Nei
giorni facili
“Mi chiedi come sto e non te lo dirò | Il nostro vecchio gioco era
di non parlare mai”
Pastello bianco
Non è ancora l’alba quando il rumore della pioggia sulla finestra
sveglia Katniss e non le permette di riaddormentarsi. Il ricordo della
discussione che ha avuto con Peeta solo la sera prima si ripresenta prepotente
e si ritrova a smaniare un po’ fra le lenzuola. Sa già che restare a letto non
è un’opzione e il frastuono di quel diluvio è l’ennesimo segnale di una
giornata che ha tutte le intenzioni di essere uguale a quelle delle ultime due
settimane. Non potrà andare nel bosco, né potranno continuare i lavori di
ricostruzione del distretto finché i materiali non saranno nuovamente asciutti
e utilizzabili.
Si sente sopraffatta, in casa. Le sembra di essere tornata
prigioniera del distretto 13, a quei giorni in cui combatteva per tenere in
piedi la sanità mentale, ma per lei tirarsi fuori dai pensieri invasivi non è
mai stato facile.
Ha sempre pensato che nella vita ci fossero cose facili e cose
difficili.
Da piccola, facile era affidarsi a suo padre, cantare con lui e da
lui imparare a tirare con l’arco.
Difficile è stato non avercelo più, un padre.
Facile era persino lasciare il suo letto ogni mattina, rimboccare
le coperte di Prim, lavarsi e indossare sempre la stessa giacca di pelle per
andare nei boschi a cacciare per non morire di fame.
Difficile è stato scoprire che esistono infiniti modi per
morire.
E poi, che persino morire poteva essere semplice - come per
Prim, svanita in un lampo di fuoco - oppure poteva essere un tormento - come
per Finnick, il corpo dilaniato dagli ibridi per minuti infiniti.
«Katniss?»
Peeta è difficile. Lo è stare al suo passo ogni volta che
concentra ogni briciolo della sua forza di volontà in attività positive e
costruttive. È difficile quando si ostina a volerle tirare fuori parole di
bocca. Come ti senti, lo vedo che stai male, esprimiti, a che gioco stai
giocando? Katniss, non dobbiamo fare sempre lo stesso errore.
«Katniss?»
Ma Peeta è difficile anche perché è disarmante in modi che Katniss
ancora non sa definire e - maledizione - lei non sa vivere senza
difendersi.
Katniss, a volte, non sa vivere.
«Sono sveglia»
«Lo so, e capita spesso… ti va di parlare?»
«Non ce la faccio a parlare»
«Già, non ce la fai mai»
Con uno scatto si mette seduta sul letto che condividono di nuovo
ormai da qualche settimana. Aiuta ad allontanare i fantasmi e gli incubi.
Ma in quei giorni strani, costretti in casa, nessuno dei due
riesce a sedare i pensieri senza qualcosa a tenerli impegnati. E se lei resta
lì, stesa, al buio, con la pioggia martellante sui vetri delle finestre e la
pressione di Peeta che vuole farla sfogare, impazzirà. Quelle riflessioni
vorticose cominceranno a stringersi intorno alla gola e non le daranno
tregua.
Così scosta il lenzuolo e si gira a guardare Peeta un’ultima volta
prima di andare in cucina e cominciare la giornata con largo anticipo. Le
dispiace averlo svegliato, così come le dispiace non essersi avvicinata a lui
mentre dormiva. È stata una stupida, tenerlo a distanza è l’ultima cosa che
vuole.
«Vieni?» gli chiede, mentre si infila la vestaglia, nel debole tentativo
di un’ammenda.
Peeta si preme le mani sugli occhi e gonfia le guance.
«Tra poco»
Non la guarda.
Sa di essere stata brusca, ieri e già oggi, ci riflette mentre si
incammina verso la cucina.
Io non sono come te. Glielo ha scagliato addosso
con asprezza, prima di dargli le spalle tutta la notte.
La verità è che lei sa che Peeta ha ragione a insistere. Dovrebbe
parlare di più, dirgli di quanto si senta continuamente vuota e lacerata dentro
la pancia, la testa e ovunque al solo pensiero di non poter rivedere Prim. Di
quanto il pensiero di ogni persona che ha visto morire la faccia sentire quasi
distaccata dalla realtà. Di quanto le manchino sua madre e suo padre, quelli
che ritrova nei ricordi della sua infanzia. Di quella sensazione di avere il
tempo contato, come se nuovi giochi possano essere indetti da un giorno
all’altro per metterli di nuovo alla prova con nuove torture e nuove
bestie. Della paura di separarsi da lui, di nuovo.
Ma non è mai facile.
E, soprattutto, dovrebbe dirgli che se non la guarda e resta con
gli occhi chiusi, allora non c’è più niente che la tenga legata alla realtà, che
quell’azzurro è cielo e mare e il mondo che va avanti a dispetto di
tutto.
Gli chiederà scusa per essere stata sgarbata, più tardi, appena i
pensieri di quella notte saranno dissipati.
In piedi davanti al bancone della cucina, mentre aspetta che il tè
che ha preparato - due tazze, la seconda con due cucchiaini di miele - si freddi
un po’, sta per aprire un pacco di biscotti con le mani quando il pensiero di
Peeta che disapprova quel modo di fare le fa spuntare un lieve sorriso.
Quando Peeta arriva in cucina, lei ha appena aperto il cassetto
dove lui ormai conserva tutta una serie di attrezzi da cucina che usa quando si
trova da lei e sta ancora guardando lì dentro cercando una forbice per il suo
pacco di biscotti quando lui arriva alle sue spalle. Rendersi conto di saper
riconoscere i suoi passi fra mille - sempre pesanti, mai silenziosi - è
qualcosa che la aiuta a rasserenarsi.
«Hai dormito con la treccia.»
Katniss sente distintamente una mano di Peeta percorrere la
lunghezza dei suoi capelli. Lo fa spesso e in quel momento è una distrazione
dalla ricerca in cui era impegnata. Una parte di lei pensa che forse non ci
sarà alcun bisogno di scuse, forse riusciranno a comprendersi anche stavolta
senza parlare e non ci sarà bisogno di dare voce a quei pensieri che le hanno
rubato il sonno e la notte e il calore di Peeta.
«Non ci ho fatto caso» risponde.
«L’ho guardata per tutta la notte.»
Ma un’altra parte di lei, la cacciatrice, avverte una nota
stonata nella voce di Peeta, che non ha niente a che fare con il fatto che sia
appena sveglio. C’è la sfumatura di un dubbio in quell’affermazione. È la misura
del peso che lei ha avuto nella sua vita.
«Katniss, a Capitol… ne ho viste a decine» riprende. Le dita delle
sue mani diventano più sgradevoli mentre si insinuano fra le ciocche
accavallate.
«Peeta, per favore, devi allontanarti»
Katniss adesso lo sa che ad aver ragione è il suo istinto. Peeta
sta lottando contro qualcosa e ne ha la convinzione nel momento in cui l’altra
mano afferra il bordo del mobile e stringe fino a farsi diventare le dita
bianche. Non le farà del male, ne è certa allo stesso modo, altrimenti quella
mano si troverebbe sulla sua gola. Non ha fatto in tempo a isolarsi, le ha
afferrato i capelli prima di rendersi conto del temporale fra i suoi pensieri.
«Katniss…» sussurra, stavolta con una nota di disperazione,
mentre con un movimento incontrollato strattona la treccia.
La testa di Katniss scatta all’indietro e le mani corrono ad
afferrare i capelli alla base della nuca per sentire meno la tensione
esercitata da Peeta.
«Peeta, non è reale» mormora, angosciata, mentre si dà della
stupida per aver pensato che tutto potesse risolversi con delle scuse e che
quei pensieri molesti che giorno e notte tornano a trovarla appartengano solo a
lei e abbiano la capacità di svanire col sole.
Stupida, stupida Katniss.
Appartengono anche a Peeta, e gli appartiene anche una continua
selezione fra menzogne e verità.
Si dà della stupida per non aver capito di essersi avvicinata
troppo al limite - suo, e di Peeta - con i suoi silenzi, la cocciutaggine e
quel cuore blindato che si ritrova.
E si rende conto che, nonostante tutti i macigni che si portano dietro,
nei momenti in cui lei vorrebbe solo nascondersi e svanire Peeta la trova - la
trova sempre - e la risolleva ogni volta che la vede sprofondare nei
peggiori ricordi. Quando non ce la fa - come in quel momento, schiavo di bugie
insinuate nella sua mente e gravato da chissà quali assurdi ricordi - e
sprofonda con lei, tocca a lei tirare fuori entrambi.
Katniss lo sente appoggiare la fronte sulla sua spalla e ansimare,
tormentato da lampi e fulmini che gli sono esplosi nella testa e si ritrova a
pensare che di essere stanca di vederlo ridotto così. Vorrebbe riuscire a
tenerlo al riparo da ogni burrasca, proteggerlo anziché riversargli
addosso la sua asprezza.
Vorrebbe schioccare le dita e far arrivare la primavera con i suoi
denti di leone, vorrebbe un taglio netto sulla distruzione che hanno vissuto e
che li ha portati in quella cucina a cercare brandelli di una vita normale.
Un taglio netto con tutto ciò che ancora può collegarla a Capitol
e alle torture che Peeta ha subito a causa sua.
È colpa mia è un pensiero che non può ignorare ogni
volta che lo vede isolarsi e afferrare lo schienale di una sedia.
Quando allunga la mano nel cassetto rimasto aperto per afferrare
una forbice, Katniss non pensa più. Con gli occhi gonfi di lacrime, si flette
più che può per recidere i suoi capelli appena sotto la sua mano.
Un taglio, due, tre. Un lasso di tempo sufficiente a far
allontanare Peeta dalla sua spalla e scacciare i tormenti dai suoi occhi per
lasciare posto a un’espressione disorientata, le dita ancora aggrovigliate fra
le ciocche che adesso cominciano a disfarsi nella sua presa.
«Katniss… cosa hai fatto?»
«Non lo so» dice, mentre comincia ad essere scossa dai singhiozzi
«Scusa»
Ho spezzato un legame col passato, ho lacerato qualcosa fuori per
sentirmi meglio dentro.
Peeta si libera dai capelli che gli sono rimasti in mano e le sue
braccia la avvolgono prima che lei se ne renda conto, sente il calore lì dove
adesso c’è solo pelle nuda sfiorata da ciocche tagliate male, le sue labbra si
posano ripetutamente sulla sua testa e la sua voce gli arriva nitida
all’orecchio senza più nessuna ombra nell’intonazione, adesso «Mi dispiace mi
dispiace mi dispiace»
«Non importa»
«Mi dispiace»
Restano stretti in un abbraccio a mescolare lacrime e respiri per
diversi minuti. È una litania di sospiri quasi confortante che ormai fa parte
di loro come dopo ogni incubo, dopo ogni paranoia, dopo un rumore improvviso
che mette in allerta ogni senso. Dopo una passeggiata nel distretto sulle
macerie della loro vecchia vita.
È Peeta a rompere il silenzio, con parole che lei ha previsto e
che non vuole sentire.
«Dovrei tornare a casa mia, Katniss»
«No!» Katniss riconosce il panico nella sua stessa voce.
«Guardaci, non siamo pronti… Avrei potuto…»
«Non mi avresti fatto niente»
«Non puoi saperlo»
«Invece lo so e basta. E lo sai anche tu. Non devi… Non devi
sentirti responsabile, non è colpa tua.»
Peeta infila le dita ai lati del suo viso e continua a osservarla,
come se volesse leggerle la mente, scrutarle i sentimenti e l’anima. A Peeta
servono parole e lei deve saperle pronunciare.
«Ho bisogno di te, Peeta.» sussurra, e le sembra di riavvolgere un
nastro per riportare tutto all’indietro fino a un cielo rosa e onde che si
infrangono sulla riva «Anche quando sono intrattabile o quando sto in silenzio.
Ti prego…»
«Katniss, mi dispiace. Ho insistito troppo.» mormora, e lei per un
po’ si limita a osservarlo. È in pena, è combattuto ed è chiaro che vorrebbe
fuggire via e portare quel disagio con sé in qualunque posto purché sia lontano
da lei. Nella sua vecchia casa, o da Haymitch, persino in un angolo del Prato
dove dalle ceneri della distruzione stanno nascendo nuovi fili d’erba.
«È giusto, hai ragione tu. Sono i consigli di Aurelius*, lo
so. Io… sono solo stanca di rivivere tutto» mormora, perché la verità è che su
quel nastro che ha riavvolto non c’è nessun punto che sia sereno, nessuno dei
due ha un passato che sia sgombro da orrori e preoccupazioni. C’è ancora
qualche lacrima che fugge dai suoi occhi, la asciuga con il dorso della mano
prima di riprendere «Ascolta, facciamo un gioco nuovo» aggiunge, sorprendendosi
un poco.
Allo sguardo curioso di Peeta si affretta ad aggiungere «Per me.
Una lista di cose belle del passato, del presente e del futuro.»
«È un’idea di Aurelius?» chiede lui, le sopracciglia aggrottate.
«No, mia!» sentenzia Katniss «Nata in questo preciso momento.
Perché voglio che resti»
«Vuoi che resti»
«Sì. Serve carta e penna.»
Katniss prova una strana delusione quando, dopo un altro lungo sospiro,
Peeta si allontana da lei e comincia a cercare il necessario per scrivere
aprendo il cassetto che invece ha riempito di pastelli di ogni tonalità, album
e matite.
Quando si siede, allarga una sedia anche per lei accanto alla sua.
È ancora turbato, Katniss se ne accorge dall’espressione degli occhi, dalla
frequenza dei respiri, dalle mani che massaggiano il collo e la nuca, ma sembra
disposto a provare.
«Comincio io, va bene?» dice.
Il tè si è raffreddato, fuori ha smesso di piovere, c’è persino un
timido raggio di sole fra le nuvole.
Peeta non è mai stato difficile, pensa mentre prende
posto accanto a lui e si perde a osservare le sue mani che scrivono parole per
questo nuovo gioco. Passato | Presente | Futuro
Forse non porterà a niente ma di sicuro può schiarire i pensieri,
almeno per un po’.
Le passa il foglio e punta gli occhi nei suoi. Non ci sono più
ombre, adesso, e Katniss vorrebbe davvero riuscire a dirgli che da quando ha
memoria per lei è sempre bastato trovare quegli occhi buoni e sinceri per
andare avanti e mettere in fila i giorni, uno dietro l’altro. Anche quelli
difficili, anche i giorni di pioggia e quelli in cui sembra che la primavera non
arriverà mai.
Ha cominciato dal presente, ha scritto Katniss.
Peeta è facile, è sempre stato facile.
Lei non ha nessuna esitazione quando prende la penna e scrive Peeta.
*Aurelius
è il nome del medico specializzato nella cura della salute mentale che ha in
cura sia Katniss sia Peeta fin dal periodo nel Distretto 13
***
Ciao a tutti!
Questa storia è stata scritta per il Contest “Pinguini in cerca d’autore!”
indetto da Rosmary sul forum “Ferisce la penna” e la citazione che l’ha
ispirata è quella tratta dalla canzone Pastello bianco dei Pinguini Tattici
Nucleari, menzionata anche in alto, “Mi chiedi come sto e non te lo dirò | Il
nostro vecchio gioco era di non parlare mai”
Sono tornata a scrivere di Hunger Games. Questo è un fandom
che ritorna spesso nei miei pensieri quando si presenta anche l’ispirazione io
sono sempre felice di accoglierla ♥
Ho sempre voluto scrivere di Katniss che si taglia i capelli, fin da quando ho concluso la lettura della saga per la prima volta, ma non ho mai avuto l'ispirazione per farlo, nessuna idea appropriata. Evidentemente, però, alcune cose restano ad aspettare finché il momento giusto non arriva.
In realtà questa fic aveva ben altre premesse nella mia
testa ma buttandola giù si è completamente trasformata. Riprende molti fatti
dell’epilogo della saga, ad esempio Katniss e Peeta che vivono insieme, ma si
colloca prima del vero/falso che riguarda i loro sentimenti.
Il gioco che Katniss inventa sul momento nella speranza di
tenere Peeta lì con lei fa riferimento alle parole che lei sussurra a sua figlia
nel finale “Faccio una lista nella mia mente di ogni cosa buona che ho visto
fare dalle persone, ogni cosa che ricordo. Anche la più piccola. È come un
gioco, la faccio, la rifaccio… È un po’ noioso dopo tutti questi anni, ma ci
sono giochi peggiori a cui giocare.”
L’intento era quello di scrivere qualcosa che non
fosse solo introspezione ma non credo di esserci riuscita! Non del tutto,
almeno!
Potrei aver fatto un minestrone ma sono stata comunque
molto felice di scrivere questa storia perché è una delle poche arrivate senza
troppo sforzo. Spero
che tutto risulti chiaro ♥
Mano sul cuore,
gabry