hanno
trasformato il suo corpo in qualcosa di diverso dalla macchina letale che
invece è rimasto quello di Octavia.
È fortuna sfacciata e un
colpo andato a segno a decretare la fine del combattimento. Mentre la spada di
Octavia le affonda nel fianco, Hyp si scaglia contro Octavia che, presa alla
sprovvista, allenta la presa attorno all’elsa. È tutto ciò di cui lei ha
bisogno. Clarke è già in ginocchio, le basta muovere la gamba per sbilanciarla
quel tanto che basta a farla ribaltare e cadere. Atalanta vola verso di lei, ma
Hyp è più veloce e la trattiene.
Con uno sforzo sovrumano si
alza, afferra la sua spada e la getta lontano da entrambe. Non è così ingenua
da credere che Octavia sia pronta a riconoscere la sconfitta. Non estrae la
spada di Octavia. È pazza, ma non fino a questo punto. Il dolore al fianco è
atroce e le annebbia la vista, ma Clarke ha provato di peggio. Tenendola
bloccata con una mano, si rivolge alle persone accalcate dietro le grate di
ferro. “Ascoltatemi, non deve per forza andare in questo modo! La guerra può
essere evitata! Non è l'unica scelta!”
La sua voce è stentorea nel
silenzio tombale. L’odio e la rabbia negli occhi di Octavia sono evidenti.
Prima di accorgersi di loro,
lo sente.
L’improvviso silenzio di
centinaia di persone che trattengono il respiro come di fronte a qualcosa di
miracoloso e l’odio di Octavia che non era diretto a lei, non soltanto almeno.
Un titolo onorifico che
sperava di non ascoltare mai più, esattamente come il suo.
“Heda.”
Basajaun si fa largo
nell’arena di combattimento e tutti i daimon degli astanti si inchinano al suo
passaggio come di fronte al signore dei boschi. L’orrore e la sorpresa scalzano
il dolore quando Clarke se ne accorge. Bas ha assunto la sua forma definitiva.
Non è un cervo come il daimon di Lexa, ma qualcosa di altrettanto imponente e
regale. Un kudu, il manto grigio-blu e il corpo possente come quello di un
bufalo, con un palco di corna maestose lunghe almeno mezzo metro.
“Madi, no. Cosa hai
fatto?”
Madi, la sua piccola natblida,
la osserva con gli occhi del passato, quelli di qualcuno a cui lei ha detto
addio molte vite fa: occhi resi intensi da ciglia lunghissime nel contorno di
una maschera da guerriera. “Quello che avresti fatto tu se avessi potuto. Ho
fatto quello che andava fatto.” Il suo sguardo la supera per concentrarsi su
Octavia e la sua espressione si indurisce. “Il mio popolo, una mia
responsabilità.”
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Diyoza la affianca, la
postura da soldato e le braccia immobili contro i fianchi, ma Clarke sa che se
fossero sole le passerebbe protettivamente attorno al grembo.
Insieme osservano la scena
sottostante: l’incoronazione di una regina-bambina.
Clarke continua a respirare
nonostante il crepacuore. Si tiene l’addome bendato come se fosse quello la
causa del dolore che sta provando. I singulti di Hyp non sono altrettanto
silenziosi.
“La ascolteranno?” domanda
Diyoza.
“In lei risiedono le
coscienze dei Comandanti che l'hanno preceduta. La ascolteranno,” dice come una
promessa. In realtà è una preghiera. “Per loro è un atto di fede.”
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“Abbiamo un problema.”
Qual è la novità, borbotta Hyp e Clarke ricaccia dentro di sé una
risata amara. Sono sull’orlo di un precipizio, ad un passo dall’ennesima e
insensata guerra per il dominio dell’ultimo scampolo di vita sul pianeta e la
stanchezza la sta consumando come un fuoco impossibile da spegnere.
Diyoza ha smesso di
parlare. Non importa. Clarke ha capito quanto basta. McCreary non ha mantenuto l’accordo. Di
fronte a un potenziale attacco missilistico non ci vorrà molto prima che Madi
si senta costretta a impugnare le armi e a scendere sul campo di battaglia. Sua
figlia può essere una pacifista, ma ha reso chiaro di essere una ferma
sostenitrice della legge del taglione. È categorica, giusta, senza alcuna misericordia
verso coloro che sono stati giudicati immeritevoli di riceverla.
“Mia madre?” domanda, anche
se conosce già la risposta. Le carte sono sempre contro di lei.
“Ostaggio di McCreary,”
risponde Diyoza prevedibilmente.
“Pensi che Shaw cederà?”
Zeke conosce i rischi di sbloccare
i codici di lancio del missile. Tuttavia, malgrado la spavalderia, è un uomo
buono. In questo frangente potrebbe rappresentare la rovina di tutti loro.
“Potrebbe, se torturassero
Abby di fronte a lui.”
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“Dimmi che hai un piano,” dice
Hyp nel marasma generale.
“È rischioso,” dice Clarke.
Hyp le mostra il suo ghigno
ringhiante. “Quando mai non lo è?”
Clarke non dovrebbe ridere,
ma non riesce a trattenersi.
Diyoza e il suo daimon li
guardano come se fossero impazziti. Forse lo sono. Forse lo sono sempre stati. La
verità è che lei e Hyp sanno, statisticamente parlando, che questi sono i pochi
momenti di sanità mentale, rare tregue tra una catastrofe e l’altra.
“Perciò è guerra?” domanda
la donna e questa volta la preoccupazione è tale che non bada a celare
l’abbraccio protettivo con cui si stringe il basso ventre.
Clarke vorrebbe che le cose
fossero andate diversamente. Vorrebbe avere il poter di tornare indietro nel
tempo e ricominciare daccapo. Si chiede dove abbia sbagliato di preciso. Quale
concatenazione di eventi abbia portato a questo epilogo. Cosa avrebbe dovuto
fare per non arrivare a questo punto di non ritorno.
Più di ogni altra cosa, vorrebbe
guardare la donna che le è di fronte e darle una risposta diversa. Le
circostanze esulano dalla sua volontà ed è con la morte nel cuore che risponde:
“È guerra.”
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Il risultato dell’impasse in
cui si trovano può solo sfociare in risultati drammatici.
Clarke cerca lo sguardo di
sua madre e lo trova un attimo prima della fine. Diyoza ha la pistola puntata
contro il suo ventre e gli occhi iniettati di sangue di McCreary la osservano
come se fosse la prima volta che la vedono davvero, come se stessero mettendo a
fuoco il mondo per la prima volta da tempo immemore. Quando si accorge di Shaw
è troppo tardi. Due colpi partono, sparati contemporaneamente. McCreary muore
sul colpo. Sua madre no.
Mentre Diyoza ordina a Shaw
di arrestare il conto alla rovescia, Clarke corre al capezzale di sua madre.
Una sola occhiata alla ferita le basta per sapere che non c'è nulla da fare.
Il piumaggio blu di Cassiel
è già tinto di rosso e il sangue non accenna a fermarsi.
Non riesce a respirare. Non
riesce a parlare. Non riesce neppure a formulare un pensiero coerente oltre al
fatto che non può perdere anche lei, non così, non dopo che l’ha appena
ritrovata.
Abby allunga una mano
tremante verso il suo viso. Clarke la stringe tra le sue. Non è la donna
confusa dalle droghe delle ultime settimane, ma la madre che ricorda:
amorevole, audace e forte. "Sei stata brava," sussurra e il suo
respiro è rantolante, ha il rumore umido del sangue che deve averle riempito i
polmoni. Parlare deve essere un'agonia. "Sono così fiera di te, Clarke.
Così fiera."
Non lasciarmi. Non posso perdere anche te.
Il verso che emette non è
umano. Non proviene da lei. Hyp guaisce un'altra volta. Qualcosa dentro di lei
si spezza mentre la luce abbandona gli occhi di sua madre e Cassiel ritorna ad
essere Polvere.
Continua ad abbracciare il
suo corpo senza vita per un tempo che le pare incalcolabile con Hyp raggomitolato
tra di loro, impietrito.
"Clarke." La voce
di Diyoza è imperiosa, ma serba una traccia simpatetica. La raggiunge nella
foschia del cordoglio. "Devi alzarti. So che adesso ti sembra impossibile,
ma lo supererai."
Tutto in lei rigetta
l'idea. (Verrà un momento, un paio di anni più tardi, una sera di disperazione
e rabbiosa impotenza spesa a bere liquore di pessima qualità distillato dalla
resina degli alberi, in cui Diyoza le racconterà la verità dietro la cicatrice
che le marchia la gola. Verrà il giorno in cui la donna che le sta di fronte
sarà per lei una compagna, amica e alleata, in cui riempirà un vuoto che Clarke
si era convinta che nessuno mai sarebbe stato più capace di riempire. Quel
giorno non è oggi.)
Quando si sente afferrare
per il gomito, sussulta e poi Shaw stravolge il suo mondo un'altra volta,
facendo tremare il terreno sotto i suoi piedi. "Si tratta di Madi. C'è
stato un problema al villaggio."
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*
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Dopo che la capsula è
sigillata, Clarke crolla sulle ginocchia, cercando di tenere insieme i pezzi di
sé stessa.
Il dolore che la attraversa
supera di gran lunga qualsiasi ferita da battaglia le sia mai stata inferta. È
come attraversare il Praimfaya. Essere trafitta da mille lame di vetro nelle
dune del deserto. Perdere suo padre, Wells, Finn, Lexa, Bellamy, sua madre
tutto daccapo.
Poi lo sente. Come un
sussulto dentro di lei, una contrattura nello spazio. Sbatte le palpebre e
oltre il velo delle lacrime, la realtà si fa largo dentro di lei come un
uragano. Per un lungo, terribile istante Hyperion sembra essere fatto
interamente di luce. No, è inesatto. La luce filtra come tra le fenditure in
una roccia.
Quando la luce si ritrae,
la Polvere si ricompatta nella figura di un corpo massiccio di crepuscolo e
ombra.
“Mai più,” lui dice. Suona
come un giuramento, sacro e indissolubile ed eterno.
Anche la sua voce è
cambiata. È più profonda. Cavernosa. Come l'abisso che sono stati costretti ad
attraversare innumerevoli volte per risalire in superfice.
La lacerazione dentro di
lei si richiude, forgiata nel fuoco come il metallo più resistente, temprata
nella perdita e in un lutto di troppo.
Mai più.
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*
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Ore, giorni, mesi più
tardi, rannicchiata contro la nuova forma di Hyp, nella sua mente le appare
tutto fin troppo chiaramente.
Clarke pensa a quanto
strano sia il destino. Dacché ha memoria, è sempre stata abituata al peso del
corpo del suo daimon contro il suo. Corpi di piccole dimensioni, anche prima
che si stabilizzasse nella sua forma definitiva. A differenza dei terrestri, i
cui daimon tendono ad essere imponenti e robusti, tutti i daimon sull’Arca hanno
sempre scelto forme che non occupassero troppo spazio dal momento che lo spazio
vitale era già così limitato.
È strano rendersi conto che
la sua anima sia diventata tanto più grande di lei. Tuttavia ha anche senso,
pensa. È profondamente conscia del vuoto che contiene e che non può essere
colmato. Adesso guardare negli occhi di Hyp, per quanto confortante rimanga, è
diventato anche sopportare il buio della sua anima, accettare il peso delle sue
fragilità e della sua inadeguatezza.
Lui sembra leggerle dentro
come sempre. “Siamo qualcosa di più delle cicatrici che ci portiamo addosso,”
dice. “Siamo sopravvissuti.”
Allora perché si sente
morire?
Clarke nasconde il viso
nella sua pelliccia biondo rossiccia e se anche le sue guance sono striate, non
c’è nessuno a farglielo notare. “Lo credi davvero?”
Hyp le lecca una guancia finché
non c’è più traccia di lacrime. I suoi occhi giallo dorati riflettono il cielo
stellato. “Devo.”
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N/a:
Ricordo quando ho iniziato
a scrivere questa storia. È stato anni fa e l'eccitazione dell'uscita
dell'ultima stagione mi aveva riempito la mente delle idee più straordinarie e
stravaganti. Poi ho visto la settima stagione, o meglio ho iniziato, e
quell'eccitazione è stata spazzata via brutalmente.
È rimasta a prendere
polvere per molto tempo sul mio pc. Non so cosa mia abbia spinto a riprenderla
in mano. Forse semplicemente la nostalgia o il desiderio egoistico di farle
vedere la luce del sole, di non lasciarla incompleta.
Questa è solo la prima
parte. Il secondo capitolo è raccontato dal punto di vista di Bellamy ed è
praticamente abbozzato. L'idea di raccontare la storia lasciando trapelare le
emozioni dei personaggi attraverso le reazioni dei loro daimon era così
attraente, anche se è stato più difficile metterla in esecuzione di quanto
avessi inizialmente preventivato. E nonostante tutto ciò eccomi qui, con
qualcosa che spero sia quantomeno passabile e che vi abbia trasmesso
un'emozione di qualche sorta. Spero di arrivare presto con il secondo capitolo,
nel frattempo vi mando un abbraccio e se posso permettermi, consiglio
calorosamente e caldamente a chi fosse interessato al genere dell'animazione di
correre a vedere NIMONA (nel caso in cui la mia icona non avesse reso chiaro
che questo film è la mia ultima e più recente ossessione LOL).
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Daimon (forme/nomi):
Clarke > Hyperion/prima un ermellino e poi una lince
Octavia > Atalanta/un colibrì
Madi > Basajaun/un kudu
Diyoza >un armadillo
Abby >Cassiel/una ghiandaia azzurra
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