Ogni commerciante di Whickber Street
sa che gli inverni si affacciano a Soho solo quando la vetrina
d’angolo della libreria di A. Z. Fell & Co. cambia veste. Le vecchie
cassettiere che la occupavano spariscono e il pavimento si copre di
un antico tappeto persiano dai colori sbiaditi, decorato da fenici
color porpora e arabeschi dorati; non che rimanga molto da vedere
sotto alla ridicola ammucchiata di cuscini colorati che lo riempie.
Ce ne sono di ogni tipo: squadrati, rotondi, a forma di luna e
stelle, cuscini morbidi e panciuti in piuma d’oca o termici e
profumati, riempiti di noccioli di ciliegia riscaldati al microonde
– che, nel caso di Aziraphale, è un modo come un altro per chiamare
il suo miracolo mattutino. Sarebbe strano, in fondo, avere un
microonde nel bel mezzo di una libreria dove il tempo è fermo a un
secolo prima, quando i telefoni funzionavano a dischi, le macchine
da scrivere sostituivano i computer e il wi-fi era un’idea da
libri di fantascienza.
Con il Solstizio d’inverno, quando la
neve ricopre le strade – o, come in ogni altra stagione, piove e
piove e piove, manco il meteo inglese si fosse bloccato su un unico
bagnatissimo canale – Crowley si trasferisce in pianta
stabile tra i cuscini di quella vetrina e ne fa il proprio nido.
Alle volte qualche cliente si accorge
di lui; perlopiù la prole degli sfortunati che entrano per comprare
un libro e puntualmente ne escono a mani vuote. D'altronde si sa, i
bambini hanno più naso degli adulti, la loro è una curiosità che non
conosce guinzaglio, e alla fine si ritrovano sempre a invadere spazi
che sarebbe carino non venissero invasi.
Dopo un momento di confusione passato
a fissarlo, tutti finiscono per volerlo pungolare, giusto per
assicurarsi che quell’affare sia vero e vivo e
wàààaiutomammailserpentesièmossoevuolemangiarmi!
E grazie a Satana che si muove!, o
invece della mamma toccherebbe chiamare il becchino. O un
veterinario. O trovare una scatola abbastanza larga per infilarcelo
– quale che sia la soluzione più comoda in casi come questo.
Senza contare tutte le maledette
scartoffie che ci sarebbero da compilare.
No, meglio vivo e vegeto, con i
mocciosi che starnazzano trottando via in tutta fretta e Aziraphale
già pronto a correre ai ripari. Anche se, forse, correre è un
termine esagerato, più adatto a un angelo come Gabriel, che i pochi
giorni sulla Terra li passava a fare jogging per i sentieri di St.
James’s Park, quando ancora non aveva mosche per la testa e farfalle
nello stomaco. Quello di Aziraphale invece è una paciosa camminata,
o ancor meglio, un elegante cenno del braccio che cancella ogni
spavento e brutto ricordo, lasciando agli umani solo un senso di
dolce calma trascendentale che per qualche ora li farà camminare a
mezzo metro da terra.
E Crowley è pronto a scommettere fino
all’ultima pianta che ancora possiede (e che ancora non ha
terrorizzato a morte) che il sublime Gabriel non saprebbe
nemmeno dove cominciare per realizzare un miracolo del genere.
Alla chiusura, Aziraphale lo
raggiunge; in una mano una tazza di cioccolata calda (per sé),
nell’altra un bicchiere di vin brulé (per lui) e sottobraccio un
libro appena recuperato da uno degli scaffali.
«Quella bambina è stata davvero rude,
non c’era bisogno di urlare a quel modo. E poi, dire che volevi
mangiarla… che assurdità.»
Sorride mentre adocchia Crowley che,
oltre a essere demone, è anche serpente. O almeno lo è nei giorni in
cui le basse temperature gli ricordano i tempi in cui era una bestia
a sangue freddo, e che l’inverno non lo ha mai sopportato – senza
contare che ospita l’unica festa in cui si è tutti più buoni.
E se questo non è un calcio là dove non batte il sole, alla sua
natura di terribile-terribile-ohpersatanaquantoècattivo
demone, allora non sa proprio cosa sia.
Non che Crowley voglia tornare agli
inverni da medioevo; quelli li ha passati tutti in letargo, a
dormire nei covoni di paglia secca di qualche stalla abbandonata o
tra le pecore di qualche povero pastore del sud della Scozia.
Prima poteva permettersi di dormire
per ere intere senza preoccupazione alcuna, e al suo risveglio gli
piaceva lasciarsi stupire dalle nuove creazioni degli umani, da quanti
passi avanti fossero riusciti a fare ed eppure quanto poco fossero
cambiati. Ma prima, il suo rapporto con Aziraphale era diverso; e
allora adesso tanto vale far la muta, cambiar pelle e strisciarsene
contento tra i cuscini riscaldati della libreria.
Al suo silenzio, Aziraphale si fa
avanti preoccupato.
«Perché non avevi intenzione di
mangiarla, vero?» domanda, col tono di chi sa di aver chiesto
qualcosa di profondamente stupido – ma, in fondo in fondo, non meno
legittimo.
Crowley solleva un occhio dorato su di
lui, schiude le fauci e tira fuori la lingua biforcuta.
«Oh, smettila! Lo sappiamo tutti e due
che puoi parlare. E anche se così non fosse, devo ricordarti che
conosco la lingua di tutti gli animali e so riconoscere una
pernacchia quando la vedo?»
Il demone ridacchia – cosa che
normalmente strapperebbe ad Aziraphale un sospiro minuscolo e
un’occhiata un po’ troppo insistente alle sue labbra, ai suoi canini
appena pronunciati e al modo deliziato con cui non teme mai d’essere
se stesso.
Ma ora, arrotolato tra i cuscini, c’è
un serpente che ride, un serpente dalle scaglie nere e le sfumature
rosso inferno, ché quei colori ormai fan parte del vessillo Crowley.
«Sssuvvia angelo, la colpa è tua che
mi fai domande offensssive» sibila, strascicando all’inverosimile
ogni “s”.
Aziraphale china il capo mortificato.
Appoggia sul primo ripiano disponibile cioccolata, vino e libro, e
si sistema le pieghe di un panciotto perfettamente stirato, che
forse una piega non l’ha mai vista in nessuno dei quasi quattrocento
lunghi anni d’utilizzo.
Crowley lo blocca prima che apra di
nuovo bocca.
«Ngk!»
Ruota la testa, un gesto esagerato che
non avrebbe problemi a ripetere nemmeno nella sua veste usuale –
dopotutto perché preoccuparsi di come funziona la colonna vertebrale
negli esseri umani, se tanto sei nato angelo e morirai demone? «Sssse
fai quella faccia mi uccidi, Azsssiraphale! Ti sssstavo prendendo in
giro, angelo credulone.»
«Crowley!» lo rimprovera l’angelo.
Gonfia le guance, in un broncetto che ha del ridicolo su quel volto
da uomo di mezz’età che Aziraphale si è scelto migliaia di anni fa,
e a cui entrambi si sono affezionati.
«Angelo~»
Soddisfatto, Crowley riappoggia la
testa tra i cuscini, si lascia avvolgere dal calore con un versetto
tenero poco da demone e più da peluche – ed è facile capire perché
riesca a fare colpo su grandi e piccini: affascinante diavolo
tentatore da umano e adorabile serpente nella sua versione a scaglie
e spire.
Aziraphale sospira, vinto.
«Ero venuto a chiederti se desiderassi
un po’ di compagnia» gli dice, anche se non ha davvero bisogno di
una risposta; in seimila anni, non è mai accaduto che Crowley lo
rifiutasse. Nemmeno quando lui vestiva i panni dell’Arcangelo
Supremo. È stato arrabbiato, gli ha messo il muso come un bambino
capriccioso o tirato frecciatine dolorose che si sono conficcate nel
petto, lasciando cicatrici a forma di cuore spezzato, ma non l’ha mai
rifiutato.
«Mhm. Cossss’hai portato quesssta
volta?»
«Emily Brontë? Se non ricordo male
eravamo arrivati a buon punto.»
Tra le fauci di Crowley si dipinge
quella che Aziraphale crede sia una smorfia pensierosa; non
risponde, ma nemmeno si lamenta e l’angelo lo prende come un quieto
consenso.
Prende posto tra i cuscini,
inforca gli occhiali da lettura e, davanti a sé, una prima edizione
originale di Wuthering Heights[1]
si schiude delicata, per tossire fuori le parole stampate e
incollarle sulle finestre della vetrina.
Non dovrebbe abusare dei miracoli; il
cassetto della scrivania è pieno delle lettere di reclamo dal
Paradiso – e delle polaroid demoniache che Beelzebub invia loro da
Alpha Centauri, per far invidia a Crowley o forse per ricordare ad
Aziraphale che l’amore è amore, anche quando è tra un demone e un
angelo zuccone. Il punto è che non dovrebbe, lo sa bene, ma le mani
gli servono libere, e allora cos’altro può fare?
Apre a coppa le dita davanti al volto
e vi alita sopra, a lungo, respiri angelici così caldi da renderle
bollenti.
«Sono pronto» annuncia tutto fiero,
una volta completato il suo rito.
Crowley gli regala un’occhiata
indolente.
Si prende il suo dolce tempo. Gli
piace pensare che sia per vendicarsi di tutte le volte che
Aziraphale lo ha lasciato a mollo nell’attesa – Seimila anni,
angelo! Un bacio sul ciglio della disperazione, angelo! Un viaggio
in Paradiso per diventare Arcangelo Supremo mentre io me ne stavo
qui a cuocere nel mio patetico dolore, angelo! – ma la verità è
che l’unico a esserne torturato alla fine è solo Crowley, che
conosce una marcia sola ed è quella a tutto gas.
E allora rinuncia alle sue stupide
vendette e serpeggia tra le cosce dell’angelo. Scivola tra le pieghe
dei calzoni, percependo sul ventre la morbida trama del tessuto
d’alta sartoria; si arrotola intorno ai suoi fianchi teneri, dribbla
i bottoni del panciotto e striscia sul papillon di tartan. Solo
quando la testa trova la guancia di Aziraphale, finalmente si ferma,
con il suo respiro a vezzeggiargli le squame.
Comodo tra le sue braccia, Crowley si
riappropria di un corpo umano con cui può stringerlo e stargli a
cavalcioni sulle gambe. L’angelo lo abbraccia a sua volta e con mani
così calde da farlo avvampare gli accarezza la schiena, la nuca, il
retro del collo.
Tiene il freddo lontano da lui,
Aziraphale, ed è come avere una cometa incendiata a portata di mano.
Crowley affonda il volto nell’incavo
del suo collo, respira il profumo della nuova acqua di colonia che
il barbiere gli ha consigliato (c’è una nota legnosa e una punta di
liquirizia), assapora il profumo della sua grazia e del suo amore
angelico, fino a farne indigestione. Solo poi si ricorda del
bicchiere di vin brulé appoggiato lì vicino, quando ormai sembra
quasi superfluo.
«Mhmmm… ora puoi cominciare, angelo»
mormora a occhi socchiusi.
Aziraphale gli stampa un bacio sotto
l’orecchio, là dove il tatuaggio si sta pigramente risistemando,
risalendo la mandibola del demone.
«Dunque, dov’eravamo arrivati?»
chiede, sfogliando i vetri.
Crowley finge di doverci pensare.
Quando risponde, il sibilo delle “s”
si sta lentamente ritirando: «Zingaro orfano protagonisssta numero
uno—»
«Heathcliff…»
«Ha scoperto che l’amore della sua
vita protagonista numero due—»
«Cathrine…»
«È morta dando alla luce la figlia.»
«Oh, giusto, giusto. Ora ricordo, mio
caro.»
Aziraphale ritrova il segno, non che
l’avesse perso davvero, ma gli piace sapere che Crowley presta
attenzione le volte che legge per lui, che lo ascolta e condivide
con lui il suo hobby, anche solo per avere una scusa per stare
insieme.
Alza lo sguardo alle parole che
inchiostrano i vetri, si schiarisce la gola e inizia a leggere.
O questo è quello che avrebbe voluto fare; invece quando gli occhi
azzurri accarezzano le prime parole, Aziraphale sente la lingua
annodarsi e non ricorda più come si pronuncino.
Il suo cuore grida all’ammutinamento e
veleggia verso lo stomaco, dove lento affonda con la pesantezza di
un sacco riempito a pietre.
«Tutto bene, angelo?» Crowley lo
chiama piano, ne osserva il profilo e il tremore leggero delle
labbra.
«Ma certo, caro. È… è solo il mio
tedesco; è un po’ arrugginito, ma ora ci sono» gli risponde, con un
sorriso tiepido – e se è vero che gli angeli sono incapaci di
mentire, è anche vero che Aziraphale non è mai stato il migliore tra
i cori celesti (seppur non per mancanza di impegno).
Si schiarisce di nuovo la gola e
quando finalmente comincia a leggere, lo fa con un fervore che non
sapeva di possedere. C’è la passione prepotente di Heathcliff in
quelle parole, ma tra gli spazi s’infilano anche i mesi passati in
Paradiso a sbattere contro muri d’ignoranza e combattere contro la
lama di una giustizia spietata e implacabile. Da solo.
«Sii sempre con me, assumi qualsiasi
forma, fammi impazzire! Solo non lasciarmi in questo abisso dove non
riesco a trovarti! Oh Dio! Non ci sono parole per dirlo! Non posso
vivere senza la mia vita! Non… Non posso vivere senza la mia anima…»
Deglutisce, anche se gli sembra di
ingoiare sabbia e sale.
Crowley si tira indietro con la testa,
il suo volto spigoloso a occupare la visuale di Aziraphale, mentre
affonda dita lunghe e affusolate tra riccioli che hanno il colore
della neve ma profumano di sole.
Lo bacia piano; prima sulla fronte,
coccolando ogni ruga finché non la sente distendersi sotto le
labbra. Poi ne bacia le palpebre, le ciglia chiare che sfarfallano
accarezzate dal respiro lento – ché in fondo anche lui ha imparato a
rallentare qualche volta, a godersi ogni singolo momento e poi a
cercarlo sulla pelle del suo angelo.
Quando finalmente arriva alla sua
bocca, la trova già schiusa per lui e le alitate d’impazienza di
Aziraphale gli scivolano sulla lingua mentre la spinge tra le sue
labbra, affondando in un calore che sa di panna e cioccolata, ma
anche di miracoli e arcobaleni e di tutte quelle cose meravigliose
(e forse un po’ stupide, ma non troppo) che gli vengono in
mente quando pensa all’angelo.
«Sono qui, angelo. Non vado da nessuna
parte» mormora in un sussurro che è appena un po’ più forte di un
fiocco di neve caduto a terra.
Le guance di Aziraphale si tingono
della stessa sfumatura di rosso dei capelli del demone, il colore
della tentazione su un volto da Paradiso.
«S-stavo leggendo, Crowley.»
«Lo so, angelo. Lo so.»
«Oh» borbotta pianissimo, spogliato di
ogni scusa. «In questo caso, magari, potresti…»
«Mhm?»
«Un altro bacio sarebbe molto
gradito.»
Crowley ridacchia, ma non si tira
indietro.
Seimila anni passati ai lati opposti
di un campo da gioco grande quanto l’universo e mai una volta che
abbia rifiutato qualcosa ad Aziraphale. E di certo non comincerà
ora.
«Angelo viziato» bisbiglia divertito
tornando a baciarlo, lento, assaporando meticoloso ogni centimetro
della sua bocca, come se avessero tutto il tempo del mondo davanti a
loro – e dopo un Apocalisse mancato e una Seconda Venuta
scongiurata, si potrebbe dire che sia esattamente così.
Oltre una vetrina su cui si stampa
l’intera opera della Brontë, la neve ha iniziato a scendere copiosa
imbiancando le strade di Londra; ma nella libreria di Aziraphale
l’inverno non arriva mai.
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