Sul prato

di Wilson Walcott
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Il vento mi accarezzava la pelle come fa un padre amorevole con il proprio figlio quando è ammalato. 
Sembrava quasi incitarmi ad alzare il mio corpo stanco ed allontanarmi da quella quiete, ma io non volevo farlo.
Stavo troppo bene sopra quel prato morbido, nonostante il rischio di essere preso per pazzo dai passanti incuriositi che mi fissavano attoniti.
Il mondo esterno, in quel luogo, dava l'impressione di non esistere. Niente riusciva a toccarmi, scalfirmi o farmi del male.
Avevo con me il mio quaderno e la solita penna fedele.
"Ho deciso di scrivere quanto segue per esternare tutto quello che mi porto dentro ormai da anni. E' strano quello che ti resta impresso in mente nel corso della vita: un odore particolare, una melodia, il sapore del sugo domenicale che preparava mia nonna con tanto amore, oppure le urla dei miei genitori che non smettevano mai di litigare e dare sfogo alle più disparate recite fatte di dramma e rancore reciproci.
Se rivedo tutto questo, dal di fuori, pare quasi di osservare un quadro impressionista.
Ho sempre cercato di capire il meccanismo delle cose, il perché nascessero determinate situazioni o cosa animasse lo spiirito umano, il motivo scatenante che ne fosse alla base insomma. Alcune volte ci sono riuscito, altre meno.
Ciò che resta ignoto alla nostra comprensione può assumere e portare a due proiezioni diametralmente diverse, quasi opposte direi; la paura di quella cosa, o la sua morbosa attrazione. 
A me spesso è capitato di provare entrambe le cose.
Non saprei dire quale delle due sia la più deleteria, fatto sta che la mente umana agisce in modi a noi ancora troppo sconosciuti."
Ero fermo a scrivere quel pensiero quando la mia attenzione fu riportata al presente, a ciò che stavo vivendo in quel momento. Era bastato lo sguardo di un cane abbandonato a farmi ritornare lì.
Il suo fare così speranzoso ed altrettanto triste mi distruggeva da dentro.
Sembrava la stessa gabbia mentale nella quale mi ero messo da solo e dalla quale non riuscivo più a scappare, da catene fatte di parole e ricordi.
Nemmeno la terapia poteva aiutarmi ormai. Del resto, parlavamo sempre delle stesse cose in discorsi ciclici senza capo né coda, inconcludenti per loro stessa natura.
Ma cosa significasse di preciso non lo capivo bene. Era come indossare una maschera, fatta di gesti e pensieri costanti, ripetitivi.




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