EVOLUZIONE
AL CONTRARIO
Di
tutte le storie mai inventate sulla fine dell'umanità,
nessuna ha
mai davvero avanzato la pretesa di essere un'ipotesi realistica.
É
sempre stato così, film, libri, racconti al limite di ogni
immaginazione creati per intrattenere e divertire.
A
pensarci adesso sembrano quasi una barzelletta.
Di
certo nessuno ha mai ritenuto possibile vivere in prima persona un
evento del genere. Come se si potesse sopravvivere a una catastrofe
in grado di cambiare i connotati di un intero pianeta.
Ogni
tanto mi chiedo se siamo stati fortunati o se invece tutto questo si
rivelerà una grande, enorme maledizione.
Gli
scarponcini che indossavo il giorno dello schianto sono il mio tesoro
più grande e da giorni mi sveglio con la sensazione di avere
dei
macigni sui piedi. Per quanto sia scomodo e poco igenico,
diventerà
presto un'abitudine.
Lo
so perché è diventata un'abitudine anche
riorganizzare il mio
giaciglio ogni mattina, così come buttare uno sguardo veloce
al
calendario che qualcuno ha appeso al muro accanto alla porta. Aldo
deve aver già fatto il primo giro perché una X
è stata disegnata
sopra il numero ventidue.
Cerco
di non pensare a come sia diventata un'abitudine percorrere i
corridoi di questa vecchia scuola come se fosse una casa. É
un
pensiero disturbante, l'idea di essermi ritrovata tra coloro che
dovranno imparare a convivere con questa nuova Terra e le sue
stranezze.
Un
coniglio dal pelo grigio mi sorpassa in un rombo di saltelli, seguito
da uno scoiattolo e poi da un gatto rossastro. Assisto alla scena a
metà tra il divertito e lo sconsolato. Mi chiedo se questi
animali
sono nuovi arrivati, magari dei bambini, che ancora non hanno
imparato le regole del rifugio. Mi chiedo che tipo di futuro spetta a
loro. A tutti noi.
Il
frastuono di voci, passi e oggetti spostati mi accompagna, familiare
come il rumore di una famiglia pronta a riunirsi per colazione.
«Ve
lo dico io! Fidatevi. Si tratta di una mutazione genetica, siamo
tutti fregati».
«Ma
Dottor Castelli, lei era un professore di matematica, cosa vuole
saperne di mutazioni genetiche!».
Lo
sbuffo del Dottor Castelli risuona attraverso l'entrata della stanza
che è stata adibita a sala comune. È un luogo
dove ci ritroviamo
per mangiare e, come in questo caso, discutere.
La
scena che mi si apre davanti è familiare. Il Dottor Luigi
Castelli è
seduto scomposto su una sedia troppo piccola per la sua stazza, come
se si fosse già affezionato alla sua esistenza da ermellino
e non
avesse più percezione di quella umana. La novità
del giorno sono i
suoi interlocutori, due giovani che se non mi sbaglio si chiamano
Paolo e Giulio.
«Ma
mica sono un'idiota!».
«Non
possiamo saperlo con sicurezza», insiste Giulio.
«Senza tecnologia
non abbiamo modo di effettuare analisi del sangue o di capire cosa
è
successo davvero a livello genetico. Per me è una cosa
temporanea.
Quando se ne andrà la polvere, torneremo normali».
Il
Dottor Castelli alza gli occhi al cielo. «Non è
temporanea, ve lo
dico io! L'essere umano è destinato a diventare un animale,
sarà
un'evoluzione al contrario».
«Le
ripeto, Dottore, che non ne abbiamo la certezza e che...».
Con
un sospiro mi lascio alle spalle la sala comune e continuo sul mio
cammino. Non è la prima volta che mi ritrovo ad ascoltare
una
discussione simile, ma la sensazione di disagio sulla bocca dello
stomaco è sempre presente. É impossibile non
chiedersi fino a che
punto il Dottor Castelli abbia ragione, fino a dove arrivi la sua
fantasia. E per quanto possa inventarsi ipotesi assurde, è
innegabile la realtà dei fatti.
Ventidue
giorni fa la Terra è stata oggetto di un enorme mutazione e
non solo
nell'apparenza, devastata dalla furia dell'universo. Ventidue giorni
fa il cielo è diventato scuro, poi rosso e poi a nessuno
è più
importato del colore, troppo impegnati a scappare e a cercare rifugio
da una terrificante pioggia di meteoriti. E una volta aperti gli
occhi, una volta realizzato di essere vivi- di essere sopravvissuti!-
tutti gli esseri umani si sono trovati mutati in animali.
Ricordo
ancora il momento di stallo tra la risata tragicomica e le lacrime,
come se stessi aspettando che qualcuno spegnesse la telecamera e
tutto potesse tornare alla normalità. Nessuna telecamera
è mai
apparsa, mentre io sono rimasta. Così come tutti gli altri.
Non
è facile accettare questo nuovo mondo, soprattutto senza
poter dare
una spiegazione scientifica o per lo meno razionale. Ma siamo senza
acqua corrente, elettricità e qualsiasi comfort al quale
eravamo
abituati. É
un miracolo se siamo vivi.
Scoprire quali tipi di elementi i meteoriti si sono portati dietro
non è una priorità. Non ora, per lo meno.
Spingo
il portone dell'uscita e tiro un sospiro di sollievo mentre l'aria
fresca del mattino mi sferza le guance. Il sole, appena sorto,
è
appena visibile dietro la coltre di polveri sottili che ancora
viaggia nell'aria. Non danno particolare fastidio alla respirazione,
ma rendono l'intero paesaggio molto più cupo di quello che
sarebbe
dovuto essere in una soleggiata mattinata primaverile.
La
scena di fronte ai miei occhi è anch'essa ormai familiare.
Il plesso
scolastico che Gianna ha scelto per il suo rifugio è per
metà
ridotto in macerie. Solo la palestra e una parte delle aule sono
sopravvissute alla devastazione e sono le aree che abbiamo occupato
nel tentativo di ricostruirci una vita. Ciò che era una
città ora è
un ammasso di detriti, di rami spezzati e tralicci della corrente
caduti, di abitazioni che oramai hanno perso qualsiasi definizione.
La ricostruzione sarà una faccenda lunga, ma da qualche
parte
dobbiamo pur iniziare.
All'angolo
della strada appaiono due figure familiari, entrambi nella loro forma
animale. Mattia, un signore di mezza età dalla parlantina
veloce e
simpatica, trasporta sul dorso la figura inerte di un uomo. Il muso
lupesco è sporco di sangue e una parte di me si chiede se
abbia
trovato qualcosa con cui fare colazione. L'idea di nutrirsi come
animali è qualcosa che mi affascina e mi disgusta allo
stesso tempo.
Ho ancora sulla lingua l'impressione del piccolo topo di campagna che
ho provato a cacciare qualche giorno fa. Non è stata
un'esperienza
del tutto negativa, almeno per la parte felina del mio cervello
-esiste una parte solo felina? C'è stata una mutazione anche
a
livello celebrale e diventeremo davvero più animali che
esseri
umani?- ma di certo preferisco il caro e vecchio cibo cotto.
Mattia
mi fa un cenno e, dietro di lui, Marta lo imita. É solo una
ragazzina di sedici anni, ma nella sua forma da lince è
diventata
essenziale nel gruppo dedicato alla ricerca dei superstiti.
Non
mi fermo a parlare con loro, nemmeno per chiedere se hanno notizie
positive. La risposta è ovvia e in ogni caso Gianna ci
parlerà dei
risultati di ognuno questa sera.
La
mattinata è silenziosa e calma. Riporto alla memoria le
tappe del
compito che mi spetta oggi: proseguire verso est, lungo quella che
era stata una strada provinciale, fino alla cittadina vicina e fare
un giro di perlustrazione. Nella mia forma umana sono lenta e goffa,
mentre in quella felina sono troppo piccola per trasportare pesi o
muovere massi. Così sono stata assegnata agli esploratori,
che hanno
l'obiettivo di riportare a Gianna le informazioni necessarie per
decidere se mandare dei gruppi di soccorso o di approvvigionamento.
Raggiungo
il limitare della città e mi fermo all'ombra di un muro.
Prima o poi
mi abituerò all'idea di poter cambiare aspetto, ma per ora
non
riesco ancora a farlo di fronte agli altri. Alcuni dei più
avventurosi hanno già buttato alle spalle qualsiasi tipo di
pudore,
per me è impensabile. Ma è necessario,
perché -oltre il danno la
beffa- in questa nuova e non richiesta abilità non
è inclusa la
trasformazione dei vestiti. Mi concentro sulle azioni ormai familiari
di raccogliere i miei indumenti e li nascondo in un anfratto tra le
rocce.
Poi,
con un semplice respiro, percepisco il mio corpo mutare e la mia
prospettiva visiva abbassarsi fino a terra.
Nella
mia versione felina i miei sensi si acuiscono. Le orecchie si muovono
al minimo suono e con l’olfatto posso percepire gli odori
più
sottili. Sono abilità comode, nell'ottica di una ricerca di
informazioni. Con questo obiettivo ben chiaro in mente, inizio a
muovermi.
Da
essere umano non sono mai stata un'amante della corsa, ma da animale
è uno dei pochi gesti che mi ha portato momenti di
felicità in
queste settimane piene di incertezza e paura. É un'azione
istintiva.
Esiste solo il movimento dei muscoli, il vento contro il pelo corto,
il terreno irregolare sotto le zampe sensibili e forti.
Presto
il paesaggio intorno a me diventa un miscuglio sfocato. Verde,
grigio, nero, marrone. Conoscevo questi luoghi anche prima della
catastrofe ed è facile immaginare di percorrere questa
strada come
se nulla fosse successo, se non mi concentro sui dettagli. I colori
sono gli stessi di sempre, tipici della zona pre montana che, solo
qualche settimana fa, costituiva la periferia tra le grandi
città
lombarde di Milano e Lecco. Ora questi nomi hanno perso significato,
ma il ricordo rimane.
É
difficile, in forma felina, quantificare il tempo che impiego a
percorrere i chilometri che separano la città in cui si
è rifugiata
Gianna con quella vicina. Il sole si è alzato nel cielo, la
sua luce
appena percepibile attraverso il muro di polveri che mi circonda. Ma
è pur sempre un indicatore fedele della durata delle
giornate. Un
qualcosa di conosciuto in questo mondo così diverso.
La
scena che si dipinge nel momento in cui incontro le prime abitazioni
è familiare in maniera inquietante. Un'altra cittadina piena
di vita
è diventata un villaggio di fantasmi. Dal disordine generale
risulta
chiaro che nessun umano si è stanziato qui, o che per lo
meno
nessuno si è ancora messo all'opera per ricreare una
parvenza di
umanità.
Il
terreno scricchiola sotto le mie zampe e mi lascio trasportare dai
miei sensi.
Cerco
di evitare l'ormai familiare odore dei corpi in fase di
decomposizione, lasciati a morire nel punto in cui hanno trovato la
loro fine. Nella nostra città Gianna si è
preoccupata di
raccogliere i cadaveri e seppellirli in una fossa comune nei primi
giorni dopo lo schianto e, ora come non mai, sono grata della sua
lungimiranza.
Non
mi aspetto di trovare molto in questa città desolata.
É chiaro che
non ci sia nessuno di vivo e, per quanto non mi piaccia ammetterlo, i
morti non sono la mia priorità.
Prima
di mezzogiorno compio un giro completo di tutte le strade. La mia
forma felina è abbastanza piccola e agile da superare massi
e alberi
e mi permette di arrivare ovunque. Scopro così due
supermercati, un
negozio di indumenti e uno di ferramenta che sono in parte
sopravvissuti. É un buon bottino, tutto sommato. Sono certa
che
Gianna manderà già domani una squadra per
recuperare il più
possibile.
Non
ho indicazioni sul continuare verso la prossima città,
così decido
di tornare indietro. La colazione saltata si sta facendo sentire e se
posso evitare di cacciare, allora tanto meglio.
Me
la prendo comoda. All'andata ho corso, ma ora decido di camminare a
passo svelto e di lasciare vagare l'attenzione sul paesaggio intorno
a me. Non che ci sia molto di interessante da guardare, ma senza il
fruscio del vento nelle orecchie e il rimbombo dei passi sull'asfalto
colgo un rumore inaspettato.
Mi
fermo in mezzo alla strada e mi guardo intorno. Su entrambi i lati ci
sono i rimasugli di grossi edifici che si sono afflosciati a terra
senza lasciare altro ricordo della loro forma originaria. Ma sulla
destra, nascosta dietro un paio di alberi spezzati, si intravede la
forma quadrata di una finestra.
Il
rumore di poco prima si ripete. É un borbottio sottile, ma
si fa
sempre più preciso mano a mano che mi avvicino. Diventa
facile
riconoscere delle voci e affretto il passo. L'idea di aver quasi
lasciato delle persone in questo luogo desolato mi fa venire i
brividi.
Non
impiego molto a raggiungere le voci. Il buco nella parete trasporta
un singhiozzo e una voce più rassicurante, non abbastanza
profonde
da appartenere a degli adulti. Con un balzo mi isso sul davanzale e
mi guardo intorno. La stanza in cui mi ritrovo si è salvata
solo in
parte, quel che basta per funzionare come riparo dalle intemperie.
C'è un fuoco acceso in un angolo e, abbracciati di fronte ad
esso,
due bambini.
Per
una attimo non riesco a muovermi, non di fronte alle loro figure
sporche, alle due paia di occhi scuri che mi guardano a metà
tra lo
speranzoso e lo spaventato. Sono solo un gatto, al momento, eppure
non riesco a non pensare all'enorme ingiustizia di tutta questa
situazione. Non che ci sia qualcuno da poter incolpare, d'altronde.
Sarebbe tutto più facile.
Con
un altro salto entro nella stanza e decido di ignorare il mio pudore.
Poter conversare in questo momento è più
importante di qualsiasi
costrutto sociale che mi porta a provare vergogna del mio corpo nudo.
La mutazione in umana è veloce tanto quanto quella in felino
e mi
inginocchio subito a terra per cercare un contatto visivo.
«Ehi.
Ciao». Alzo le mani per mostrare di non essere un pericolo.
«Tutto
bene?». Che domanda idiota. «Siete
feriti?».
Il
più piccolo ha le guance rigate di lacrime, mentre la
ragazzina ha
un'espressione accigliata. Si sposta di fronte al bambino e mi si
stringe il cuore al pensiero che qualcuno possa aver paura di me.
«Non
voglio farvi del male». Cerco di trovare il modo migliore per
parlare senza spaventarli. «Siete da soli?»
Dopo
qualche secondo la ragazzina annuisce e io sorrido.
«Io
mi chiamo Neve. Come avete visto prima mi posso trasformare in un
gatto. E voi?».
«Io
sono un pettirosso». La voce del bambino arriva per prima e,
di
nuovo, sorrido. Incurante del pavimento sporco, mi siedo a qualche
passo da loro.
«E
come ti chiami?».
«Luca».
«Ciao
Luca. Sai che conosco un Luca anche io? É un pastore tedesco
nel mio
rifugio».
Gli
occhi del bambino si riempiono di meraviglia. «Un cane? Posso
accarezzarlo?».
«É
un po' scorbutico, ma se glielo chiedi sono certa che si
farà
accarezzare. Sa giocare molto bene a calcio», gli rivelo.
Definire
Luca, il braccio destro di Gianna, un po' scorbutico è
probabilmente
riduttivo, ma il diretto interessato non è qui ad ascoltarmi
e mi
interessa di più portare questi due sopravvissuti al sicuro.
«Io
mi chiamo Giada. Sono una volpe». La ragazzina di fronte a me
deve
avere non più di undici, dodici anni, ma ha già
lo sguardo di una
combattente.
Faccio
un cenno di assenso e mi decido a porre una domanda difficile.
«I
vostri genitori? O amici?».
Giada
scuote la testa e Luca si lascia scappare un altro singhiozzo. Si
stringe al braccio della giovane con la disperazione di chi ha perso
tutto e non vuole perdere più niente.
«Anche
io non ho più la mia famiglia», rivelo. Una
condizione ormai comune
a molti, mi ripeto. Non serve ad attutire il dolore che mi invade per
qualche secondo al ricordo dei corpi senza vita di mia madre e di mio
fratello.
Ma
io sono qui. E questo non è il momento di farsi prendere
dalla
disperazione. «Ma ne ho trovata una nuova. Ci sono tante
persone e
ci aiutiamo a vicenda. Ci sono anche altri bambini, come voi. E
abbiamo cibo, coperte e vestiti puliti. Volete venire con
me?».
Ed
è così che, al calare del sole, mi ritrovo alle
porte del rifugio
di Gianna con appresso due nuove aggiunte. Non ho dubbi che verranno
accettati, così come abbiamo accolto decine di persone nei
giorni
passati.
Mi
basta uno sguardo verso il tetto della palestra per riconoscere la
figura appollaiata di un'aquila reale. Gianna. Stringo le mani dei
bambini tra le mie e le faccio un cenno di saluto, certa di essere
riconosciuta.
Noto
subito che durante la giornata sono stati rimossi alcuni grossi massi
ed è stata liberata una porzione del cortile. Riconosco tra
gli
adulti Benedetta, la mia vicina di giaciglio e una delle persone
responsabili del gruppo dei più giovani. Le risate dei
bambini sono
un balsamo dopo una giornata passata ad ascoltare il silenzio della
morte.
«Benny.
Ciao».
«Neve.
Hai acquisito un nuovo seguito?».
«Li
ho trovati oggi», mi apro in un sorriso divertito.
«Spero tu sia
pronta a due nuove reclute».
Benedetta
ride a sua volta e si inginocchia di fronte a me. Con la dolcezza che
caratterizza tutte le sue interazioni con i bambini, allunga le mani
verso Luca e Giada, che esitano qualche momento prima di stringerle.
«Benvenuti».
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Ritorno
su questo account per postare una storia con la quale ho partecipato a
un contest indetto su un server di Discord nel quale bazzico di recente.
Il
tema doveva essere “qualcosa di grosso è
successo nel mondo e ne sei testimone” e questa è
stata la mia versione dei fatti. Sono molto soddisfatta di questa
storia, soprattutto perché sto iniziando a sperimentare e ad
uscire dalla mia comfort zone (ad esempio con la prima persona
presente, mai utilizzata in una mia storia!). Sono aperta a qualsiasi
critica costruttiva o consiglio che possa venirvi in mente.
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